giovedì 24 dicembre 2020

distant zombie warning 2020



potremmo dire che il 2020 è stato un anno… bizzarro. potremmo anche dire che è stato un anno di merda volendo. anzi, è stato indiscutibilmente un anno di merda, forse però proprio per questo è uscita una quantità di musica bella davvero imbarazzante. era qualche anno che non mi trovavo in difficoltà a selezionare la top ten, ho dovuto lasciare fuori roba di cui sono sicuro mi pentirò e ho preferito dare spazio a sorprese e cose nuove/che non conoscevo. questo significa che due dei miei gruppi preferiti di sempre non sono finiti in classifica (pain of salvation e motorpsycho) ma altri sì (today is the day, napalm death, nine inch nails).
non c’è un vincitore netto, è andata così, per cui la classifica è puramente in ordine cronologico per data di uscita, da cui i numeri di fianco ai titoli.


capitolo i: quelli proprio bravi


today is the day_no good to anyone 02.28

steve austin torna dopo anni, malattie, incidenti e morti che l’hanno portato a scrivere un disco che se non ha l’efferatezza dei capolavori passati quantomeno ha una strana bava acida e rabbiosa alla bocca. ci sono pezzi incredibili come ‘no good to anyone’, ‘attacked by angels’ o ‘born in blood’, c’è un’atmosfera malata e alienante e dei gran suoni di chitarra. sicuramente uno dei dischi che ho ascoltato di più quest’anno.



shabaka and the ancestors_we are sent here by history 03.13

poco prima che la morte di george floyd scatenasse la rabbia della popolazione afroamericana, shabaka hutchings coi “suoi” ancestors ha pubblicato un disco che è pura celebrazione dello spirito africano come collettività, una festa per celebrare la fine dei tempi che a tutti noi a marzo non sembrava un’ipotesi poi così remota. è jazz del nuovo millennio, non è poi così diverso da quello del millennio scorso, è corale, è solistico, è orgiasticamente ritmico, è imperdibile.



nine inch nails_together 03.26

dei due dischi a nome nin usciti quest’anno, ‘together’ è quello che mi ha colpito. non che ‘locusts’ sia brutto, anzi, è solo che è più prevedibile e più sui binari del classico suono del gruppo mentre ‘together’ mostra una grande maturità nel suo rielaborare le esperienze con le colonne sonore in un viaggio che non necessita di immagini per essere vissuto, attraverso un lavoro di suoni mozzafiato e arrangiamenti dilatati. 



sex swing_type ii 05.15

con questo secondo disco il supergruppo americano ha creato qualcosa di unico, una miscela paranoica di rock, noise, psichedelia, kraut, post-punk e altro che vi travolgerà come un fiume. le sferzate del sax sono una goduria ma è la ritmica il motore del gruppo, un treno inarrestabile che trascina per tutto il viaggio.



jon hassell_seeing through sound 07.24

jon hassell, dall’alto dei suoi 83 anni e 60 di carriera, ha evoluto un’estetica e un modo di fare musica unici. ‘seeing through sound’ è un disco di immagini, di dipinti sonori in cui gli strumenti giocano con gli arrangiamenti e lo spazio si dilata, un’opera poetica e profonda che mostra come anche i musicisti “di una volta” possano aggiornarsi e suonare moderni, ben più di tanti giovinotti da strapazzo.



imperial triumphant_alphaville 07.31

il metallo non è mancato quest’anno, sia nella tradizione (napalm death) che nelle sue evoluzioni più spinte. proprio qui stanno gli imperial triumphant che con ‘alphaville’ hanno superato se stessi, un disco densissimo di idee, fatto di destrutturazione e ricostruzione minuziosa del metal (soprattutto death e black) e di interventi timbrici bizzarri (fiati, percussioni, cori). una formula molto originale che sarà bene ricordare nel futuro.



the microphones_the microphones in 2020 08.07

sì, è un’hipsterata stellare ma non ci posso fare niente, l’opera autobiografica di phil elverum mi è piaciuta tantissimo nella sua egocentrica schiettezza. l’idea del pezzo unico di 45 minuti funziona benissimo e racchiude molte delle sfaccettature del suono di elverum come microphones, dalle scazzatissime chitarre acustiche alle esplosioni di rumore. l’arrangiamento è fantasioso e imprevedibile il giusto, il testo divertente, alzo le mani, uno dei migliori dischi di cantautorato che abbia sentito negli ultimi anni.



ulver_flowers of evil 08.27

c’è poco da fare, la classe non è acqua: anche quando gli ulver si danno a un mestiere d’autore, riescono a confezionare un disco incredibile. più distaccato e nordico, un po’ più tecnico e meno ovvio del suo illustre predecessore, ‘flowers of evil’ infila otto pezzi di synth-pop paranoico che non mancano un colpo, richiedono solo un po’ più di impegno e di attenzione. se è vero che garm può migliorare come cantante, la finezza degli arrangiamenti fa decisamente da contrappeso elevando il disco intero.



napalm death_throes of joy in the jaws of defeatism 09.18

l’oltranzismo, la rabbia, la tradizione, lebbotte. quante botte ci hanno dato i napalm death in più di 30 anni. e noi muti, giù a pagare ancora, un altro disco, un altro concerto. ancora una volta nel 2020 gli inglesi pubblicano un disco che a tratti sorprende con soluzioni post-punk e industrial inaspettate, per il resto trita le ossa con una carriolata di riff spettacolari e il meraviglioso ringhio di barney. non puoi volere di più.



mr.bungle_the raging wrath of the easter bunny 10.30

a 34 anni dalla sua originale registrazione, i mr.bungle risorgono dal nulla per pubblicare la nuova versione del loro primo demo. sì, è un’idea bizzarra ma loro sono loro, se vi aspettavate altro… sbagliavate. se vi aspettavate qualcosa in generale sbagliavate perché questa reunion è davvero uscita dal nulla. con l’aggiunta di scott ian e dave lombardo i bungle (ri)danno vita a un album fatto del più classico thrash metal ottantiano che possiate immaginare e lo fanno spaccandovi le ossa con un groove inarrivabile e un mike patton a dir poco scatenato. 


