giovedì 16 maggio 2013

steven wilson, "the raven that refused to sing"




ci ho messo un po' prima di scrivere di questo disco, non so di preciso il perché. forse perché dovevo capire dove si collocasse sulla linea che divide la paraculata dal sincero "lo faccio per me".
alla fine ho deciso che questo disco non sta sulla linea, questo disco è quella linea. è contemporaneamente paraculata estrema ed atto ultimo della fuga di wilson dalla modernità.

sicuramente la formazione che lo segue sta più dalla prima parte: holzman-beggs-travis-govan-minneman è un filotto di nomi che fanno tremare nel profondo per il potenziale di ognuno degli individui. chiaramente però senza niente da suonare sarebbero solo nomi e qui entra wilson. curiosamente, nonostante qui si parli, ancora di più che per "grace for drowning", di purissimo progressive rock, il direttore di gruppo somiglia per approccio più a miles davis che a frank zappa. piuttosto che scrivere precise partiture per ogni minima parte suonata dalla band, wilson scrive pezzi al cui interno ogni musicista ha modo di esprimersi e dare il suo tocco inconfondibile.

questo è probabilmente il perno fondamentale che regge l'intero disco: l'abilità di compositore di wilson e la sua capacità di mantenere costantemente tutto unito, coeso e fluido, senza incappare mai in freddi esercizi. l'atmosfera spettrale che permea l'intero album aiuta molto, così come il "concept" sul sovrannaturale ma sarebbe un crimine non notare anche come la voce e la tecnica vocale di wilson stesso siano migliorate esponenzialmente negli ultimi tempi e lo portino ad accentuare un aspetto "patetico" (nel senso buono) pressoché inedito nella sua discografia. ne è prova perfetta the raven that refused to sing, ballata posta in chiusura, probabilmente miglior pezzo dell'intero album grazie ad un lavoro di squadra perfettamente simbiotico: il tocco al pianoforte di holzman è da lacrime, così come gli ingressi in glissando di travis e il suono strappamutande di govan, una canzone perfetta.

non che il resto sia troppo da meno eh. anche i momenti più frenetici e "duri" come luminol o the holy drinker, pur avendo assoli e obbligati e cazzi vari, non si perdono mai nell'assolo fine a se stesso ma lo usano piuttosto per alzare o abbassare le dinamiche o per fluire in una parte successiva con estrema naturalezza.

ho detto dinamiche. qui arriva l'aspetto forse ancora più mostruoso del disco: il suono.
nella parata di nomi prima ne ho evitato apposta uno per tenermelo da parte: l'ingegnere del suono è alan parsons. unendo questo particolare all'eterna lotta di wilson contro le compressioni estreme e la loudness war, il risultato è indescrivibile. l'escursione dinamica è anche aiutata dall'assenza di mastering che protegge l'effetto ottenuto dal registrare tutte le tracce base live in studio; ma per capire bisogna ascoltare in cuffia lasciandosi cullare dalle dita sui tasti nell'assolo di piano di luminol, dal tocco elegante di govan in drive home o nella già citata the raven.

ma poi, di fatto, come suona il disco? questo è un altro particolare che mi ha fatto aspettare prima di scriverne. di base ci sono UN SACCO di genesis e king crimson su tutti. impossibile però non sentire gli yes, i gentle giant, i pink floyd... wilson si è divertito più che mai a battersene la ciolla di modernismo, avanguardia e quant'altro e si è gettato nella sua collezione di vinili per tirarne fuori tutto quello di cui aveva voglia. come se questo disco fosse la controparte elettrica di storm corrosion. da questo punto di vista, il confronto con il monumentale "grace for drowning" è perso, ma per coesione, suono, composizione e produzione in generale, "the raven that refused to sing" è un altro apice della carriera dell'inglese. è un disco perfetto, se solo riuscite a dimenticarvi del fatto che è uscito nel 2013.


http://grooveshark.com/#!/album/The+Raven+That+Refused+To+Sing+and+Other+Stories/8602888

martedì 14 maggio 2013

elio e le storie tese, "l'album biango"



"studentessi" era stato una sorpresa davvero bella da parte degli elio. dopo un disco strano come "craccraccriccrecr" e uno brutto come "cicciput", la ventata di ispirazione di "studentessi", nella composizione come negli arrangiamenti e nei testi, aveva rialzato in modo deciso le quotazioni dei milanesi.
questa volta non è andata così.

la scorsa volta a sanremo il gruppo ha dato vita ad un qualcosa che è rimasto nella memoria collettiva italiana: 'la terra dei cachi' è diventato istantaneamente uno dei brani più conosciuti e significativi della musica italiana, anche per chi considera gente come vasco rossi o ramazzotti come "musica di qualità".
nel 2013 invece il gruppo si presenta con due brani, uno bello e uno inutile. quello bello viene scartato alla prima serata, quello inutile arriva secondo al festival. 'la canzone mononota' è un esercizio di stile vuoto e ridondante che stupisce al primo ascolto ma al secondo ha già rotto il cazzo. 'dannati forever' invece, qui posta in apertura del disco, è un bel pezzo con un gran tiro, un testo simpatico seppur non eccezionale e un'arrangiamento tutto sanremese.

