domenica 20 giugno 2021

mark hollis, 'mark hollis'

c’è un senso di intimità che pervade il primo ed unico disco solista del compianto mark hollis, ancora più forte di quanto sia mai stato nei talk talk: più di ogni altro disco a cui hollis abbia partecipato, qui sembra veramente di essere nella stanza con lui mentre i brani vengono registrati. parte del merito va sicuramente ad un mix perfetto per definizione e dinamiche, un lavoro certosino che esalta ogni minima sfumatura timbrica degli strumenti o della voce, però il motivo principale è il tono dimesso e “segreto” dei brani, sia nella composizione che nell’esecuzione.


le canzoni sono il perfetto specchio del loro autore, personaggio schivo e riservato le cui composizioni/improvvisazioni sembrano sempre “passare”, arrivano dal silenzio e non vedono l’ora di tornarci. nonostante la loro apparenza pacifica e sospesa, hanno sempre un’instabilità di fondo che ha come unica risoluzione proprio il ritorno al suono di una stanza vuota, senza mai bisogno di esplosioni o scossoni di alcun tipo.


il disco in origine doveva chiamarsi ‘mountains of the moon’ ed uscire a nome talk talk ma le defezioni di harris e webb spinsero hollis a mettere il proprio nome in copertina pubblicando l’album nel ’98, circondandosi ancora una volta di una mini-orchestra invisibile che anima di particolari ogni canzone: sussurri di clarinetto, flauto o fagotto, rintocchi di piano, spettrali pennate di chitarra o echi di armonica compongono le isole di suono su cui la voce di hollis può essere libera nella sua espressività inimitabile fatta di parole smangiucchiate, dinamiche imprevedibili, sussurri e una liricità unica.

è un album compatto ma le soluzioni sfruttate sono molte più di quante sembrino ad un ascolto superficiale, si va da fumosi tocchi jazz di spazzole e contrabbasso (‘the watershed’, graziata da un solo di tromba da pelle d’oca) a momenti di classica moderna non lontani da certe intuizioni di david sylvian (‘a life (1895-1915)’), estemporanei sussurri pianistici (‘the colour of spring’) e vaghi echi di un cantautorato (‘westward bound’) molto più vicino a un robert wyatt d’annata che alle mode del ’98, in una sorta di amplificazione dell’indimenticabile ‘chameleon day’ da ‘the colour of spring’.

resta ogni tanto la leggera ma decisa propulsività ritmica di ’laughing stock’, come ad esempio nella swingata e stralunata ’the daily planet’, trainata da un ride in 6/8 attraverso lievi cambi armonici che lanciano un commovente assolo di armonica.

il ritorno al silenzio avviene con gli arrangiamenti aperti e fintamente liberi di ‘a new jerusalem’, un gioiello di inventiva fatto di lievi crescendo per accumulazione che, proprio quando sembrano sul punto di far succedere qualcosa, si sciolgono nel vuoto e lasciano un minuto e mezzo abbondante di silenzio a chiudere l’album.


può piacere di più o di meno ma una cosa è sicura: non se ne sentono tanti di dischi così nella vita. è un disco unico per le idee del suo compositore, per gli arrangiamenti e per un’espressività generale intoccabile ma da cui si possono trarre mille ispirazioni e spunti, un disco possibile solo per il suo autore come punto di arrivo di un percorso artistico che non ha mai conosciuto momenti di stanca.

‘mark hollis’ è un album dilatato e largo ma avvolgente e impressionante nel suo suonare “vicino”, riempiendo completamente la stanza in cui viene riprodotto; un passo ancora oltre rispetto a ‘laughing stock’, un punto di non ritorno si potrebbe dire, in ogni senso possibile visto che hollis non ha mai più pubblicato una nota dopo questo disco. se resta l’amaro in bocca per aver perso la possibilità di vedere dove la terza età avrebbe portato questo artista inarrivabile, quantomeno abbiamo avuto una chiusura della storia con questo album trascendentale.

sabato 5 giugno 2021

black midi, 'cavalcade'


a due anni dalla stupenda sorpresa che è stato ‘schlagenheim’ tornano i giovani inglesi black midi. giovani anagraficamente ma a livello strumentale e compositivo sono anni e anni avanti alla media dei loro coetanei e con ‘cavalcade’ colpiscono in pieno un bersaglio con un disco che qualche anno fa sarebbe stato il sogno bagnato di steven wilson (che però nella sua infinita fighetteria non è mai stato graffiante o incisivo quanto i black midi).