capitolo ii: siete tuttibbravi

tantissima roba bella quest’anno si diceva e infatti la lista dopo la top ten sarebbe ancora assai lunga.
posso forse non citare i pain of salvation in un articolo di fine anno? no, soprattutto quando fanno un gran disco come ‘panther’, moderno, accattivante e ben riuscito, per quanto sia un disco solista di gildenlöw. così come non posso non parlare di ‘the all is one’ dei motorpsycho, un disco che non stupisce per innovazione ma centra in pieno una suite da 45 minuti che è un gioiello imperdibile.
ci sarebbe da parlare dei coriky, nei quali ian mackaye e joe lally creano la musica più vicina a dei nuovi fugazi che possiate volere oggi, dell’incredibile ‘calculus’ di (ma senza) john zorn in cui il piano trio dunn-wollesen-marsella è lanciato in due suite in cui composizione e improvvisazione si mischiano fino a confondersi; e del disco degli enslaved non se ne parla? perché ‘utgard’ è l’ennesima figata aggiunta all’estesa discografia dei norvegesi, un condensato delle loro facce che riesce ad evitare certe prolissità del passato.

bellissime sorprese come la furia rave-punk degli special interest e del loro ‘the passion of’, un disco creativo quanto rabbioso, o ‘balance of decay’ dei polacchi javva, un divertentissimo mischione di post-hardcore, world music e prog; invece ’lapse in passage’ dei mute duo è uno splendido album strumentale per chitarra e batteria in cui si dipingono scenari larghi e caldi che potrebbero venire dagli earth e anche questo è bene non mancarlo.
citazione dovuta anche per gli americani horse lords e il loro incredibile the common task, un disco in cui i continenti si mischiano, le accordature si fanno matematiche ma non si perde mai una musicalità e un trip profondi e coinvolgenti, tra kraut, math-rock e post-qualcosa.

c’è altro? ah sì, l’ennesimo (quarto) bel disco dei metz (‘atlas vending’), un po’ più obliquo del solito, c’è il ritorno a una parvenza di melodia negli autechre (‘sign’), c’è il bel disco elettronico strumentale dei subsonica (‘mentale strumentale’, e chi se lo aspettava, bastava togliere la voce!), c’è il tripudio di black music rappresentato da ‘black is’ dei sault e ‘heaven to a tortured mind’ di yves tumor.
potrei fermarmi qui ma so già che mi sentirei in colpa per non avervi consigliato lo strepitoso ‘snow catches on her eyelashes’, illuminato incontro di due musicisti specialisti dello spazio e del respiro musicale come jan bang ed eivind aarsset ma allo stesso tempo devo anche ricordare a tutti gli amanti dei più profondi e disperati abissi musicali l’uscita di ‘shame’ degli uniform (un blocco monocromo che vi schiaccerà la testa, in maniera un po’ più fisica del solito) e un’altra illustre collaborazione, in questo caso tra kristin hayter (lingua ignota), lee buford (the body) e dylan walker (full of hell), un mostro sonoro nero e appiccicoso a nome sightless pit che farà la vostra felicità. circa. e in quanto a marciume vi consiglio caldamente l’omonimo esordio dei duma, un duo del kenya dedito a un terrorismo sonoro fatto di cyber-grind, digital-core e urla death metal che vi lacererà la pelle.
volete più botte? ‘impenetrable cerebral fortress’ dei gulch è un quarto d’ora di hardcore/grindcore senza alcun compromesso o pietà.

non basta ancora? daje di ristampe. 
neil young ripesca dal passato ‘homegrown’, un flash di anni 70 a metà tra ‘harvest’ e ‘on the beach’. volete musica più suonata? vi consiglio il cofanetto di frank zappa ‘halloween 81’, tre concerti che si distinguono perché sono uno bellissimo, uno incredibile e uno fuori dal mondo. 
non può mancare una parentesi grateful dead, ’dave’s picks 34’ e ‘june 1976’ contengono momenti di dead trascendentali (la ‘dark star’>’spanish jam’ del dave ad esempio o il concerto di boston del 10 giugno dal cofanetto), così come non posso non invitarvi all’ascolto del mega-cofanetto ristampa di ‘sign o the times’ di prince: il materiale bonus è uno scrigno di tesori e stavolta pure il remaster è fatto molto molto bene.


capitolo iii: è andata così

ovviamente tanta roba vuol dire anche tante schifezze. ammetto però che quest’anno mi ci sono messo poco, la voglia di polemica era poca e la musica buona tanta. c’è almeno una delusione cocente con quell’impiastro informe e inutile di ‘buried cities’ dei katatonia, un disco che nei momenti migliori è solo sciapo, nei peggiori ridicolo. per altro gli svedesi hanno rincarato la dose con il mediocre e insipido live ‘dead air’, lasciamo perdere va.
delusione cocente anche dai fates warning che con il loro ‘long day good night’ pubblicano il peggior disco in una carriera di 36 anni, pur non essendo definibile una schifezza è un disco spompo e privo di motivi di interesse.
non è una merda ma neanche la figata che prometteva di essere la riesumazione del progetto blood from the soul da parte di shane embury, il quale si circonda di nomi altisonanti (jacob bannon, dirk verbeuren, jesper liveröd) per pubblicare un disco con buoni spunti che però non si concretizzano mai in grandi pezzi, restando un po’ in un limbo dimenticabile.

continuo a sorprendermi di come certa critica vada in brodo di giuggiole per una cover band come i fontaines d.c. che anche quest’anno non ci han fatto mancare il loro discutibile bigino di musica non solo vecchia ma anche fatta ben meglio da (molti) altri.
la chicca di fine anno è stato il medley natalizio dei dream theater che è assurto a opera d’arte totale e inarrivabile, non ho parole per descriverlo.


capitolo fine: fine.

apposta non ho voluto eleggere un vincitore in questo peculiare 2020: nonostante tutto, la musica ne esce vincitrice un po’ in tutti i generi, con conservatori e progressisti tutti uniti nel nome di un’ispirazione genuina che ci ha portato una marea di suoni fantastici. 
nel bene o nel male, è un anno di cui ci ricorderemo a lungo; quantomeno la colonna sonora è stata una bomba.



