sabato 21 dicembre 2019

classifica distant zombie warning 2019


blablabla un altro anno blablabla sticazzi.
dischi. 



non poteva che andare così, lingua ignota vince tutto. kristin hayter mostra un controllo totale della materia musicale, dalla tecnica alla composizione, arrangiamento e creatività senza mai dimenticare la profonda emotività che muove la sua arte.
una delle cose che trovo più affascinanti di questo disco è come riesca ad utilizzare i linguaggi svicolandoli dalle loro funzioni caratteristiche: ci sono parti neoclassiche soffocanti e nere e momenti noise/metal che funzionano da rilascio, aprendo la tensione in uno sfogo liberatorio. è una lingua “totale” che può incorporare qualsiasi cosa nel suo discorso, come dimostrano gli accenni liturgici dell’est europa tra le sfuriate noise metal.
un’opera stupefacente, profonda, drammatica, spaventosa, immaginifica e tremendamente densa, imperdibile.




questi quattro ragazzini se ne sono usciti con un disco pazzesco che gioca con tutto ciò che è rock e lo rimescola con un linguaggio dalla spiccata personalità, un torrente di musica su cui si contorce la particolare voce di geordie greep. con un’età media di 20 anni, è lecito aspettarsi grandi cose da questi inglesi e il secondo disco è già annunciato per il 2020.



3. full of hell, ‘weeping choir’

se i black midi hanno fatto un frullato di rock, i full of hell hanno fatto un frullato di orrore sonoro. tutti i generi più marci, lerci e rumorosi vengono fatti a pezzi e rimessi insieme, grind, noise, black e death metal, drone, doom, sludge, tutto quello che fa schifo e rumore viene magistralmente riutilizzato dai full of hell nel loro miglior disco, una collezione di riff pazzeschi, un'aggressività fuori dal normale e la capacità di scrivere dei brani e non solo strati di rumore.




il grande merito di ‘braindrops’ è di riuscire a spostare il baricentro della musica dei quattro australiani a neanche un anno dalla pubblicazione dello strepitoso esordio. è tutto più cupo (a partire dai suoni) e decisamente più emotivo, necessita di più tempo per essere assimilato ma alla fine non solo non delude, riesce anche a stupire di nuovo.



5. girl band, ‘the talkies’
‘the talkies’ è il secondo disco degli irlandesi girl band ed è semplicemente stupendo, un album in cui ansia, paranoia e ossessione esplodono con suoni che stanno tra l’industrial più urticante, un rock (circa) chitarristico che di regole armoniche non ne vuole sapere neanche alla lontana, momenti post-punk e un fitto lavoro di manipolazione preso dall’elettronica, che pure si fa sentire con qualche cassa quasi techno/bigbeat qua e là. un disco lacerante come la voce di dara kiely.




o’malley e anderson riescono a tornare a livelli eccelsi con una prova cangiante, colorata e addirittura dinamica (entro certi limiti, s’intende). gli ospiti si fanno sentire e la registrazione magistrale di steve albini dona varie dimensioni aggiuntive all’ascolto. 




da quanto tempo non impazzivo per un bel disco metal, grazie blood incantation. c’è chi li ha definiti i nuovi morbid angel, di certo l’influenza non manca ma questi quattro esplorano più a fondo una vena psichedelica che a tratti prende il sopravvento, bellissimo anche grazie ad una fantastica produzione analogica che non appiattisce ma esalta le dinamiche dei brani.




ce n’è voluto di tempo per avere un bel disco di santana ma finalmente ce l’abbiamo fatta: ‘africa speaks’ è divertente, coeso e soprattutto suona vivo, al contrario di molti(ssimi) dischi che l’hanno preceduto. il tema africano riporta unità e ricerca e il risultato è fantastico.



9. claypool lennon delirium, ‘south of reality’

se il primo disco era divertente, questo ‘south of reality’ riesce a sviluppare un suono meglio impastato, meno lennon+claypool e più delirium per intenderci, nonostante ci siano momenti evidentemente frutto della penna dell’uno o dell’altro. ciò non toglie che ‘south of reality’ sia una figata di rock sghembo tra prog e psichedelia sessantiana.



10. drenge, ‘strange creatures’

questo disco dei drenge può essere messo o tolto nella storia della musica e non cambierà assolutamente niente. nonostante ciò, trovo che i tre giovani inglesi siano molto bravi nel bilanciare melodia e impatto, oltre al loro incorporare vari suoni che vanno dal rock americano dei primi ’90 al post-punk, new wave e pure dei momenti quasi britpop.


questi i dieci che ho deciso di premiare ma è stato un anno veramente saturo di bella roba: mdou moctar, chitarrista tuareg del niger, è uscito con ‘ilana (the creator)’, un disco bellissimo che mischia blues, psichedelia e suoni desertici; sempre in tema "etnico", 'derin derin' dei turchi baba zula è una meraviglia lisergico-timbrica (lo so, non vuol dire un cazzo), una bellissima collezione di quadretti sonori dagli arrangiamenti strambi. gli schammasch hanno prodotto un altro mastodonte di doom/black/dark ambient, ‘hearts of no light’, che almeno un ascolto lo merita tutto e, per restare in tema di mazzate, ‘planet loss’ degli wallowing è un muro di suono violentissimo e stupendo. e ancora botte col grandioso 'everything that dies someday comes back' ad opera dei the body con gli uniform, marciume noise-industriale con beat distorti, urla orrende e chitarre acide e maleducate. figata anche 'pollinator' dei cloud rat, una sorta di grind acido e corrosivo che attacca alla faccia tipo face hugger.
shabaka hutchings torna coi suoi the comet is coming con ben due dischi e un ep, tra i quali spicca il bellissimo ‘the afterlife’, là fuori tra jazz cosmico, elettronica e ritmiche tribali. a proposito di elettronica, l’avete sentito ‘ecstatic computation’ di caterina barbieri? fatelo perché è una goduria di suonini e arpeggiatori che vi coccolerà come facevano certi tangerine dream; e già che ci siete, date un ascolto anche a ‘utility’ di barker, un tizio che ha fatto un disco techno senza cassa. il risultato è una cosa molto morbida e luminosa che però non manca mai di avere un beat, molto bello.

è anche uscito il megacofanettone di woodstock che finalmente ci ha dato modo di godere dello spettacolare concerto dei creedence, assolutamente imperdibile (in particolare la cover di 'i put a spell on you' è da pelle d'oca), oltre al tanto bistrattato e per nulla brutto live dei grateful dead.
quindi parentesi nerd: coi 4 'dave's picks' usciti quest'anno è andata bene assai, l'unico pacco è stato un '79 ma almeno il primo dell'anno (vol.29) è un '77 da lacrime con un secondo set a dir poco esaltante. non posso pronunciarmi ancora sull'ultimo dell'anno perché i servizi postali hanno deciso che devo aspettare... ma è un '73 e ho pochi dubbi in merito, è sicuramente strepitoso.
per chiudere con live e ristampe, 'tuscaloosa' dagli archivi di neil young è una perla, suonato perfettamente da una band durata troppo poco.

e poi c’è prince. ovviamente non posso metterlo tra i dischi dell’anno perché non vale ma quest’anno ne abbiamo avuta di roba. il bellissimo ‘originals’ ha stupito e soddisfatto abbastanza ma il cofanetto di ‘1999’ è, permettetemi, una sega a tre mani, due non bastano. il remaster non l’ho neanche ascoltato e me ne frega molto poco ma i due cd di inediti dalla vault sono uno scrigno di tesori perduti con gemme incredibili su cui svettano almeno l’intensa take intera di ‘how come u don’t call me anymore?’ e la splendida ‘moonbeam levels’ (ma è tutta una festa). poi c’è lo strepitoso live audio, un documento fondamentale per capire la musica del nano in quel periodo, e pure quello video, dalla qualità non eccelsa ma comunque imperdibile.