spariscono quasi del tutto i riferimenti touch-and-go e dischord, lasciando emergere un magma di influenze notevolmente allargate rispetto all’esordio. nonostante lo spettro sia più ampio, il suono dei black midi è sempre lì a fare da collante: è un lavoro molto vario ma anche molto focalizzato e questo è uno dei suoi grandi meriti. di fatto è un album progressive in tutto e per tutto che arriva direttamente dallo spirito di metà anni ’70 saltando completamente quello che il genere è stato negli ’80 e ’90 e collegandosi idealmente al percorso di gruppi come i mars volta. 

il secondo chitarrista kwasniewski-kelvin decide di prendersi una pausa dal gruppo, gli altri scelgono di non rimpiazzarlo ma di allargare il parco strumentale coinvolgendo violino, sax e tastiere varie, spingendo sulla vena teatrale che spesso anima i brani del disco.


dopo una breve intro eterea arriva ‘john l’, un’esplosione di ritmi e colori, dissonanze e obbligati che ricordano i king crimson dell’era ‘starless and bible black’ in cui violini e fiati entrano di prepotenza nel tessuto sonoro del gruppo, generando un muro di suono che gioca su incastri che sanno di afro quanto di progressive inglese.

e la ballata pastorale ‘marlene dietrich’ non potrebbe essere più inglese, con melodie e arrangiamento che sanno tremendamente di canterbury, di caravan, con quella leggerezza che profuma di kevin ayers e chitarre che sembrano arrivare da ‘more’ o ‘meddle’ dei pink floyd. la crescita vocale di geordie greep è impressionante, la sua voce suona consumata, profonda e capace di interpretazioni da pelle d’oca.

‘chondromalacia patella’ cresce dal dna dei talking heads ma ha la velenosità dei pere ubu, la cerebralità dei tortoise e un andamento afro che la rende irresistibile e le conferisce un groove trascinante che ricorda i mars volta più scatenati. ‘slow’ ricorda a tratti i magma più epici e i primi dischi della mahavisnu orchestra per arrivare ad esplosioni travolgenti di mellotron e sax.

però è la seguente ‘diamond stuff’ a brillare su tutti: una perla di psichedelia acustica in cui comus e residents suonano e danzano in un bosco di notte, un brano scritto e arrangiato in maniera magistrale che si apre in una sezione dai toni pinkfloydiani mai espliciti, ricordando certe cose degli ultimi motorpsycho.

se ‘dethroned’ non è un omaggio a david bowie poco ci manca; ovviamente alla maniera dei black midi per cui la chitarra è abrasiva quanto astratta e la sezione ritmica in eterna convulsione sincopata. è la voce ad essere presa in prestito dal duca bianco, tanto nel timbro quanto nelle melodie e persino nella produzione, la struttura resta scardinata in modo progressive mentre le esplosioni chitarristiche sono tra i momenti più propriamente rock del disco.

si torna più sulla terra con ‘hogwash and balderdash’ che condensa in due minuti e mezzo il codice del disco: strutture tortuose, obbligati impossibili, arrangiamenti teatrali e impatti devastanti.

‘ascending forth’ al contrario dilata tutto su 10 minuti per chiudere come si deve il disco; nella prima parte tornano i comus e canterbury ma si uniscono anche genesis e van der graaf con il loro afflato teatrale, poi inizia un lento crescendo che porta ancora una volta a una marea di suoni in movimento su cui si staglia la voce di greep, prima di una celestiale cadenza in maggiore che svanisce nel silenzio, una chiusura da standing ovation.


mix e mastering sono un’altra arma vincente dell’album: le dinamiche sono squisitamente esaltate, mantenendo la naturalezza dei timbri in un gioco di riverberi che sa tanto di anni 60 quanto di bixler-zavala. l’edizione in vinile è ovviamente consigliata, non solo per il bellissimo artwork ma anche per l’aumento ulteriore delle dinamiche e della profondità del suono.


‘cavalcade’ è una forma moderna di progressive rock che salta completamente gli anni 80, 90 e 00 del genere e riparte dagli anni 70 senza però suonare anacronistico o forzato.

nonostante l’abbondanza di influenze, contorsioni strutturali e la forte cerebralità della musica, il disco risulta sempre fluido, approcciabile, coinvolgente e originale. in una parola, divertente. e non fatevi fregare dalla lista di nomi citati: l’effetto deja vu è abilmente evitato e il gruppo suona solo come se stesso. questo forse è il vero miracolo dei black midi, riuscire a fondere tutto questo materiale in un corpus omogeneo che non fa mai calare l’interesse nell’ascoltatore, sfruttando trovate ad effetto che rendono la musica divertente anche per chi non dovesse cogliere la miriade di riferimenti contenuti. nel fare questo, il giovane gruppo inglese rinforza ulteriormente la propria personalità sonica e continua il suo percorso parallelo e schizoide.

difficile non sorprendersi davanti alla maturità di questa evoluzione, impossibile resistere a ‘cavalcade’, un totem di maestria musicale che non va perso per nessun motivo.