ps: blogger non mi fa incorporare la mia playlist col meglio del 2020 per cui vi beccate il link, dovrete fare la fatica immane di cliccarci sopra, mi spiace.


https://youtube.com/playlist?list=PLRxkRYHqZM_XxlnWmqqj9Nog4XjYQ18wi

giovedì 3 dicembre 2020

jon hassell, 'seeing through sound'


jon hassell, classe 1937, è uno che quando passa lascia il segno. 
studente di stockhausen, collaboratore di terry riley, la monte young, david sylvian, brian eno (che ha scritto un articolo sul suo debito nei confronti del trombettista), peter gabriel, bjork, talking heads, tears for fears, hassell ha mostrato a tutti un modo diverso di fare musica con il suo esordio solista del ’77, ‘vernal equinox’, un disco in cui le culture mondiali si incontravano per creare un suono universale, aperto, vivo. “fourth world” la chiama lui, a sottolineare il carattere trascendentale e “totale” della sua musica.

dopo essere sparito per nove anni, hassell è tornato nel 2018 con ‘listening to pictures’, un disco che introduceva la sua nuova idea sinestetica di musica in cui quasi nulla è ciò che sembra, una continua texture di suoni impalpabili che ruotano attorno all’ascoltatore creando un’esperienza sensoriale più che musicale.
‘seeing through sound’ è il secondo volume ('pentimento volume two', riferimento alla pittura), la continuità è espressa fin dal titolo e la musica non si discosta troppo, se non per un andare ancora più in là, infrangendosi in gocce di suono organizzate per toni e timbro più che per i canonici parametri di armonia-melodia-ritmo. è musica che si nutre dei 60 anni di esperienza musicale di hassell, della sua cultura e studi multietnici, della sua metabolizzazione del miles davis più sfrontato di inizio 70. in questo si può vedere un parallelo con wadada leo smith ma anche per la loro continua ricerca sullo spazio e le forme musicali; del resto hanno entrambi lasciato un segno profondo con due dischi quasi coevi, ‘vernal equinox’ per hassell nel ’77 e ‘divine love’ per smith nel ’79, due album molto vicini per la loro idea “totale” di musica.

non è jazz, eppure gli accordi di piano di ‘delicado’ usano quel linguaggio, non è downbeat ma è difficile non pensare al trip-hop più psichedelico ascoltando ‘reykjavik’ o il commovente finale con ‘timeless’, non è elettronica pura ma l’etichetta di hassell per cui esce, la ndaya, è sotto al gigante warp. ogni tanto compare una ritmicità mantenuta sottopelle (‘cool down coda’) ma in genere è musica che usa la ritmica in un modo completamente diverso, più aperto e fatto di attacchi lunghi, sicuramente vicina alla ambient più profonda che la warp ha spesso pubblicato. la stessa tromba di hassell, quando c’è, è difficile da riconoscere: effettata e trattata in mille modi, diventa una voce lontana e poetica che interviene a commentare (‘unknown wish’) o ad arricchire le trame sottese dal resto dei musicisti, tra cui spicca l’eccellente lavoro alla chitarra di rick cox (affiancato da nientemeno che eivind aarset in ‘fearless’) e quello di john von seggern all’elettronica (ma tutti si occupano di più strumenti).

‘seeing through sound’ è l’opera di un musicista che non ha niente da dimostrare al mondo ma che a 83 anni ha ancora voglia di reinventarsi e trovare nuovi modi per esprimere la sua arte, guardando ben oltre i limiti temporali e assorbendo suoni e idee provenienti da tutto il mondo e da ogni epoca della musica, moderna e non. riuscire a farlo mantenendosi lontani da un massimalismo caciaro e restando sempre bene in equilibrio su una liricità fine e mai pacchiana è cosa che solo un maestro possa fare. jon hassell è un maestro.



mercoledì 2 dicembre 2020

mr.bungle, 'the raging wrath of the easter bunny'


io amo i mr.bungle. se voi non amate i mr.bungle, abbiamo un problema, sappiatelo.

perché amo i mr.bungle? perché sono (stati) uno dei gruppi più liberi, indipendenti e creativi che abbia mai avuto la fortuna di sentire. hanno iniziato facendo thrash metal, poi hanno fatto progressive-ska-metal, poi hanno fatto noise recitando in italiano, poi sono finiti a sorseggiare margarita su spiagge aliene. lo facevano come un gruppo di amici che si divertiva a mettere le proprie incredibili competenze musicali al servizio di idee che potevano anche sembrare completamente imbecilli ma avevano alla base una genialità incontenibile. ok, poi a volte erano completamente imbecilli.


si sono sciolti, i mr.bungle, dopo ‘california’. hanno detto basta, non se ne parla più, non rompete il cazzo. tutti persi via in mille progetti, a partire da mike patton ovviamente che a quel punto era completamente svincolato.

questo almeno fino ad agosto 2019, quando è uscita dal nulla la notizia della reunion. tutti impazziti, tutti felici, cosa fanno? tre concerti a los angeles in cui suoneranno il loro primo demo.

uhm?

sì, saranno accompagnati da dave lombardo alla batteria e scott ian alla seconda chitarra.

eh?

non solo, pubblicheranno anche una nuova versione ri-registrata di tutto il primo demo con questa formazione.


eccolo qui. 

vi ricordate i fiati ska, l’elettronica ambientale, gli effetti noise, i cori, i groove smooth, la sperimentazione? bene, eccovi 55 minuti di thrash metal direttamente dal 1986. 

anacronistico, direte voi. assolutamente, al 100%, se non fosse che questa musica è stata effettivamente pubblicata per la prima volta nell’86 ma in qualità atroce: questo è un rendere giustizia a quelle idee macellate da una registrazione a dir poco scadente.

e funziona?

cazzo se funziona. non solo funziona, è una festa, ‘the raging wrath of the easter bunny’ è uno dei dischi metal più divertenti degli ultimi tempi, puzza di chiodo e birra e sa di san francisco (non a caso). è puro thrash, non sentivate lombardo così scatenato da anni, il suo suono è secco e devastante, una versione moderna di quello di ‘reign in blood’ e la sua prestazione è straripante, così come quella di mike patton che dimostra cosa manchi davvero al 90% dei gruppi nel genere: un cantante. le sue urla sono animali e la sua duttilità dona dinamica a brani che di dinamica ne hanno ben poca e le sue trovate imbecilli sono perfettamente inserite nel tono tra il serio e il cretino del disco.

tutto il mix è secchissimo, le chitarre sono in faccia e sono super tight, stiamo parlando del resto di due chitarristi fantastici. non fatevi ingannare dall’aspetto cacofonico degli assoli, trey spruance da bravo nerd se li è studiati uno per uno costruendoli su scale modali e utilizzando varie tecniche che dimostrano la sua inarrivabile versatilità. 

come non menzionare poi la prova di trevor dunn al basso. già il fatto che si senta il basso in un disco thrash è un miracolo, in più lui ci mette del suo con una prestazione che non solo indurisce l’impatto ma aggiunge anche melodie e controtempi inaspettati alle trame dei pezzi.