le delusioni non sono state molte, penso ai magma che  non mi hanno convinto con ‘zess’, troppo orchestrale e poco magma, e agli ulver il cui ‘drone activity’ penso sia stato scritto in mezz’ora al massimo. non mi sono piaciuti i tanto osannati fontaines dc, che mi sembrano una tribute band dei clash, e i cattle decapitation, troppo prodotti, plasticosi e finti.
non ho nessuna voglia di parlare di nick cave.
sulla linea di confine tra il meh e l'orrore stanno gli opeth che si sbilanciano un po' di qua e un po' di là.
molto più interessanti le vere e proprie vaccate: i baroness vincono senza dubbio la palma di peggior disco dell’anno, solo perché non ho voglia di pensare alla merda di un decennio intero se no probabilmente sarebbero in top ten. è un disco vergognoso con canzoni demenziali, suonate malino, registrate col culo e con una produzione a dir poco ridicola, complimenti, di merda così non se ne sente tanta.
townsend si aggiudica il secondo posto con l’osceno ‘empath’, una caciottata fatta di patchwork orrendi e iperprodotti che annoiano per un’ora e un quarto senza andare mai in nessuna direzione.
bella schifezza anche il nuovo no-man, atteso per anni e deludente in tutto e per tutto: composizione approssimativa, melodie stanche, arrangiamenti scontati, ben poco da salvare.
citazione finale per l’insulsa presa in giro dei tool. non sto a dire altro, è come sparare sulla croce rossa.

bello, un sacco di roba interessante, una manciata di disconi e qualche stronzata di cui ridere, un buon anno. le premesse per il 2020 sono un nuovo black midi e soprattutto ‘no good to anyone’, ritorno dei today is the day anticipato dal devastante singolo, se mantiene le promesse non ci sarà molta gara ma staremo a vedere.

sabato 30 novembre 2019

blood incantation, 'hidden history of the human race'



che meraviglia le sorprese di fine anno; uno pensa che i giochi siano fatti, poi spunta sempre il discone dal nulla che ti fa cadere la mascella.
in questo caso parliamo di metallo, di quello pesante. molto pesante.
i blood incantation sono un quartetto di denver al loro secondo album e parliamo di uno dei migliori dischi metal che abbia sentito da un po' di anni. death metal nella fattispecie, con riferimento principale i sempiterni morbid angel (mai abbastanza lodati, viva viva) ma anche i death del secondo periodo, da ‘human’ in poi. sono riferimenti piuttosto marcati, infatti non parliamo di un disco che cambierà le carte in tavola; tuttavia i blood incantation hanno un loro tocco personale, rintracciabile soprattutto nelle chitarre psichedeliche che solcano l’inferno sonoro sottostante e in momenti spaziali e dilatati, finestre aliene che rendono il disco dinamico e originale.

incredibile a dirsi, parte della grandezza del disco sta anche nel mix e master: finalmente un disco metal estremo che gode di un respiro dinamico, in cui la batteria suona come tale e non come un midi programmato (vedi tutto il panorama metal-core e buona parte di quello metal “generale” dal 2000 in poi), il basso fretless trova sempre il suo spazio per farsi sentire e il master è spazioso e fangoso allo stesso tempo, senza perdere in definizione o potenza. 

pochi dubbi su dove vada il merito: l’intero album è registrato in analogico su nastro ai world famous studios e mixato da pete deboer, già con living colour, george clinton, nora jones, dmc, branford e winton marsalis, nels cline… uno che il suo lavoro lo sa fare e si sente. il gruppo deve averci speso una cifra non indifferente ma il risultato giustifica ogni dollaro, è un disco che suona meravigliosamente.
la tecnica di certo non manca ai quattro americani, le chitarre  (morris kolontyrsky e paul riedl, anche al growl) aggrediscono ma hanno un groove fantastico, il basso (jeff barrett) è fantasioso quando serve, altrove è un pugno in faccia mentre la batteria (isaac faulk) non è mai ferma, senza mai risultare però invadente o troppo in primo piano; in più tutti i membri del gruppo si occupano di synth vari (moog, jupiter, prophet, etc).

quattro pezzi di cui uno da 18 minuti su 36 totali di musica, ognuno con le sue peculiarità: ‘slave species of the gods’ aggredisce con tutti i morbid angel possibili e una serie di riff micidiali tra groove e tremolo, ‘the giza power plant’ introduce chitarre psichedeliche in profumo mediorientale (sì, ricordano i nile), ‘inner paths (to outer space)’ è tutta là nello spazio, anche quando gli strumenti sovrastano i synth; il gran finale si chiama ‘awakening’, dura 18 minuti ed è una vera e propria suite in cui la destrutturazione del progressive prende il comando, sempre facendo uso di blast beat, riff tremolo epici e ritmiche tritamacigni, con oasi ambientali che, come l’alieno in copertina, guardano le galassie più lontane. il finale doom che sembra omaggiare i my dying bride prima di congedarsi in acustico è la chicca finale di un album che riserva una sorpresa dietro l’altra.

è un disco narrativo, scritto benissimo, suonato da paura, con un mix e mastering tra i migliori che il metal abbia offerto da tanto tempo. è vero che non cambierà le sorti del genere ma di dischi fatti così bene non se ne sentono spesso, praticamente un instant classic, che venga dal 2019 o dal 1994 poco importa.

mercoledì 13 novembre 2019

subterranean masquerade, 'suspended animation dreams'


son passati 14 anni dall’uscita di ‘suspended animation dreams’, è passata un sacco di acqua sotto ai ponti. nel frattempo i subterranean masquerade di tomer pink sono spariti per dieci anni, si sono sciolti, si sono riformati con una formazione sconvolta, poi hanno cambiato ancora qualcuno e intanto hanno fatto un altro paio di dischi, purtroppo piuttosto trascurabili, al contrario di questo gioiello del 2005.

se dovessi indicare una manciata di dischi prog post-2000 che valga veramente la pena sentire, di mezzo ci sarebbero sicuramente ‘the perfect element’ dei pain of salvation, ’de-loused in the comatorium’ dei mars volta, ‘part the second’ dei maudlin of the well, ‘disconnected’ dei fates warning e ‘suspended animation dreams’. 
i perché sono molteplici, quello principale è che tomer pink (unico autore delle musiche) con i mezzi del prog riesce a costruire canzoni e non esercizi o catene di parti incollate; c’è poi la goduriosa varietà negli arrangiamenti, che coinvolgono oltre ai classici strumenti rock anche archi, fiati, percussioni di vario tipo e strumenti a corda esotici; non ultimo c’è anche il meraviglioso artwork di travis smith (che poi è il motivo per cui ascoltai il disco a scatola chiusa).
nonostante il disco faccia largo uso di elementi metal (chitarroni, growl, doppia cassa), non suona assolutamente come le produzioni di genere di quel periodo, ben lontano da ipercompressioni, trigger plasticosi o tamarrate assortite, preferendo un profilo più rock e dimesso anche nei momenti più aggressivi.

