lunedì 31 agosto 2020

ulver, 'flowers of evil'



il grosso problema di ‘flowers of evil’ non risiede realmente nel disco quanto nell’aspettativa che si era creata dopo la pubblicazione di un disco perfetto come ‘the assassination of julius caesar’. quando pubblichi un album del genere, il pubblico si aspetta (illude) che tu possa mantenere il livello all’infinito, spesso dimenticando che anche gli artisti sono esseri umani.


tagliamo la testa al toro, ‘flowers of evil’ non è tra i capolavori degli ulver (‘bergtatt’, ’perdition city’, ’shadows’, ’messe’ o ‘caesar’) ma questo non vuol dire che non sia un gran bel disco. 

quando si parla di garm & co. ci si aspetta sempre un nuovo passo in quell’evoluzione che li ha portati dal black metal all’elettronica a tutto il resto che hanno fatto nella carriera ma qui il gradino manca. o meglio, c’è ma non è così netto come è stato altre volte: restiamo sulle stesse coordinate di ‘caesar’, un synth-pop/darkwave di matrice ottantiana con beat martellanti e ritornelli melodici; il piccolo gradino che c’è è rintracciabile nel fatto che il gruppo ha eliminato ogni altra influenza, tagliando gli sbrocchi rumoristici o le code psichedeliche di ‘caesar’ e imbastendo 40 minuti di musica “semplice”, per quanto questo aggettivo possa essere adatto al gruppo (e a un concept che scava nelle iniquità della razza umana, questo sì meno a fuoco del precedente). da notare in ogni caso che la batteria è sempre acustica e l'utilizzo di beat digitali è molto limitato.


l’influenza dei talk talk è tangibile in quasi tutti i brani, dall’iniziale ‘one last dance’ che quasi cita ‘tomorrow started’ con i synth a ‘nostalgia’ che negli arrangiamenti ricorda ‘the colour of spring’; non mancano infiltrazioni del primo peter gabriel, generose dosi di depeche mode e addirittura ventate di puro pop ottantiano tra duran duran e spandau ballet (‘apocalypse 1993’).

nonostante i riferimenti pop, non è un disco immediato e coinvolgente come il suo predecessore, richiede più ascolti e dovrete ficcare la testa ben in profondità per uscirne con una visione chiara ma l’immagine è lì, nitida e precisa, anche più a fuoco di ‘caesar’ musicalmente.

sì, è vero, i pezzi non sono tutti allo stesso livello e pesa un po’ troppo la monoliticità ritmica di un beat quasi continuo che attraversa l’album, eppure canzoni come ‘russian doll’, ‘machine guns and peacock feathers’, ‘little boy’, ‘nostalgia’ (il tipico viking-shuffle, no?) o la strepitosa ‘a thousand cuts’ posta in chiusura sono bellissime finestre su un mondo grigio, freddo e lontano come possono esserlo i palazzi di oslo in inverno. non c’è il trasporto o il calore ritmico del disco precedente, c’è invece un lavoro notevole sugli arrangiamenti, con la chitarra di stian westerhus che si contorce in continuazione sullo sfondo, creando effetti meravigliosi sopra ai tappeti di synth glaciali. 


il groove e le melodie di 'machine guns' sono irresistibili, la vena di paranoia urticante che percorre 'little boy' è un piacere che striscia sottopelle, 'nostalgia' ha un bounce fantastico creato da una texture fatta di incastri strumentali sullo sfondo su cui si staglia uno dei migliori ritornelli del disco mentre 'a thousand cuts' è semplicemente magica con la sua atmosfera plumbea e alienata.

la voce di garm non cerca linee ad effetto ma si lega alla freddezza generale con melodie fatte di poche note; una critica che si può fare è che a tratti l’effetto è più di monotonia che altro, un cantante con più strumenti tecnici avrebbe probabilmente reso meglio l’idea ma tant’è, il timbro inconfondibile del barbuto norvegese è sempre un piacere da ascoltare e in questo caso è più vicino all’espressività di un jonas renkse che non al pop a cui la musica si riferisce.


in generale ho apprezzato di più la seconda metà del disco ma 8 pezzi per 40 minuti di musica riescono a non disperdersi mai e a mantenere il focus del disco sempre chiaro e in primo piano. mix e mastering (team di produzione formato da michael rendall (orb) e martin glover (killing joke))sono ottimi nel restituire un’immagine nitida e definita ma impastata il giusto per tenere tutto insieme, formalmente perfetti.


non è tra i loro migliori ma nemmeno tra i peggiori, è sicuramente meglio di ‘wars of the roses’, ‘drone activity’ o ‘the marriage of heaven and hell’ e questo basta a far sì che non sia una delusione. se riuscite a ricordarvi che anche loro sono umani e ad accontentarvi di un “semplice” bel disco avrete grandi soddisfazioni, se vi incaponite a cercare quello che non c’è… peccato, vi perdete un gran bel disco.