‘anarchy up your anus’, ‘hypocrites’, ‘eracist’, ‘sudden death’, tutte perle da un mondo passato, un modo di fare metal che non ha nulla di moderno a parte mix e mastering ma che vi spezzerà le ginocchia proprio come i classici del genere. del resto se all’epoca fosse stato registrato dignitosamente, non escludo che oggi lo metteremmo proprio di fianco ai capolavori di quel periodo. vallo a sapere.


…e ora di nuovo non si sa, non han voglia di fare un disco, han fatto un concerto in streaming… staremo a vedere cercando di non aspettarci niente, visto che dai mr.bungle non sai mai cosa arriverà, se arriverà qualcosa. di una cosa siamo tutti abbastanza sicuri: se arriverà, sarà un’altra figata.

non si può non amare i mr.bungle.

io amo i mr.bungle.




martedì 1 dicembre 2020

horse lords, 'the common task'

gli horse lords sono un quartetto di baltimora formato da andrew bernstein (sax e percussioni), max eilbacher (basso e synth), owen gardner (chitarra) e sam haberman (batteria) che arrivano al quarto disco con ‘the common task’, pubblicato il 13 marzo 2020.

la loro musica si inserisce in quel filone di rock che (la faccio facile, non me ne vogliate) nasce con il kraut, diventa “post” nei primi ’90 con gruppi come i tortoise e poi vive un momento di insperata celebrità nei primi 2000 con gente tipo i battles (e i più interessanti three trapped tigers). math-rock si potrebbe dire, probabilmente più a ragione di tutti i gruppi citati visti i ragionamenti matematici che stanno dietro all’intonazione naturale usata come metodo di accordatura dal gruppo, con le chitarre modificate da gardner stesso.



l’intonazione naturale si discosta dal temperamento equabile (il metodo di accordatura usato abitualmente) poiché invece di correggere le piccole imperfezioni nelle relazioni matematiche tra le note mantiene ogni intervallo basato su proporzioni “pure”. è un discorso lungo e complicato, per farla semplice: il sistema che usiamo abitualmente ha la comodità di non richiedere di ri-accordare gli strumenti per ogni cambio di tonalità poiché le distanze fra le note sono “aggiustate” mentre con l’intonazione pura bisogna calcolare le distanze sempre partendo dalla tonica per preservare gli intervalli naturali, questo risulta in sovrapposizioni di note che limano le dissonanze e i ribattimenti, cambiando la nostra percezione della musica.


gli horse lords, dicevamo. fanno musica che è modulare ma anche no, mi spiego. i movimenti degli strumenti ritmici (e spesso anche del sax) sono a blocchi ma raramente tutti gli strumenti cambiano insieme, creando un continuo movimento disorientante ma mai aggressivo o disturbante. insieme a questo troviamo però anche synth che attraversano le tracce per il lungo, dando continuità e distaccandosi dal movimento modulare. oltre a questo, la loro musica fa man bassa della tradizione ritmica africana, fatta di pronuncia e cicli ritmici, basandosi proprio su questo aspetto più che sull’armonia.

musica psichedelica, senza dubbio, derivata anche da esperienze con sostanze psicotrope (cosa apertamente dichiarata dal gruppo) che allo stesso modo cerca un’alterazione dello stato mentale dell’ascoltatore, lo rapisce completamente escludendo il mondo esterno o modificando la percezione che se ne ha.


le trame strumentali sono secche e fittamente intrecciate senza la minima imprecisione, non c’è alcun dubbio sul fatto che i 4 di baltimora siano dei musicisti eccezionali. ciò che più rapisce di ‘the common task’ è la sua fluidità: nonostante le geometrie cerebrali, gli spigoli e il disorientamento di cui sopra, la musica scorre in modo naturale e non vuole mai stupire con colpi di scena o gesti clamorosi. la batteria di haberman rotola sbilenca in modo ritmicamente molto fantasioso, la chitarra di gardner potrebbe ricordarvi andy summers, robert fripp, jeff parker, è un continuo lavorare su cluster e cellule che prende tantissimo dalla musica africana; il basso si inserisce in mezzo ai due con pedali che sanno ora di afrobeat, ora di kraut rock mentre il sax di bernstein è spesso protagonista con suoni allucinati che possono allinearsi alla griglia ritmica o solcarla con lunghi droni che danno drammaticità allo svolgersi dei pezzi.


mix e master sono ottimi, mantengono la naturale percussività degli strumenti e non snaturano le dinamiche dei pezzi, fondamentali per il viaggio. c'è un bell'impasto generale che non toglie mai spazio agli strumenti, facendoli uscire sempre nel momento giusto.