‘suspended animation dreams’ è perfettamente strutturato e rapisce con la sua narrativa, gioca con le dinamiche e soprattutto con le stratificazioni sonore, purtroppo, è da dire, non aiutato in questo da un mix un pelo sgonfio che lascia un po’ poco spazio alle chitarre e tende ad appiattire le esplosioni. considerando però che il mix è ad opera di neil kernon (queensryche, judas priest, brand x, yes, peter gabriel, nevermore, nile, cannibal corpse… più gli altri) viene più da pensare che ad essere carenti fossero le take e si sia dovuto intervenire per migliorarle, oppure semplicemente si è cercato un suono più rock e meno metal che potrebbe stare nell’estetica del disco; purtroppo però questo penalizza un po’ le parti più pesanti anche se non gravemente.
‘no place like home’ è un labirinto sonoro che però non ha nulla della frenesia tipica di altre band (mars volta ad esempio), si snoda lungo una struttura articolata che ora profuma di black, ora di pop, ora di spezie mediorientali; ‘the rock n roll preacher’ riesce a coniugare growl death metal e arrangiamenti di fiati r’n’b (uno dei momenti più entusiasmanti dell’album) partendo da un riff secco e maligno e passando per una parte centrale larga e ariosa guidata dal piano e pure un’apertura psichedelica dilatata. c’è l’influenza degli opeth, inutile negarlo, ma è filtrata da mille altri colori, sembra quasi di assistere alla versione compiuta di quello che akerfeldt ha cercato di fare coi pessimi ‘sorceress’ o ‘in cauda venenum’, un mix di anni ’70 e metal estremo che qui però ha una precisa forma ed è messo al servizio di una scrittura genuinamente ispirata.
‘awake’ è il pezzone, 14 minuti abbondanti con un crescendo in 6/8 da brividi che apre in uno svacco semi-etnico ipnotico e straniante; il finale si concede a una furia emotiva che si porta via tutto, prima del bellissimo epilogo ‘x’, affidato alla calda voce di wendy jernijan.

una critica che si può fare è sulle linee melodiche, non sempre perfette e un pelo ripetitive: se da un lato questo aiuta la coesione, dall’altro ogni tanto fa desiderare un profilo melodico più ricco e colorato. in ogni caso l’interpretazione di paul kuhr (november’s doom) è ottima, sia in pulito con un tono baritonale pieno e profondo che in growl.

interessante notare come il gruppo non utilizzi troppi cambi di tempo, tempi dispari, obbligati o assoli, tutti classici strumenti del progressive; non che non ce ne siano, le composizioni però sono più focalizzate su un continuo movimento strutturale, il che sulla lunghezza del disco aiuta l’ascolto rendendo la musica più fluida e narrativa.

non è un disco perfetto, nessuno però può negare che sia anche un disco originale, ispirato, profondo e molto soddisfacente all’ascolto, mai troppo ostico ma nemmeno troppo pop, ruffiano al punto giusto. se tutto il progressive sapesse essere così poco autoindulgente saremmo sommersi di disconi. così non è e ‘suspended animation dreams’ resta una bellissima isola nell’oceano.


sabato 21 settembre 2019

nine inch nails, 'the fragile'



vent’anni fa oggi usciva un disco molto atteso. un disco doppio, frutto di due anni abbondanti di lavoro, figlio della depressione e della disillusione, conseguenze di un tour infinito durante il quale trent reznor era diventato alcolizzato, cocainomane e famosissimo, tanto da essere indicato dal times come uno dei personaggi più influenti del periodo. il disco si chiamava 'the fragile' e c’è tanto da dirne.

alla fine del ‘self destruct tour’ trent reznor era una persona cambiata; da ragazzino di mercer, pennsylvania, si era ritrovato superstar trentenne riverito e copiato in tutto. oltre a questo, il tour era stato sfiancante, più di due anni in giro per il mondo con in mezzo un tour di spalla a david bowie e woodstock 94, il tutto condito con la nuova passione di reznor per alcol e coca. senza dimenticare ’natural born killers’, ‘strade perdute’, il progetto tapeworm e le tante collaborazioni (perlopiù abortite), tutta roba di cui reznor si circonda scappando dal nuovo disco dei nine inch nails e andando sempre più isolandosi, fino a quando la morte della nonna (che l’aveva cresciuto) non fa calare definitivamente la depressione sul musicista che verso la metà del ‘98, su consiglio di rick rubin, scappa nel big sur dove passa un mese tormentato dai fantasmi e dalle onde dell’oceano, riuscendo a scrivere un’unica canzone.
quando torna a new orleans chiama a raccolta alcuni collaboratori (tra cui charlie clouser, adrian belew, keith hillebrandt e dave ogilvie) e inizia seriamente a lavorare al nuovo disco, trovandosi alla fine una quarantina di canzoni per le mani. canzoni che nascono da input diversi rispetto al passato, non più basate su loop ma su una ricerca sonora che viene più dalla ambient, seppur sempre canzoni. soprattutto, molte di queste sono strumentali e nessuna ha avuto testo prima che ci fosse la musica, è un insieme coerente ma dispersivo e disordinato e reznor non riesce a vedere la narrazione, quindi chiede consiglio a quello che considera il miglior produttore al mondo: bob ezrin. 
per chi non lo sapesse, bob ezrin è il produttore di ‘the wall’ dei pink floyd. oltre a questo, ha lavorato con un altro paio di persone: alice cooper, aerosmith,  dr. john, peter gabriel, jane’s addiction, kiss, kula shaker, rod stewart... tra gli altri. 
ezrin accetta e vola a new orleans dove per dieci giorni ascolta le canzoni in loop; alla fine, presenta a reznor una tracklist da 23 canzoni, divise su due dischi: ‘the fragile’.

“the fragile was an album based a lot in fear, because i was afraid as fuck about what was happening to me ... that's why there aren't a lot of lyrics on that record. i couldn't fucking think. an unimaginable amount of effort went into that record in a very unfocused way."

questa è una dichiarazione di reznor che nel 2005 guarda indietro a quel periodo, riconoscendo il disordine che ha portato al disco. eppure il lavoro finale ha una sua strutturazione evidente, fosse anche solo per la divisione in due dischi chiamati ‘left’ e ‘right’, complementari ma non opposti; si possono anche ascoltare separatamente (grazie al valore delle canzoni) ma è solo un ascolto completo che rivela il viaggio. ‘the downward spiral’ parlava di eccessi immaginari, si creava una condizione ad hoc per sfogare la violenza, ‘the fragile’ nasce dalla depressione e dall’isolamento e si nutre di dipendenza: il primo immaginava una caduta, il secondo parte dal fondo di una caduta reale e vaga nell’oscurità cercando ragioni e uscite. il tema di fondo è appunto la fragilità delle cose, come tutto si possa rompere, dagli oggetti alle persone.
l’impatto fisico di ‘spiral’ si è trasformato in violenza latente, un filo d’ansia percorre l’intero album, sempre pronto ad esplodere ma non sempre disposto a farlo, un’apocalisse incombente che riporta all’anno di uscita del disco, il 1999 col suo y2k. 
i rimandi si sono aperti in un ventaglio di profumi che colorano i brani: bowie, king crimson, roxy music, debussy, prince, gary numan, talk talk, ministry, depeche mode, beatles... ce n’è di ogni, rock ed elettronica sono la base ma i condimenti sono pop, progressive, metal, classica novecentesca, funk ed altro ancora.