ma "l'album biango" purtroppo non mantiene il livello del suo inizio. il gruppo va perlopiù sul sicuro, senza mai mostrare grossi picchi di ispirazione ma rasentando troppo spesso il fondo.
funzionano bene 'amore amorissimo' e 'il ritmo della sala prove' (la quale snocciola una serie di verità assolute sulle sale prova che chiunque abbia suonato uno strumento nella vita non potrà non apprezzare), benissimo 'luigi il pugilista' e il 'tutor di nerone', senza dubbio le due migliori canzoni del disco. poi però canzoni scialbe e inutili come 'enlarge your penis', 'una sera con gli amici' o 'lampo' spezzano il ritmo senza infamia né lode. vero, senza mai cadere in basso come 'shpalman', però ci vanno vicine. in più sul finale il disco va di nuovo ad inabissarsi nell'esercizio di stile fine a sé stesso con 'come gli area' e 'complesso del primo maggio' che, esattamente come 'la canzone mononota', fanno sorridere ad un primo ascolto ma poi si rivelano come degli effetti speciali di michael bay: grandi esplosioni e niente film. mancano melodie ispirate e genuine idee per i pezzi, architetture costruite per far scena e nascondere la poca sostanza alla base (un po' come tutta la carriera dei queen).

stupendo invece il pezzo effettivamente suonato dagli area, 'reggia (base per altezza)',così come bellissime sono molte delle intro. il vero colpo di genio in questo senso è la ghost track: una versione da 7 minuti della canzone mononota per sola voce e cassa in 4. inutile invece la successiva riproposizione di 'come gli area' in versione strumentale (guarda caso come fu per 'pagano' su "cicciput"...).

poco altro da dire e questo è il vero problema: "l'album biango" è un disco molle, non troppo ispirato e con pochi momenti davvero entusiasmanti. peccato, tornerò ad ascoltare "eat the phikis".


http://grooveshark.com/#!/album/L+Album+Biango/8925980

nanodischi #5: aprile 2013


sì sì lo so, sono in ritardo, ma son stato senza pc per due settimane perché l'ho preso a pugni. ecco a voi il riassunto del mio aprile.


nevermore - dreaming neon black (1999)

i nevermore, insieme ai grip inc., erano l'incarnazione suprema del metallo post-2000. più metal di loro nessuno.
questo disco unisce al suono pesanterrimo del gruppo di seattle (uno dei palm muting più devastanti di sempre) un concept disperato interpretato da warrel dane come mai più gli riuscirà. melodie storte su ritmiche tritaossa, momenti di psichedelia metallica e tante mazzate.

grip inc. - nemesis (1997)

i grip inc., insieme ai nevermore, erano l'incarnazione suprema del metallo post-2000. più metal di loro nessuno.
la chitarra di waldemar sorychta (attento e intelligentissimo produttore) macina riff su riff senza mai andare a vuoto, col suo "vago" retrogusto slayer sempre in agguato ma gli eroi del disco sono gus chambers e la sua voce che è violenza pura e dave lombardo che col suo groove inconfondibile traina tutto il gruppo con un suono che è pura goduria.

litfiba - trilogia 1983-1989

per chi si fosse perso i concerti all'alcatraz (compreso me, stronzo), ecco arrivare un bel doppio live con la scaletta completa di quando i litfiba, riuniti ad antonio aiazzi e gianni maroccolo, hanno ricordato i bei tempi andati fermandosi all'89. le canzoni le conoscete e se non le conoscete conoscetele (su rieduchescional chiannèl), il live è molto bello, peccato che abbiano sostituito un grandissimo batterista (morto) come ringo de palma con un cane (un ex batterista degli atroci dal suono terribile e totalmente privo di groove).

red hot chili peppers - blood sugar sex magick (1991)

sempre bello tornare ai 14 anni. solo che adesso ti accorgi del mix incredibile dell'album, dei suoni pazzeschi di batteria e capisci un po' di più di quello che fa il basso. il risultato, alla fine, è lo stesso di quando avevi 14 anni: ascolteresti blood sugar da mattina a sera.

wolfmother(2006)

a volte ci vuole un po' di revival fine a sé stesso e, per quelle volte, il mondo ci ha regalato i wolfmother. led zeppelin e black sabbath su tutti ma anche mc5, grand funk, stooges, who e tutte quelle altre "ovvietà" che vi potete aspettare, confezionate con un suono potente e sporco "finto vintage" pronto per essere ficcato nell'autoradio e non uscirne più fino alla fine dell'estate.

spock's beard - brief nocturnes and dreamless sleep

gli spock's beard ho smesso di seguirli dopo snow. con quel disco han dato tutto, neal morse ha dato anche il cervello (a gesùbambino). gli eventi seguenti mi hanno allontanato dalla band che oggi ritrovo orfana anche del batterista (fantastico) nick d'virgilio. e allora, per curiosità ascolto il disco. e il disco ascolta me. e un po' ci facciamo felici a vicenda. suono progghissimo, pezzi ispirati, ottima scrittura (ogni tanto torna anche neal morse). niente di nuovo, però che bel disco.