‘the common task’ è un disco incredibile, intelligentissimo, profondo e ricercato ma anche godibile e coinvolgente (di certo dal vivo farebbe ballare un sacco di persone), ha il suo apice nei 18 eccezionali minuti della conclusiva ‘integral accident’ (aperta da una lunga sezione in cui compaiono gli ospiti del pezzo: fisarmonica, violino, fagotto e voce femminile, rapisce poi con un crescendo magistrale) ma non conosce momenti di stanca, che sia l’africa psichedelica di ‘people’s park’, la vertigine ritmica di ‘fanfare for effective freedom’ o la paradisiaca oasi di droni di cornamusa manipolata ‘the radiant city’. una volta che ci si sprofonda sarà molto difficile dimenticare l’esperienza, consigliatissimo a chiunque cerchi musica “diversa”.




sabato 14 novembre 2020

katatonia, 'dead air'


è brutto da dire ma ormai sono quasi dieci anni che i katatonia non ne azzeccano una. dopo lo splendido ‘dead end kings’ si sono susseguite una serie di uscite che vanno dall’inutile (‘dethroned and uncrowned’, ‘sanctitude’) al brutto (‘the fall of hearts’, ‘city burials’, i due peggiori dischi mai pubblicati dalla band), con unica eccezione il live ‘last fair day gone night’, ancora con liljekvist alla batteria e con una scaletta da applausi.
oggi gli svedesi pubblicano il live ‘dead air’, registrato durante il concerto in streaming del 9 maggio 2020, in piena prima ondata covid. e uno pensa “lockdown, angoscia, katatonia, è perfetto!”. meh. 
anzi, no.

il problema principale di ‘dead air’ è il suono generale: freddo, bidimensionale, poco coinvolgente. “beh sono i katatonia, che ti aspettavi?”
i katatonia li ho visti 9 volte dal vivo tra il 2001 e il 2013, in italia, in svezia e in francia. ognuna di queste volte è stata diversa dalla precedente, ognuna un po’ meglio di quella prima: ho visto jonas crescere come cantante, ho visto il gruppo creare coesione e un suo modo di coinvolgere il pubblico, per quanto ovviamente un concerto dei katatonia non sia una festa latinoamericana. quello che sento qui è un gruppo che suona su un click e pensa come prima cosa all’esecuzione tecnica tralasciando completamente l’emotività della propria stessa musica. sento jonas preoccupato di sbagliare e che quindi canta con un tono che spesso perde il suo tipico carattere (soprattutto mentre si scalda nei primi pezzi), sento un batterista che se fosse una drum machine non cambierebbe molto, sento tutti gli strumenti ben separati e curati ma nessuna pasta generale (le chitarre hanno un tremendo suono da guitar rig, privo di qualsivoglia mordente), manca la densità del suono dei dischi, è tutto pulitino e precisino e un po’ inutile. aspetti il momento in cui farti trascinare ma non è detto che arrivi perché i katatonia sono passati da banda di svedesi alcolizzati a gruppo di metallari fighetti (e non a caso appena è successo la critica ha iniziato ad appiccicargli il prefisso “post-“. perché quanto cazzo fa figo e artista mettere post- davanti al genere anche quando non vuol dire nulla?).

prendete ‘the racing heart’ per esempio, un pezzo che su disco aveva una profondità pazzesca, risultato anche di un bellissimo lavoro di arrangiamento e stratificazione; qui perde tutto, tutto, tutto, a parte le melodie (pure quelle minate da qualche errore di jonas). non ha alcuna dimensione, non ha energia, è vuota e risulta quasi più un intermezzo che una canzone, grazie anche al mosciume batteristico del mediocre daniel moilanen che con il fantastico daniel liljekvist condivide giusto il nome e manca completamente della spinta propulsiva del suo predecessore.
parliamo della scaletta. dunque, ‘city burials’ è uscito in aprile, eliminando ogni possibilità per il gruppo di fare un tour a supporto dell’album, quindi gli sveziani pensano bene di fare un concerto online per i fan. per presentare il disco? uhm, no, non direi visto che su 20 pezzi totali solo 3 provengono da quella schifezza. per fortuna. per presentare magari dei nuovi arrangiamenti? neanche alla lontana, nulla è cambiato di una virgola. per suonare qualcosa di particolare tra i pezzi vecchi? nope, è il solito greatest hits live, più o meno come tutti i live del gruppo tranne ‘last fair day’, troverete l’ennesima versione di ‘ghost of the sun’, ‘teargas’, ‘leaders’, ‘my twin’, ‘evidence’, ‘july’… fermatemi quando vi stupisco. l’unico momento particolare è ‘unfurl’, bellissima b-side di ‘july’ già riesumata nel tour 2013/14. ma poi era veramente il caso di chiudere il concerto con l’orrenda tamarrata che è ‘behind the blood’? un tempo chiudevano con ‘murder’… vabbè.

questo live è completamente inutile, con problemi di esecuzione (il microfono di jonas spesso ha dei vuoti, clip e rumori) e mixato in maniera gelida (e discutibile, con voci che vanno e vengono). non si può dire che sia una merda, per carità, c’è anche qualche momento buono; per dire, ‘in the white’ è suonata molto bene. grazie al cazzo si può pensare, sono 15 anni che non è mai uscita dalle scalette dei concerti, ci mancava che la suonassero male.
nota a parte per il dvd ma con le stesse conclusioni: sono riprese in studio con pressoché zero scenografia a parte per dei neon colorati, spesso fastidiosamente mosse grazie a una maldestra camera a mano su jonas. la mancanza di pubblico non aiuta e i “thank you” mandati al vuoto fanno più ridere che altro, non ve ne farete davvero nulla.

è perfettamente comprensibile che in un momento difficile come questo ognuno faccia quello che può ma questo live è veramente una presa in giro. se siete fan dei katatonia lasciate perdere, se non li conoscete che non vi venga in mente di partire da qui, sarebbe come farsi leggere per la prima volta un bellissimo libro da un bancario burocrate che balbetta anche un po’. 
sorvoliamo.

giovedì 12 novembre 2020

sex swing, 'type ii'


i sex swing sono una sorta di supergruppo che riunisce insieme musicisti provenienti da mugstar, dead neanderthals, earth e altre realtà tra le più interessanti del panorama psych attuale. se il loro primo disco era una sorta di prova generale per tastare le potenzialità del progetto, ‘type ii’ è un mostro multisfaccettato che si è imposto nel 2020 come uno dei migliori dischi rock dell’anno.