reznor, per cambiare suono, decide di basare la composizione su strumenti reali, principalmente a corde, registrati su nastro per poi essere passati in digitale in uno studio che all’epoca era all’avanguardia, con tre sale in comunicazione in cui i musicisti potevano provare idee diverse contemporaneamente; nel frattempo crea delle texture elettroniche tra ambient e drone che fanno da sfondo ai pezzi.
i brani del disco si possono quasi tutti inquadrare in tre categorie, pestoni, melodici e strumentali, con la proporzione tra le tre parti che può variare. tra i pestoni troviamo l’iniziale ‘somewhat damaged’, ‘no, you don’t’ e la mediocre ‘starfuckers inc.’ (unico anello debole di un album perfetto), tre esempi di come la rabbia esplosiva di ‘spiral’ si sia tramutata in qualcosa di più subdolo che urla da dentro, un po’ come la frustrazione del cane che ringhia al padrone.
tra i brani melodici troviamo alcuni dei momenti più alti dell’intero lavoro: ‘the day the world went away’ coi suoi layer di suono infiniti, ‘the fragile’ e il suo crescendo avvolgente su un delicato e bellissimo testo, il singolo danzereccio ‘into the void’, alienato e distaccato e la meravigliosa ‘please’ dalla ritmica irresistibile e un ritornello tutto da cantare.
gli strumentali costellano l’intero album e rappresentano l’animo più sperimentale del progetto, creando perle di bellezza incredibile come la strepitosa ‘just like you imagined’, una continua contorsione sonora nella quale partecipano anche il pianoforte impazzito di mike garson e la chitarra selvaggia di adrian belew, o l’epica e violenta ‘pilgrimage’, dalla melodia straniante trascinata dai rullanti da guerra.
il lavoro sugli arrangiamenti è a dir poco maniacale, ogni suono è studiato e congegnato alla perfezione, dalle esplosioni di rumore che riportano ai ministry ai soffusi tocchi di piano che sospendono la tensione un po’ come succedeva in un pezzo come ‘the rainbow’ dei talk talk.

ci sono poi dei brani che meritano un discorso a parte. il primo di questi è ‘we’re in this together’, primo singolo e canzone formalmente perfetta, scritta in maniera impeccabile e marchiata da una scelta di suoni che la rende urticante e permette al ritornello di esplodere in un urlo primitivo e liberatorio; poi ‘even deeper’, un miracolo di programming e droni che si intrecciano in un atmosfera pesante, scura e minacciosa su cui si snoda uno dei testi più emblematici del disco (“do you know how far this has gone? just how damaged have i become? when i think i can overcome it runs even deeper”), sostenuto da un arrangiamento d’archi sublime per gusto e mimetismo. 
ma il momento più alto dell’intero album è la doppietta che chiude il primo cd. si parlava poco fa del big sur e di una singola canzone che gli è sopravvissuta: quella canzone è ‘la mer’, (quasi) strumentale basato su un vamp di piano sul quale lentamente cresce l’arrangiamento, con la batteria di bill rieflin (ministry, rem, king crimson) a portarsi via tutto, prima che il suono si sciolga e coli senza pausa in ‘the great below’, forse la più bella canzone di tutta la discografia dei nine inch nails. un tumulto sommesso di droni, archi sintetici ed effetti alieni crea il mare in subbuglio sul quale reznor canta una melodia che sa di antichità, un rituale prezioso che porta a perdersi nel buio tra le correnti, un brano che è pura magia.
ultima citazione a parte per ‘i’m looking forward to joining you finally’, splendido esempio della creatività di reznor che costruisce il brano su un incastro ritmico minimale dai timbri marcati e lascia l’arrangiamento largo, quasi vuoto ma efficace nel restituire un senso di torpore a cui può portare la depressione (il brano è dedicato alla nonna da poco morta, è con lei che trent spera di riunirsi presto).

dopo il ‘fragility tour’ niente sarà più uguale, la musica di trent reznor perderà per anni in incisività e abrasività (al punto da vincere un oscar). questo lo dico non per fare polemica ma per sottolineare come questo album rappresenti un apice dopo il quale è difficile continuare, la sua ricchezza melodica, timbrica, ritmica e negli arrangiamenti lo rende un’opera d’arte complessa e affascinante, alla faccia di chi ancora sostiene che il rock non sia da considerarsi arte. 

giovedì 5 settembre 2019

tropical fuck storm, 'braindrops'



è passato esattamente un anno da quando ‘a laughing death in meatspace’ è arrivato come un uragano e si è imposto come miglior disco rock del 2018. dopo un tour pressoché infinito, che li ha portati anche dalle nostre parti con una breve quanto intensa esibizione al beaches brew di marina di ravenna, i tropical fuck storm tornano sul mercato con ‘braindrops’. 

mettiamo le cose in chiaro: il disco è grandioso e mantiene le coordinate sonore del suo predecessore ma cambia la cornice, l’atteggiamento ed anche i contenuti.
tanto per cominciare scompare quasi del tutto quel sorriso sardonico che spuntava a più riprese nell’esordio, qui il suono del gruppo, obliquo, dissonante e scordato ai limiti dell’atonalità, si sposa con un’emotività profonda, sincera e lancinante, la voce di liddiard è sfibrata e distrutta, porta nelle sue parole la stanchezza di un vivere nero e malsano. i testi stringono il cerchio, da un’osservazione (più o meno) critica della realtà (che comunque non manca in ‘braindrops’ o ’the planet of straw men’) si passa all’introspezione e ai rapporti personali, cambiano anche le dinamiche negli arrangiamenti con liddiard meno istrione e un gruppo più compatto che implementa le dinamiche dei brani.

si può intuire tutto dall’apertura di ‘paradise’, un lento crescendo con le chitarre che sembrano vagare senza direzione, così come i due personaggi del testo girano attorno al problema senza mai risolverlo; quando il ritornello inizia quasi non ce ne si accorge da quanto è naturale il passaggio. in generale non è un disco di ritornelli, ancora meno di ‘meatspace’: in ‘braindrops’ c’è una sorta di (e mi sento stronzo solo a pensarlo) post-destrutturalismo, non c’è intenzione di fare a pezzi perché tutto è già a pezzi, si costruisce con brandelli, frammenti e pezzi trovati a terra. 
è un rock meno alieno di 'meatspace' ma più mutato, talvolta segue più certe logiche di cantautorato che non di canzoni pop, graffia coi suoni ma avvolge nel torpore con un effetto desolante.
‘paradise’ è uno dei brani migliori ma a fargli compagnia ci sono il delizioso finto pop di ‘who’s my eugene’, cantata da erica dunn e ispirata dalla relazione tossica tra brian wilson dei beach boys e la psichiatra eugene landy, l’intreccio di botta e risposta di ‘the happiest guy around’, i continui mutamenti della splendida ‘braindrops’ (sui pro e contro della gentrificazione, in particolare dei quartieri di melbourne) e soprattutto la drammaticità inarrestabile della conclusiva ‘maria 63’, racconto di un immaginario incontro fra un agente del mossad e maria orsic, figura mitologica del nazismo che avrebbe avuto poteri sovrannaturali e contatti con gli alieni. il testo è come sempre molto intelligente e mai banale, lascia addosso una sensazione di sporco per la mania moderna di mitizzare qualsiasi cosa, al di là del bene e del male, quello che però colpisce allo stomaco è la forza della musica, unità all’interpretazione di liddiard che nel finale diventa una cosa sola con i cori prima di un’esplosione violentissima che promette fuoco e fiamme dal vivo.

se si può fare una critica al disco è che i suoni, decisamente più fangosi rispetto all’esordio, non sempre valorizzano i brani con una spinta forse eccessiva sul lo-fi (e una compressione killer sulla batteria che a volte funziona e a volte no). 
a parte questo ci troviamo di nuovo di fronte a un disco pazzesco che conferma i tropical fuck storm come una delle realtà più creative, vitali e genuine del panorama rock odierno.


lunedì 2 settembre 2019

il fondo del barile #2: tool, 'fear inoculum'



il primo disco dei led zeppelin è stato registrato in un totale di 36 ore, sparse su due settimane. ’sgt pepper’ è stato scritto e registrato in 5 mesi. esagero, trent reznor ci ha messo 3 anni per scrivere e registrare ’the fragile’. tra ’songs of faith and devotion’ e ‘ultra’ sono passati 5 anni. giusto un paio di esempi che mi passano per la testa.

