domenica 7 giugno 2020

prince, 'the rainbow children'


se c’è un disco di prince da sentire assolutamente al di fuori dei classici degli anni ’80, questo è ‘the rainbow children’, senza alcun dubbio la sua opera più riuscita dopo il 1989.
dopo un intero decennio di controversie, il cambio di nome, i casini con la warner, il figlio morto a due giorni dalla nascita, il matrimonio e divorzio con mayte e la ricerca a tentoni di una nuova formula musicale, prince trova finalmente un nuovo baricentro e lo fa gettandosi di faccia nella tradizione afroamericana: jazz e funk (e gospel) sono alla base di questa nuova veste. c’è ricerca, c’è sperimentazione, voglia di osare e andare oltre, tutto quello che era mancato dai dischi degli anni ’90.

il disco è come sempre suonato quasi interamente da prince ma introduce almeno due nuove “armi” che saranno fondamentali negli anni a seguire: larry graham, storico bassista di sly & the family stone, suona il basso su due brani (‘the work’ e ‘last december’) mentre john blackwell (accreditato nel booklet come ‘the magnificent’, a ragione) suona la batteria su tutti i pezzi. blackwell era un batterista eccezionale, insieme a bland è stato il miglior batterista di prince con uno stile tutto suo, coinvolgente, dinamico, fantasioso, potente e con un groove pazzesco che dal vivo sarà uno dei punti focali dei concerti, grazie anche alla sua ottima padronanza di una gran varietà di stili, jazz, funk, latin, rock (spesso con doppia cassa dal vivo) e quant’altro, perfetto per la nuova, variopinta direzione di prince.
da notare inoltre come il mix dell'album sia molto più asciutto e live rispetto alle produzioni precedenti, lasciando in primo piano gli strumenti con poco riverbero generale.

l’iniziale ‘rainbow children’ non fa nulla per mascherare le intenzioni: sono 10 minuti di lounge-jazz dai toni spiritual e gospel in continuo crescendo, lascia continuamente a bocca aperta, nonostante il lieve fastidio causato dalla voce narrante. ecco, parliamone subito e leviamoci la questione di torno. non ho alcuna intenzione di addentrarmi nei testi che formano il concept, preferisco fare finta di nulla e girarmi dall’altra parte perché odio il fatto che questo disco incredibile sia praticamente un opuscolo dei testimoni di geova. capisco che per prince questa ritrovata fede è stata importante per tanti motivi ma so anche che pochi anni dopo sarà lui stesso a ripudiarla per cui, per me, i testi sono una favola nonsense e poco altro, perché in alternativa dovrei dire che sono solo merda propagandistica da fanatici. ad ogni modo, la linea narrativa è affidata a una mostruosa voce filtrata che compare tra quasi tutti i pezzi e su buona parte del primo, può dare fastidio ma si può facilmente ignorare.
‘muse 2 the pharaoh’ ha un groove morbido e sexy su cui prince fraseggia liberamente col piano rhodes mentre con la voce passa dal classico falsetto ad armonie bizzarre a un rap tutto dinoccolato e traballante. ‘digital garden’ sposta invece le coordinate, è un pezzo stranissimo basato su un loop di percussioni su cui si apre un arrangiamento creativo in cui le voci si rincorrono e la chitarra commenta fraseggiando ma verso metà si placa in un break ambientale prima di un violento ingresso di chitarre elettriche, decisamente più di un intermezzo ma molto strano come pezzo. tutta questa stranezza viene bilanciata da pezzi come ‘the work pt.1’, non lontana dall’aperto tributo a james brown, un funk grandioso in cui le bacchette di john blackwell vi faranno muovere il culo in ogni secondo.

la voce di tia white apre ‘everywhere’, una festa di colori latin-jazz, ancora una volta con fortissime tinte gospel, ancora una volta con john blackwell protagonista insieme al nano, con una prestazione a dir poco stellare a sostegno di belle linee di fiati; prince da parte sua ci mette un bell’assolo di basso che porta alla coda del pezzo. ‘the sensual everafter’ è un breve strumentale che però mette in tavola una bella dose di synth e si fa apprezzare per le belle melodie della chitarra mentre ‘mellow’ ci riporta alle atmosfere lounge dell’inizio del disco con un morbido flauto traverso che punteggia tra le stratificazioni vocali. ‘1+1+1 is 3’ è goduriosamente old school prince, con melodie naif dai suoni acidi e un tiro funk essenziale che pare arrivare da ‘1999’, è un passo importantissimo: finalmente prince riesce a fare pace col suo passato e a interpretarlo in una nuova forma, ovvero quello che negli anni ’90 ha prima rifuggito e poi mancato. con tutta questa grazie si è disposti anche a passare sopra all’intermezzo ‘deconstruction’ e all’orrenda ‘wedding feast’, scritta dal nostro per il suo matrimonio con manuela testolini. meglio buttarsi nel groove profondo di ‘family name’, sorta di moderna ‘cloreen bacon skin’ poco più arrangiata prima di strutturarsi con l’ingreso di voci, chitarra e fiati, un gran momento di funk zozzo e divertente.
prima del finale arriva ‘the everlasting now’ a far tremare i muri, un funk viscerale (con una fantastica ritmica di blackwell) dal ritornello gospel e un intermezzo latin che non lascia respirare un secondo (in cui si palesa la grossa influenza di carlos santana sul prince chitarrista), una delle migliori party song del nano che dal vivo farà fiamme. 
è un peccato che ‘the last december’ non sia all’altezza e non soddisfi del tutto come chiusura: non è un brutto pezzo ma non ha nulla che lo faccia spiccare se non un senso di pacchiano che riporta a ‘gold’. per fortuna dopo un paio di ritornelli si apre in un riff maligno su cui parte un bel solo di chitarra con dietro blackwell più rock che mai, poi la struttura si fa addirittura prog, con obbligati, bruschi cambi di dinamica e aperture in una lunga sezione strumentale prima del moscio reprise finale.

tanta roba in questi 70 minuti, un sacco di idee che finalmente trovano una direzione precisa e chiara, restituendo ai pezzi di prince l’incisività di un tempo e regalandoci un disco divertente, colorato, dinamico ed interessante in quasi ogni suo minuto. il ‘one nite alone… tour’ che segue è talmente una figata che lo stesso prince lo userà per pubblicare il suo primo live ufficiale (recentemente ristampato in confanetto). la ventata d’aria fresca portata dalle nuove sonorità e dai nuovi musicisti andrà a trasfigurare anche i brani vecchi ma finalmente, dopo un decennio stanco, i fan saranno felici di sentire anche i pezzi di ‘the rainbow children’ che infatti verrà suonato quasi per intero.
il periodo jazz di prince ci regalerà ancora qualche perla rimasta più nascosta (‘xpectation’ e ’n.e.w.s.’ in particolare) per poi dissolversi con l’arrivo del moscio ‘musicology’, di dischi di questo livello purtroppo non se ne vedranno più (a parte quelli postumi) ma la verve resterà nei live incendiari degli anni successivi.

per riassumere? mi ripeto: se c’è un disco di prince post-1989 assolutamente da sentire, è questo.