la musica dei sex swing è ipnotica e paranoica, con una vena rituale che può riportare alla mente gli incredibili dead skeletons ma un approccio strumentale che sa di noise rock (sonic youth e/o birthday party); la sua ossessività vi farà pensare al post-punk ma siamo in altri territori, per quanto l’influenza sia presente; allo stesso modo certe intuizioni timbriche e stratificazioni sanno di glenn branca da un miglio di distanza ma non ci si spinge mai nell’astrattismo sonoro del compianto maestro.
in più troviamo l’aggressione frontale di un sax che esce per urlarti in faccia e di una batteria inarrestabile, il battito di base su cui si svolgono gli psicodrammi delle canzoni fatti di riff obliqui e spigolosi, synth dissonanti, violino, chitarra baritona, un basso in eterna spinta in avanti e le lugubri litanie della voce. ma prima di tutto ‘type ii’ è un disco di gruppo in cui nessuno strumento svetta veramente, è tutto parte del fantastico magma sonoro generato dai sei spostati.
tutto questo è splendidamente tenuto insieme da un mix sporco e impastato e dal sempre grandioso mastering di james plotkin.

i pezzi sono tutti belli ma qualcuno riesce ad essere ancora di più, come ad esempio la nevrotica ‘valentine’s day at the gym’, un crescendo noise-kraut con le litanie di dan chandler a salire insieme alle tessiture strumentali del gruppo, continuamente disturbate da rumori digitali, distorsioni, glitch e quant’altro. notevole sicuramente l’impatto di ‘the passover’ in apertura, forse ancora di più lo è la percussività industriale della caotica ‘la riconada’ ma tanto la menzione d’onore va tutta alla conclusiva ‘garden of eden/2000 ad’, 9 minuti di alienazione sonora in cui la tensione non fa che aumentare e aumentare, sostenuta dall’implacabile riff di chitarra su cui cresce la ritmica e resa continuamente viva dagli interventi degli altri strumenti, fino alla parossistica esplosione verso il settimo minuto che travolge tutto in un’onda di rumore accecante che è tanto violenta quanto catartica.

l’anno scorso è successo qualcosa di simile con l’indimenticabile ‘the talkies’ dei girl band, un disco fenomenale (sempre in territori noise) che per qualche motivo è stato travolto dall’inutile e ingiustificato carrozzone mediatico per quei ragazzini mediocri che si chiamano fontaines dc (lasciateli perdere, fidatevi, solo fumo negli occhi). perché è stato simile? perché anche quest’anno gli stessi ragazzini hanno fatto un secondo disco (inutile, ripetitivo, derivativo e sciacquapalle) che sta già venendo incensato dai “critici che contano” mentre figate come questo ‘type ii’ o ‘ultimate success today’ dei protomartyr vengono quasi ignorati. il mondo è bello perché è vario, a tutti piacciono i clash, che bisogno avessimo di una loro tribute band ancora non è chiaro, io continuo coi sex swing, provate un po’ e poi ditemi voi.




martedì 13 ottobre 2020

ulver, 'shadows of the sun'


gli ulver sono sempre stati un gruppo dalla spiccata emozionalità, anche quando si sono mascherati di gelo digitale. se partiamo dal presupposto che ‘shadows of the sun’ si occupa dei grandi temi esistenziali in un momento di profonda depressione di garm, è facile capire come l’ascolto di questo disco sia questione di un’intensità importante.


nella discografia dei norvegesi questo album segnò di fatto una nuova rottura: dopo il minimalismo elettro-digital-glitch che ha posseduto le produzioni a cavallo dei primi 2000 (album imperdibili come ‘perdition city’ o ‘teachings in silence’) e il ritorno alla musica “suonata” dello sbiellato ‘blood inside’, gli ulver si presentano più vicini che mai all’ascoltatore, sedendosi di fianco a voi per contemplare l’infinita profondità dell’esistenza. spaventosa? a volte sì, altre volte affascinante e bellissima ma sempre travolgente. c’è un paradosso alla base che in un certo senso unisce due anime musicali in eterna contrapposizione, la contemplazione classica e il tormento interiore romantico. è un’osservazione di come l’essere umano reagisce di fronte all’eterno ma al contempo è essere lì a reagire con l’umano stesso, guarda una sofferenza universale che in quanto universale coinvolge tutti in prima persona, compreso l’osservatore.


la resa musicale di questa meraviglia è stupefacente. si possono citare come riferimento i talk talk degli ultimi due album o, soprattutto, il david sylvian di ‘secrets of the beehive’ ma il suono di ‘shadows of the sun’ è meno distaccato e ‘incravattato’, si sporca le mani nell’emozione pura e lo fa partendo anche dalle bellissime colonne sonore prodotte pochi anni prima, su tutte quella di ‘svidd neger’.

è musica cameristica, anche quando utilizza strumenti rock la dimensione rimane sempre quella di una stanza, anche se senza pareti. il quartetto d’archi dell’oslo session string quartet ricopre un ruolo essenziale nel dipingere gli scenari su cui si svolgono i brani ma le infiltrazioni di elettronica, noise e glitch sono continue e pervadono tutto il disco, al contrario delle sparute percussioni che compaiono solo in un paio di brani. interventi di piano, chitarra, tromba o theremin completano i dipinti sonori ma protagonista assoluta è la voce di garm, sempre in primo piano ad interpretare col suo tono baritonale testi semplici ma mai banali, come a voler rimarcare la mancanza di termini migliori di fronte ad argomenti tanto vasti. l’essenzialità del sentire umano è racchiusa in frasi di una semplicità disarmante come “we fear the things we don’t understand”, non c’è la cripticità poetica di sylvian né l’astrazione di hollis, c'è invece un affascinante senso di simbiosi con la natura e lo scorrere del tempo, evidente fin dalla bellissima copertina "rubata" da un numero del national history magazine del 1978.