i tool nel 2006 hanno pubblicato ‘10000 days’, un album discutibile (diplomazia, portami via) in cui riciclavano le idee precedenti e allungavano il brodo con intermezzi e suoni vari. 13 anni dopo si ripresentano sul mercato con ‘fear inoculum’.
parto da un presupposto: non sono mai stato fan dei tool, li ho sempre trovati un buon gruppo ma senza senso della misura, spesso prolissi e ridondanti, anche nei dischi che mi piacciono; se fossi un fan dei tool mi sentirei personalmente preso per il culo da questo aborto. se siete di quelli che li difendono a spada tratta, PER FAVORE fermatevi qui.

la cosa che più mi ha urtato in generale è il fatto che dopo 13 anni di lavorazione questo disco suoni incompleto, sottoarrangiato (si dice? forse me lo sono inventato) e completamente vuoto di contenuti.
keenan “sceglie di cantare poco" ma l’effetto è che per metà del tempo vorreste la sua voce a completare le parti e invece non c’è e il tutto suona come un demo strumentale. non solo, quando canta per buona parte del tempo sembra svogliato, pare che passasse di lì per caso e abbia sbadigliato un paio di volte nel microfono. il suo apporto generale al disco appare pressoché nullo, la voce sembra esserci ancora, se solo la facesse sentire.
punto due, ‘fear inoculum’ è in la minore. la canzone? no no, il disco, dall’inizio alla fine. e allora uno si chiede, alla monotonia armonica avranno contrapposto una dinamicità strutturale? nope. sembra di ascoltare per 6 volte la stessa canzone, gli incastri ritmici sono sempre gli stessi, arrangiati sempre nello stesso modo (batteria percussiva, basso che le va insieme, chitarra in palm-mute che riffeggia stancamente su un’altra ritmica) e finiscono sempre, sempre, sempre nella stessa stucchevole apertura di accordi aperti e piatto ride. esagero? la trovate a 3:55 di ‘fear inoculum’, a 3:18 di ‘pneuma’, a 6:35 di ‘invincible’, a 4:59 di ‘descending’, a 6:51 di ‘culling voices’ e a 1:46 di ‘7empest’ (il pezzo peggiore del disco, un’accozzaglia di parti incollate insieme), tempi riferiti all’edizione digitale. è SEMPRE la stessa cosa, sempre sullo stesso accordo, la piattezza degli arrangiamenti è desolante.
parentesi per ‘chocolate chip trip’; l’intermezzo è sostanzialmente un tributo a ‘stratus’ di billy cobham, loop di synth che fa da sfondo a un solo di batteria, peccato che gli assoli di batteria di cobham abbiano un senso e un messaggio. io non discuto che danny carey sia un bravo batterista, cazzo se lo è, purtroppo per lui però non è neanche lontanamente un solista e questo brano lo dimostra: sta tra il filotto di esercizi e il “adesso faccio casino”, non ha un tema che sia uno (timbrico, ritmico, melodico, ce n’erano di scelte) e risulta noioso, piatto e vuoto (aiutato anche da una produzione generale che calca la mano sulla compressione di batteria e chitarra inibendo le dinamiche di tutto l’album). 
poi ci sono gli intermezzi, ancora una volta per allungare il brodo e arrivare ad un totale di OTTANTASEI MINUTI, dei quali gli unici salvabili sono forse quelli della title-track posta in apertura. forse.

questo non è un disco, è una presa per il culo. il fatto che arrivi dopo 13 anni di silenzio dovrebbe renderlo un insulto verso i fan dei tool. il suo girare a vuoto lo rende un ascolto noioso oltre ogni limite, pesante ma senza ricompensa alla fine, stanco e ripetitivo. poi magari ci diranno che i tempi messi in sequenza formano la struttura del dna dei peli del culo di adam jones o il numero di conto in banca della cugina di terzo grado di fibonacci o l’esatta distanza tra me e quanto me ne frega (numeri astronomici), questo non cambierà il risultato finale: la noia. anzi, lo peggiorerà.
se vi accontentate del generico suono dei tool e non cercate particolare profondità o ricerca, ‘fear inculum’ potrebbe fare per voi. se invece avete apprezzato la spinta innovativa di dischi come 'aenima' e 'lateralus', forse è meglio che non lo ascoltiate neanche.

per quanto mi riguarda: vuoto, inutile e anche un po’ ridicolo. 

lunedì 5 agosto 2019

today is the day, 'willpower'


‘willpower’ è uno dei dischi più sottovalutati della storia del rock estremo, basti pensare che senza questo disco non esisterebbero né i converge né i mastodon, giusto per citare due gruppi che hanno rubato a piene mani dal repertorio di steve austin. (e i neurosis non è detto che sarebbero arrivati a ‘through silver in blood’)
ma allora perché i today is the day non suonano sui palchi giganteschi di quegli altri là? 
come sempre i motivi sono molteplici e sicuramente alla base c’è da considerare l’isolazionismo e la misantropia di austin, lontano dalle luci della stampa e dalle pose hipster. personaggio scomodo e sfuggente, austin è stato vittima di varie sfortune nella vita che lo hanno portato a registrare alcuni dei dischi più terrificanti di sempre, prima di giungere alla summa di tutta l’oscurità con il capolavoro assoluto ‘sadness will prevail’. giusto per dirne una, proprio ‘willpower’ fu registrato appena dopo la violenta morte di suo padre in un incidente stradale nel ‘93.
un altro motivo per cui i today is the day non possono arrivare alle masse è che il loro suono non ha nulla di accondiscendente, non si è (quasi) mai ripulito ed è sempre stato secco, sgradevole e abrasivo, lontano dal suono pulitino dei mastodon (ricordiamo tra l’altro che appena prima di fondare il gruppo brann dailor e bill kelliher suonavano proprio nei today is the day, ‘in the eyes of god’ e relativo tour) e dalla compressione tamarra e sviolinate emo dei converge. dico questo non per togliere merito a questi gruppi ma per rimarcare come entrambi abbiano preso qualcosa da austin e l’abbiano edulcorato per renderlo più fruibile, le idee c’erano già tutte.

se vogliamo identificare un trittico di riferimento per il suono del gruppo, dovremmo probabilmente parlare di black sabbath, king crimson e laughing hyenas, i primi per la pesantezza dei riff e la loro malvagità, i secondi per le partiture schizofreniche, le scale usate, la destrutturazione e certe scelte timbriche, gli ultimi per la furia col sangue agli occhi, per la voce lacerata e lacerante di austin e per il tocco hardcore. certo, non mancano riferimenti ai melvins, a glenn branca, ai jesus lizard, ai blind idiot god e pure a certi pere ubu ma questo fa parte della varietà straordinaria di cui è capace il gruppo.

‘willpower’, 1994, dura mezz’ora scarsa (29:36 per la precisione) ma in questi minuti c’è una tale compressione di idee e contenuti da stendervi al tappeto. il trio è formato da steve austin (chitarre e voci), brad elrod (batteria) e mike herrell (basso).
“i’m telling you, i look at your face and i know that you’re lying!” sono le urla con cui si apre il disco: disagio, sfiducia e malessere sono alla base dei testi, alternati ad esplosioni di ego rabbiose e vendicative (si parlava di lingua ignota di recente, no?). basso e batteria introducono il brano ma l’orrore si compie con l’ingresso della chitarra, un suono unico e inconfondibile, una distorsione totale ma lontana dai canoni sia hardcore che metal, sferragliante e profonda; in tre minuti e mezzo i today is the day mettono in scena una mini-opera che stupisce con vortici chitarristici da ‘larks’ tongues in aspic’ e un’apertura maggiore inaspettata quanto instabile, presagio di ulteriori atrocità. infatti è solo l’inizio: ‘my first knife’ è aggressione fisica e psicologica, con una serie di cambi di tempo letali che tolgono il terreno sotto i piedi, ‘nothing to lose’ disperazione pura, la desolazione nella voce di steve austin prima che il finale la trasformi nel suo classico urlo stridulo e trascini l’intero brano in un baratro sonoro violentissimo. ‘golden calf’ mette in risalto un velo di psichedelia nelle chitarre stratificate con un crescendo rapido solcato dalla voce ma è ‘side winder’ a far esplodere il potenziale del disco, uno psico-dramma di 5 minuti e mezzo in continua frammentazione, una rottura di schemi e strutture che suona come un’esagerazione del ‘post’ dei fugazi con in mente i king crimson ma un suono acido, violento e corrosivo come nessun gruppo prima; l’abisso centrale porta un’aria teatrale, l’apertura della chitarra trascina tutto all’inferno prima che un maelstrom di distorsione e tempi dispari chiuda la questione.
‘many happy returns’ liricamente anticipa di un paio di dischi ‘pinnacle’, depravazione folle su una struttura secca e circolare, ‘simple touch’ dona un attimo di respiro melodico e stupisce per il tono quasi “leggero” del suono che presagisce il peggio. e il peggio non si fa aspettare, ‘promised land’ è uno tsunami emotivo che travolge con un riff enorme, si placa un attimo e poi si getta nelle rapide turbolente con continui cambi di tempo spiazzanti, linee di chitarra aliene e dissonanti e riff clamorosi. la desolazione di una ‘amazing grace’ persa nel riverbero pone fine a un disco sfaccettato, viscerale, psicologico e sfiancante dopo mezz’ora di assalto. (‘sadness will prevail’ dura 2 ore e 25, così, per ricordare)

i today is the day sono post-tutto, sono la carcassa agonizzante del rock al pari dei primi earth e allo stesso modo sono una tappa imprescindibile del percorso del genere: la fine. incredibile come la creatività di austin abbia mantenuto il gruppo su livelli di eccellenza almeno fino al 2002, molte band si sarebbero ritrovate a corto di idee ben prima. lui invece ha continuato a lavorare sul suono, sulle strutture e sul messaggio, girando continuamente in tour con concerti devastanti ma tenendosi lontano da pose e buffonate, di fatto auto-confinando i today is the day nel ruolo di band di culto, imitata da moltissimi ma citata da pochi. la vita, la depressione e le tragedie hanno fatto il resto.

volevate della speranza? peccato, è appena finita. qui però c’è un disco da sviscerare e sapere a memoria.


giovedì 1 agosto 2019

ulver, 'drone activity'



il drone è un genere bastardo: c’è una sottile linea di confine che divide quelli che lo fanno con significato e profondità da quelli che lo fanno per il gusto di evocare l’oscurità tramite volumi orrendi.
difficile trovare un gruppo nel genere che sia riuscito ad essere consistente nella qualità delle pubblicazioni, gli stessi sunn O))) hanno toppato almeno un paio di uscite girando a vuoto, forse giusto gli earth del primo periodo.

gli ulver col drone ci hanno flirtato spesso e volentieri, fin da quel ‘perdition city’ che presentò al mondo la nuova veste sonora del gruppo; hanno lasciato che si infiltrasse subdolo nelle texture di ‘shadows of the sun’, l’hanno usato per aumentare la drammaticità dello splendido ‘messe i.x–vi.x’ e poi c’è stato il disco coi sunn O))) (piuttosto scontato e deludente in verità, con entrambe le parti a fare il loro ruolo, nulla più e nulla meno) e infine le colate soniche di ‘atgclvlsscap’.

‘drone activity’ è la registrazione di un concerto speciale commissionato dalla red bull music e tenutosi ad oslo. ci sono almeno un paio di punti che lo collegano a ‘atgclvlsscap’: il primo è lo svolgersi libero dei brani, meno meccanico dei vecchi dischi elettronici, molto più fluido e aperto; poi la chitarra di stian westerhus che con i suoi suoni digitali marchia molte parti del disco, esattamente come succedeva nell’album del 2016; per concludere c’è la natura semi-improvvisativa dei brani e il fatto che siano registrati dal vivo, altre cose in comune con quell’episodio.

come avrete intuito, è un disco puramente drone strumentale in cui gli strati di suono si accumulano per creare costruzioni sonore focalizzate soprattutto sul timbro.
purtroppo la differenza principale con i disconi citati finora è che ‘drone activity’ non è a livello: troppo spesso suona privo di contenuto e le soluzioni (timbriche, melodiche e strutturali) utilizzate dal gruppo si rivelano già sentite e prevedibili. ci sono dei suoni fantastici, soprattutto westerhus col suo arsenale infernale riesce a farsi notare sopra al mare di droni, eppure manca quel qualcosa che rendeva ‘atgclvlsscap’ vivo, sembra più di ritrovare l’effetto del mediocre ‘wars of the roses’ per certi versi, un compito svolto bene ma senza nessuna sorpresa o evoluzione.

purtroppo, nell’anno in cui i sunn O))) sono tornati ad alti livelli, gli ulver si accontentano di ricordare ai fan che sono ancora vivi ma senza scuotere né sorprendere, con un disco transitorio (si spera) e, per quanto non propriamente brutto, abbastanza inutile. sarà per la prossima volta, non ho dubbi.

martedì 30 luglio 2019

magma, 'zëss'



spiace dover dire “no” ai magma dopo 50 anni di onorata carriera, purtroppo ‘zëss’ non mi è proprio piaciuto. il motivo principale è la presenza dell’orchestra, timbro che in generale malsopporto e che qui porta delle conseguenze pesanti sul suono del gruppo.

i magma (fondatori del "genere" zeuhl) storicamente hanno basato il loro suono su una percussività jazz, inondandola di suoni e giocando su ripetitività modulare e interazione aperta, con grosse influenze classiche nella composizione ma poche nel timbro. se le composizioni degli anni ‘70 risentivano dei blocchi dissonanti di stravinsky, dell’epicità dissonante di wagner e delle scelte armonico/melodiche delle avanguardie del primo ‘900, qui l’influenza sembra più venire dalle vomitevoli sviolinate sentimentali di dvořák (o generalmente da colonne sonore un po’ melense) che appesantiscono oltremodo il suono del gruppo. si fa spazio all’orchestra ma gli arrangiamenti sono troppo spesso di pessimo gusto.

altra cosa che mi ha allontanato sono le parti narrate in francese e tedesco, i magma hanno sempre cantato in kobaiano (lingua del pianeta kobaia, inventata dal batterista christian vander) e questo ha sempre dato alla loro musica un tono ulteriormente alieno e affascinante; l’utilizzo di lingue esistenti cambia il baricentro sonoro (anche se non si capiscono francese o tedesco) e di conseguenza fa suonare la voce non come uno strumento ma come... una voce. 
inoltre per la prima volta vander si fa cantante principale, lasciando le bacchette al mostro morgan ågren che però non brilla particolarmente, suonando benissimo e con un gran suono delle parti molto controllate e poco incisive.

la composizione risale alla fine degli anni ’70 ed è stata più volte proposta dal vivo ma solo nel 2018 è stata registrata; è lunga 38 minuti e divisa in 7 parti senza pause. è sicuramente da lodare il lavoro compositivo, coeso e coerente con le scelte timbriche, questo però vuol dire che tralascia quasi completamente la parte jazz del suono magma (confinata alla sola batteria e non sfruttata realmente) per lasciare più spazio all’orchestra.

il lavoro dietro ‘zëss’ è di prim’ordine ma troppe cose non mi sono piaciute. poi ci sono ovviamente bei momenti più classicamente magma ed è da apprezzare la voglia di cambiamento da parte di un gruppo con 50 anni alle spalle, se chiedete a me però non è questa la strada.