è un caso in cui si è pienamente giustificati ad usare il prefisso “post-“ poiché ogni linguaggio utilizzato è piegato all’espressività della musica, è un suono totale, usa anche strumenti rock ma non in modo rock, usa gli arrangiamenti della classica ma la voce è pop mentre le interferenze elettroniche arrivano per arricchire il suono senza mai spostarne un baricentro che non è poi così lontano dalla ambient.

ogni brano è una storia a sé, dal soffuso inizio di 'eos' passando per le melodie rassicuranti di 'like music', le aperture fragorose di 'shadows of the sun' fino ad arrivare ai quasi due minuti di completo silenzio posti in coda alla risoluzione di 'what happened?'; non sarà solo il viaggio intero a farsi ricordare ma anche i piccoli momenti di magia che affiorano nei brani: l'apertura a metà di 'all the love', la commovente fioritura di armonie vocali nel finale di 'vigil', la profondità dell'abisso sonoro che si apre in 'let the children go', ogni brano è marcato da trovate compositive e di arrangiamento di grandissima classe, ogni secondo merita di essere vissuto.

azzeccatissima anche l'inclusione di una cover di ‘solitude’ dei black sabbath, perfettamente incastrata nel disco sia a livello musicale che lirico, un tocco di ecletticità che dona all’opera un’ulteriore ricchezza.


la creatura ulver ha più volte cambiato pelle, lo sappiamo bene. ogni volta che l’ha fatto è riuscita a dare vita almeno a un picco nella propria produzione ma ‘shadows of the sun’ è probabilmente ancora di più, è cambiamento ma anche summa estetica (natura, contemplazione/turbamento, oscurità, tutti classici temi di casa ulver), un’opera trasversale in grado di affascinare e rapire gli ascoltatori più disparati, dal rock alla classica al jazz all’elettronica, un disco unico di un’intimità collettiva a cui tutti partecipiamo in solitudine.




giovedì 8 ottobre 2020

prince, 'dirty mind'


dopo l’esordio ‘for you’ e il seguito ‘prince’, rispettivamente ’78 e ’79, l’8 ottobre del 1980 prince pubblica ‘dirty mind’, il suo primo capolavoro, il disco che ha presentato al mondo un individuo talmente ossessionato dal sesso da essere fuori controllo, in una mossa d’immagine rivoluzionaria: basterebbe la copertina, con il nostro in perizoma sotto a un impermeabile, proprio come farebbe il più preparato dei maniaci. basterebbe, sì, ma poi ci sono i testi, con calma ci arriviamo.


‘for you’ non ebbe il sostegno di un tour ma dopo il disco del ’79 prince si ritrovò di fatto una sua band vera e propria con cui fece una serie di date tra novembre e dicembre del ’79: matt ‘dr.’ fink e gayle chapman alle tastiere, dez dickerson alla chitarra, bobby z alla batteria e andré cymone al basso, oltre al nostro ovviamente alla voce e chitarra. vista l’ottima riuscita di queste date, tra febbraio e maggio del 1980 la band venne invitata come opening act per il tour di rick james, l’unica volta in cui prince ha fatto da spalla a qualcuno. queste date da una parte solidificarono il nucleo della band, dall’altra misero in chiaro cosa ancora non andava alla perfezione e così, durante l’estate, gayle chapman lasciò per fare posto alla nuova arrivata lisa coleman, una musicista senza la quale molto di quello che seguì probabilmente sarebbe andato diversamente. interessante e curioso che prince abbia scelto di mettere nel disco una foto della band, nonostante l’album sia interamente suonato da lui solo, a parte un paio di parti di synth suonate dal dottore.


proprio durante i soundcheck di questi concerti prince nota una linea di synth che fink suona in una jam e gli chiede di ricordarsela; sarà la base per il pezzo ‘dirty mind’, per il quale fink prende un credito (insieme a ‘head’). 

‘dirty mind’ è un disco ruvido, tagliente, maleducato, pervertito e metropolitano. è un album dominato dai synth che però non potrebbe vivere senza chitarra (anche se si nota di più l’incredibile prestazione del nano al basso). è il funk più sudato, zozzo e arrapato che viene deformato e ricoperto di suoni digitali dall’oberheim, il synth di cui prince era innamorato in quel momento. in pratica è la base per il percorso che la black music avrebbe intrapreso nei 30 anni successivi.

“in my daddy’s car/it’s really you i wanna drive” è una delle prime frasi che sentirete, in un pezzo che è una confessione di come la mente del protagonista non riesca a pensare a nient’altro che al dolce su e giù. vi sembra un po’ sopra le righe? non so allora cosa direte di ‘do it all night’ o di ‘head’, in cui si parla di una sposina che viene distratta dal nostro per un lavoretto di bocca poco prima di andare all’altare. ovviamente però la palma di pezzo più disturbante va direttamente a ‘sister’, nella quale viene raccontato uno svezzamento sessuale da parte di una sorella maggiore al ritmo vertiginoso di un furioso rock.

molti ci sono cascati, pensando che i testi fossero autobiografici e raccontassero di chi davvero fosse prince. stronzate, ovviamente, l’intelligenza del signor nelson l’aveva portato a costruire un personaggio pubblico di quel tipo perché in quel momento era più interessato a shockare e disturbare l’america perbenista che non a spiegarsi o a raccontarsi. del resto, quando mai lo è stato.


e quindi poi ci sono le canzoni. le staffilate digitali di ‘dirty mind’ o ‘head’, quest’ultima con un assolo di synth epocale ad opera del dottor fink, entrambe con un groove martellante che sta a metà tra l’alienazione metropolitana e il party sfrenato. allo stesso modo ‘uptown’ vi farà muovere il culo come mai, mettendo fra i versi anche il primo accenno esplicito all’ambiguità sessuale del personaggio (“baby didn’t say too much/she said, “are you gay?”/kinda took me by surprise, didn’t know what to do/i just looked her in the eyes and said “no, are you?”). che dire poi di ‘when you were mine’, uno dei singoli più famosi e longevi nelle scalette di prince, un boogie appiccicoso e trascinante che non si toglierà più dal vostro cervello. interessantissima anche ‘gotta broken heart again’, una ballata in 12/8 con un profilo melodico che prelude a molte ballate future, oltre ad avere alcuni dei migliori momenti di chitarra del disco insieme ad ‘uptown’.

la voce è ancora completamente in falsetto, a parte poche sporadiche frasi. se questo vi fa pensare ai dolci falsetti della musica nera vocale… nope. il falsetto di prince è ambiguo, fisico, spesso sforzato, sporcato, urlato nel modo in cui solo lui sapeva fare. ma tutta questa ambiguità e perversione ha un risultato strano: ‘dirty mind’ non è un disco pervertito quanto un disco da festa orgiastica, un preambolo alle celebrazioni di ‘1999’. nei testi non c’è dolore quanto una piena accettazione di questa via di vita alternativa e dominata dal sesso e dalla fisicità: ‘dirty mind’ è un album positivo, da qualsiasi punto di vista lo si guardi, non c’è la violenza scabrosa di molto rap che seguirà né il machismo che lo ha preceduto (james brown, little richard, due fari eterni per prince).