domenica 21 luglio 2019

lingua ignota, 'caligula'



kristin hayter spicca il volo. se i precedenti capitoli come lingua ignota erano già interessanti ed originali, ‘caligula’ parte per la tangente e lascia tutti a casa.
c’è gente che fa rumore per il gusto di farlo, altri lo fanno in maniera ignorante per esprimere quel senso di bestialità primitiva; kristin hayter ha una cultura musicale enorme, ha alle spalle studi accademici che le permettono un totale controllo del suono, oltre ad avere una delle voci più profonde, emotive e sconquassanti che possiate ascoltare in una biondina piccola e magrolina. quando lei fa rumore, vi arriva direttamente allo stomaco come un calcio; questo perché sa come fare male, ha trovato una formula perfetta per rendere in musica l’oscurità del male di vivere, la frustrazione, la rabbia cieca e la desolazione più completa. lei il rumore lo usa per dare un messaggio che sa di dolore e vendetta.
ha dalla sua parte l'abisso e un carattere unico, per quanto a tratti prosecuzione del lavoro svolto da diamanda galas negli anni (la voce arriva spesso da lì, il trambusto emotivo pure così come molte tematiche dei testi, si ascolti ’sorrow! sorow! sorrow!’).

‘caligula’ arriva a due anni da ‘let the evil of his own lips cover him’ e ‘all bitches die’, episodi già notevoli ma che lasciavano ampi margini di miglioramento (già incredibili e massacranti invece le esibizioni live).
qui c’è più focus che nelle uscite precedenti, c’è più elaborazione, molta più stratificazione sonora e un’ispirazione solida e più in controllo, sia timbrico che strutturale; soprattutto c’è una maggiore confidenza col materiale che rielabora minimalismo, black metal, avanguardie del primo novecento, doom, folk, cantautorato, ambient, teatro, noise e drone.
l’iniziale ‘faithful servant friend of christ’ mette in chiaro il cambio di rotta: c’è più pienezza nelle tessiture e nei timbri, c’è un gioco di armonie vocali pagane (una sontuosità che spesso riporta a rituali da chiesa ortodossa e in generale riferimenti all’est europeo che talvolta sembrano arrivare da bartok), tutto sorretto da un drone vibrante e dalle ondate degli archi.
il capolavoro del disco si chiama ‘do you doubt me traitor’ ed è il secondo pezzo. nei suoi 9 minuti e mezzo è racchiusa tutta l’estetica del progetto lingua ignota: dolore, magniloquenza, disperazione, distorsione e un testo che ha la ferocia di un animale gravemente ferito (“bitch, i smell you bleeding/and i know where you sleep/do you doubt me traitor?/throw your body in the fucking river”), tutto steso su una struttura cangiante con un finale giocato sulle armonie vocali che è semplicemente da brividi.
'butcher of the world' spinge sull’epicità, cori, organo e un’esplosione che sta tra il black metal, l’ambient e i dead can dance in un perfetto gioco di pieni e vuoti; l’uso degli accordi mostra quel controllo di cui parlavo, con minuscole oasi maggiori calibrate alla perfezione (una cosa un po’ alla trent reznor volendo, altra ombra che ogni tanto compare soprattutto nelle scelte armoniche).
la già citata ’sorrow! sorow! sorrow!’ è una landa desolata in cui i vocalizzi guidano verso la tensione circolare di ‘spite alone holds me aloft’ che si apre in un ambient/black metal lontano quanto disperato per poi finalmente esplodere epica e gigantesca e risolvere le tensioni in un altro vortice di voci.

ci sono momenti celestiali in mezzo ai brani in cui hayter gioca con armonie vocali sbilenche, un tocco di lisa gerrard (in paranoia sotto anfetamina) che talvolta affiora a rischiarare la quasi totale oscurità regnante. il finale di ‘fragant is my many flower’d crown’ è emblematico in questo senso, così come il contrasto con l’esplosione drone della successiva ‘if the poison won’t take you my dogs will’ che a tratti pare kate bush (o tori amos?) che fa una cover da ‘the drift’ di scott walker (sempre sia benedetto).
nonostante il rumore e l’abrasività, c’è una grande attenzione alla melodia come contrasto alle parti più urlate, una contrapposizione che risulta efficace lungo tutto il disco (sfruttata anche dal vivo con l’allucinata cover di ‘jolene’ di dolly parton).
c’è dinamicità nei pezzi: per quanto gli espedienti si basino molto spesso sul contrasto dinamico, le timbriche cambiano, ci sono pianoforte, organo, clavicembalo, archi oltre all’arsenale di effettistica e momenti più “canonici” con anche una batteria, prestata da lee buford dei the body. 
altri ospiti sono sam mckinlay (fautore di un noise estremo) e le voci di dylan walker (full of hell), mike brendan (uniform) e noraa kaplan (visibilities), gente che negli ultimi anni ha pubblicato materiale estremo tra il migliore in circolazione, senza dimenticare l’ingegnere seth manchester che ha guidato hayter durante le registrazioni con tecniche alternative e fonti sonore tra le più disparate.

le esplosioni finali di ‘i am the beast’ scaricano tutta la tensione in un mare di suoni dal volume catartico prima di congedarsi con una cadenza maggiore. insomma, ‘caligula’ è un’opera in cui kristin hayter compie un altro passo verso la maturità artistica, sacrificando forse un po’ di istinto omicida nel nome di un controllo (sovra)strutturale che l’ha portata a un disco potente, profondo, ricercato e intelligente ma anche sincero, mai freddo e dallo spiccato carattere. 
applausi a scena aperta, mi tolgo il cappello di fronte a tanta maestria, un altro candidato al titolo dell'anno.


mercoledì 17 luglio 2019

napalm death, 'scum'



grindcore. che bella parola. come ti riempie la bocca quando la pronunci. grindcore. che bello. e chi è responsabile per questa cosa bellissima? un po’ di persone, un giro di musicisti inglesi che hanno quasi tutti fatto parte in qualche momento dei napalm death. e quindi gioia e gaudio, viva i napalm death e viva ‘scum’.

che poi quando è uscito 'scum' chi erano i napalm death? questa è una storia interessante. a studiare un po’ si viene a sapere che i fondatori del gruppo nel 1981 furono nic bullen e miles ratledge ma se il primo ha effettivamente suonato su ‘scum’, il secondo ha lasciato il gruppo nell’85 prima delle registrazioni (squisitamente orrende) della prima facciata dell’album. però, a ben vedere, anche nic bullen ha abbandonato nell’86 e infatti non suona sulla seconda facciata. questo fa sì che i napalm death siano un gruppo che quando ha pubblicato il suo album d’esordio (1 luglio 1987) non aveva neanche un membro originale in formazione ed era stato “ereditato” da mick harris.
la seconda facciata è infatti registrata, ancora peggio, da una formazione completamente diversa. tempo di un disco e un ep e la formazione che registrerà ‘harmony corruption’ nel 1990 sarà ancora una volta completamente diversa (salvo mick harris) ma sarà la base per il gruppo che ancora suona oggi.
ma torniamo a ‘scum’, si diceva di due sessioni di registrazione: alla prima, nell’agosto ’86, partecipano nic bullen (voce e basso), justin broadrick (chitarra) e mick harris (batteria) mentre per la seconda resta harris ma arrivano jim whitley (basso), bill steer (chitarra) e lee dorrian (basso). i più attenti noteranno che questi non sono nomi da poco: lee dorrian fonderà i cathedral e diventerà un profeta del doom, justin broadrick coi godflesh farà un gran casino, bill steer suonava già anche nei carcass e continuerà a farlo (altra gioia, altro gaudio), bullen si riunirà a harris nei pazzeschi scorn e collaborerà con bill laswell e tanta altra bella gente mentre whitley invece si darà all’hardcore. in qualche modo, ognuno dei gruppi citati porta dentro di sé qualcosa di ‘scum’.

cos’è il grindcore? per l’orecchio casuale è casino e poco più. vogliamo dirla tutta? anche per l’orecchio attento ed esperto a volte è casino a cazzo di cane, c’è però un ma: il grindcore, in un eterno gioco di rimbalzi da una parte all’altra dell’oceano (rock n roll>british invasion>rock>punk>hardcore>metal>thrash>grindcore), arriva dall’hardcore e quindi dal punk e ne mantiene sia l’etica che parte dell’estetica sonora, dando ben poca importanza (almeno alla nascita del genere) alla tecnica strumentale. di fatto poi il genere si dividerà in due filoni, uno più “conservatore” (quanto fa ridere?) che continua a guardare a ‘scum’ come faro nella notte, l’altro più moderno e più vicino al metal (death in particolare), quindi più tecnico e serrato (per fare un esempio, i compianti nasum sono tra i migliori di questo filone).
grindcore è velocità esasperata, distorsione iper-satura, voce da sturalavandino e basso più lercio possibile. è la versione estrema dell’hardcore filtrato dalle chitarre ribassate e la velocità del metal americano, in pratica è una delle cose più feroci, sporche e e maleducate che possiate ascoltare. no, non è per tutti.

vi potrei parlare di tutte le canzoni ma non lo farò per due motivi: 1) sarebbe inutile, sono più o meno tutte uguali 2) la durata dei pezzi del disco va da un secondo a un paio di minuti, ‘scum’ ne ha 28.
prima di venire al capolavoro che da solo può rappresentare non solo tutto il disco ma un intero genere, cito quel paio di momenti diversi che ci sono: ‘multinational corporations’ apre il disco senza blast beat ma con un marasma infernale di distorsioni, piatti e voce ragliata, un inizio epocale; ‘siege of power’ azzarda una forma canzone e quasi tocca i 4 minuti, è il pezzo più lungo del disco e pure del disco successivo; in generale si nota la differenza di suono tra le due facciate: la prima suona da schifo mentre la seconda suona di merda. sottili differenze.
blablabla, basta stronzate, ‘you suffer’. ‘you suffer’ è l’emblema, è la punta di diamante, è la summa dell’intero universo grindcore, passato, presente e futuro. chi la conosce magari pensa che stia scherzando ma in questo caso sono serissimo: è raro che una canzone da sola sia così rappresentativa di un genere, ancora più raro che questa si trovi sul primo disco di un gruppo che di fatto inventa il genere stesso. il rock aveva canzoni di 3-4 minuti, il punk di 2-3, l’hardcore di 1-2, ‘you suffer’ dura 1 secondo e 316 millesimi (guinness per la canzone più breve di sempre), è l’ultimo passo prima del nulla. non solo, la musica fin dal folk e blues ha trattato di sofferenza, cercandone le ragioni, cercando di esorcizzarla, rigirandosela tra le mani; il punk ha trattato il disagio sociale, l’hardcore si è chiuso nella solitaria sofferenza apatica, il metal ha flirtato con la sofferenza fisica; il testo di ‘you suffer’ recita: “you suffer, but why?”. esiste sintesi migliore? probabilmente sì ma a noi piace questa.
ad onor di cronaca bisogna ricordare che, almeno secondo bullen, il pezzo è nato come scherzo e talvolta veniva suonato anche 30 volte a sera. qualcuno potrebbe dirmi che sto costruendo castelli su una stronzata ma di fatto che la cosa sia intenzionale o meno non cambia l’importanza della canzone se inquadrata in un certo modo. 
(poi certo, è ‘you suffer’, l’ho avuta come sveglia per anni, la sentivo 20 volte ogni mattina aprendo gli occhi, è comunque uno scherzo che fa sempre ridere e se non è la mia canzone preferita di sempre poco ci manca.)

gli stessi napalm death hanno lasciato presto queste coordinate: il seguente ‘from enslavement to obliteration’ ricalcherà le orme di ‘scum’ ma ‘harmony corruption’ vedrà l’ingresso di mitch harris, jesse pintado, shane embury e barney greenway, iniettando una massiccia dose di death metal nella musica e dando vita al gruppo che ancora oggi devasta i palchi di tutto il mondo con concerti violentissimi. ‘scum’ però rimane una pietra miliare del rock, contemporaneamente punto di partenza e di arrivo, istantanea perfetta del collasso di una via del rock su sé stessa (l’altra via collasserà di lì a poco con fugazi, slint e compagnia destrutturante, senza dimenticare i talk talk. MAI dimenticare i talk talk.).
è anche il disco che potete usare in qualsiasi momento del giorno e della notte per dare fastidio a chiunque abbiate attorno, valore da non sottovalutare.

piaccia o meno, ‘scum’ è un capolavoro scolpito nella pietra, è l’apice di un certo modo di intendere la musica: pura aggressione frontale, senza fronzoli e orpelli, veicolo anche per un messaggio politico legato alla sinistra più battagliera e radicale (molti musicisti grind sono anche diventati straight edge nel tempo, altro evidente legame con l’hardcore). in quei giorni in cui volete solo vedere il mondo bruciare, mettete ‘scum’ a volume smodato e il mondo vi sorriderà. 

giovedì 11 luglio 2019

2019: classifica di metà anno


rapido riassunto delle figate a metà anno in ordine crescenzo. pettoruto. (cit. per i più colti fra voi)
si attende con ansia il nuovo tropical fuck storm e in realtà poco altro che io sappia, a meno di altre sorprese che si spera piovano come i meteoriti in armageddon. del resto pare che l’anno prossimo arrivi un nuovo mars volta per cui il primo posto del 2020 probabilmente è già prenotato, vediamo di divertirci intanto che possiamo.

5. santana, ‘africa speaks’
più lo ascolto più mi diverto, il baffetto messicano rialza la testa e tira fuori il suo miglior disco da anni e anni e anni. e anni. mamma africa gli dona nuova vita e fa vibrare tutti i pezzi del disco, finalmente suonati da una band e non da un gruppo di turnisti.

4.claypool lennon delirium, ‘south of reality’
la coppia più improbabile di sempre migliora il tiro e regala un’oretta scarsa di spettacolare rock/prog/psych/pop/jazz e quant’altro. ci sono i primus, ci sono i beatles, ci sono i pink floyd, i king crimson, un sacco di basso bellissimo e tutto quello che volete, belli e bravi. straconsigliati i live su youtube.

3.sunn o))), ‘life metal'
l’ho detto che non ci speravo, e invece stronzo io. loro fanno rumore come sempre ma un po’ meglio, gli ospiti gli girano attorno e steve albini fa la sua cazzo di magia che sa solo lui come e quindi suona tutto da paura, se alzate un po’ il volume tremano i muri.

2.full of hell, ‘weeping choir’
loro non hanno praticamente mai sbagliato e ogni volta continuano a superarsi. ‘weeping choir’ è un concentrato di schifume, orridezza, merdazza e tutto il rock più estremo e oltranzista che possiate immaginare, tutto frullato direttamente nelle vostre orecchie. eroi.

1.black midi, ‘schlagenheim’
quattro ragazzini inglesi saltano fuori e spazzano via la concorrenza con un disco fantastico e (quasi) inattaccabile che mette insieme math, prog, decostruzione da primi ’90 con uno spirito indie che permea i suoni delle canzoni. i margini di miglioramento promettono cose bellissime in futuro, staremo a vedere.