al disco seguì il primo vero tour della band, ancora senza nome: tra dicembre e aprile il ’dirty mind tour’ porterà in giro per l’america le visioni perverse della mente di prince, facendosi notare a destra e a manca dal pubblico e da una manciata di personaggi illustri. tra questi vi fu mick jagger, che il 22 marzo dell’81 era tra il pubblico al ritz di new york e fu rapito dalla musica e dal personaggio di prince, al punto da invitarlo ad aprire le date dei rolling stones il 9 e 11 ottobre al memorial coliseum di los angeles. 

dopo un cambio di formazione che vide l’uscita di cymone dal gruppo e l’arrivo di brown mark al basso, i nostri si presentarono sul palco per fronteggiare i fan degli stones, radicali, chiusi e intransigenti. ignoranti. cercarono un compromesso? manco per il cazzo, prince salì sul palco in perizoma e la vista di questo nanetto scuro vestito come un maniaco sessuale scatenò un inferno con lanci di bottiglie e quant’altro sul palco, oltre a urla razziste e sessiste. prince lasciò il palco a metà del primo pezzo, la band lo finì senza di lui per poi dileguarsi dietro le quinte. pare che prince non avesse alcuna intenzione di tornare sul palco due giorni dopo ma fu convinto da dez dickerson. andò ancora peggio: i buzzurri nel pubblico non aspettavano altro e si erano portati apposta scarpe, frutta e verdura marcia e molto altro per massacrare prince e la band che però questa volta restò per suonare un breve set. l’esperienza fu così traumatica che da allora prince non ha mai più aperto concerti per nessuno, salvo sporadiche eccezioni quando ormai la sua fama lo riparava.


‘dirty mind’ quindi è stato un punto cruciale nella carriera di prince da vari punti di vista, musicale, lirico, estetico ed anche per i live. quello che si porta a casa oggi sono 31 minuti di musica irresistibile che entra nelle vene e non fa stare fermi, ciò che rappresentò all’epoca fu una nuova via alla black music, nonché la nascita di un personaggio pubblico che con la sua totale emancipazione sessuale avrebbe rivoluzionato lo stardom negli anni ’80, alla faccia dei fan dei rolling stones.



venerdì 2 ottobre 2020

grip inc., 'incorporated'

 


l’ultimo disco in studio dei grip inc. esce nel 2004, un anno decisamente ricco di uscite interessanti (‘the eye of every storm’, ‘leviathan’, ‘demigod’, ‘reise, reise’, ‘isa’… ce n’era di roba). forse per questo la sua uscita passò un po’ in sordina o forse perché i grip inc. se li cagavano in pochi, vallo a sapere, sta di fatto che il disco, come tutti i suoi predecessori, avrebbe meritato ben altra attenzione. 

nonostante infatti ‘incorporated’ non sia al livello di ‘solidify’ o ‘nemesis’ per qualità media, è il disco più dinamico, versatile e particolare del gruppo, che arriva ad usare un quartetto di archi in alcuni dei pezzi migliori.

gli arrangiamenti si fanno ancora più fantasiosi, i synth compaiono più spesso anche se mai in primo piano, chambers canta molto di più che in passato anche se non mancano le sua classiche urla rauche, lombardo fa letteralmente di tutto per tutta la durata dell’album, recuperando abbondantemente la doppia cassa a mille che era stata messa un po’ in disparte su ‘solidify’.

di certo è il disco dei grip inc. in cui la composizione ha avuto un ruolo più centrale, la strutturazione dei brani è sempre attenta e ben articolata e ogni pezzo ha delle peculiarità che lo rendono riconoscibile fin dai primi ascolti. 


detta così pare tutto una figata, vero? non è proprio così purtroppo. nonostante l’attenzione di cui dicevo, non tutti i pezzi riescono a coinvolgere davvero e alcuni girano un po’ a vuoto: ‘the gift’, ‘endowment of apathy’, ‘prophecy’ (che comunque ha un gran ritornello), ‘blood of the saints’ o il singolo ‘the answer’, non sono brutte canzoni ma non aggiungono nulla a quello che già sappiamo e amiamo del gruppo, restando in un limbo generico che abbassa la media dell’album nonostante le perle.

ecco, parliamo dei pezzoni invece. non dovrete aspettare molto per sentire il primo: ‘curse of the cloth’ vi salterà alla faccia al primo secondo del disco con una ferocia che lascia il posto a un riff lento e pesantissimo prima di partire per una cavalcata alla velocità della luce, un instant classic per il gruppo che si mostra da subito a denti digrignati. in maniera simile ‘skin trade’ recupera l’influenza di araya e soci ma la rende quadrata, spigolosa, quasi clinica verrebbe da dire, al contrario di ‘built to resist’ che mostra il lato più melodico e teatrale dei grip inc., usando un quartetto d’archi per arricchire l’arrangiamento e ammorbidendo le linee di chambers con armonie e controcanti; stupende le chitarre paranoiche che si agitano sullo sfondo, ricordando quasi ‘the fragile’ dei nine inch nails. 

se si parla di scelte di arrangiamento però bisogna assolutamente citare ‘enemy mind’ che gioca con chitarre acustiche spagnoleggianti e soprattutto ‘privilege’, forse il capolavoro del disco, un brano intenso e drammatico in cui gli archi accomodano la furia del gruppo in un continuo turbine di suoni violenti ma avvolgenti, un pezzo magistrale. notevole anche la chiusura con ‘the man with no insides’ che alterna momenti di pesantezza monolitica, bizzarri suoni e un bel ritornello, mostrando ancora una volta la grande fantasia compositiva di waldemar sorychta.


‘incorporated’ lascia un pochino di amaro in bocca, soprattutto per la seguente e prematura scomparsa di chambers e conseguente scioglimento del progetto che non ha mai potuto approfondire le molte idee messe in campo in questo disco. ciononostante rimane un lampante esempio della capacità dei grip inc. di piegare la materia metallica ai propri voleri, generando un suono unico e ricco di sfaccettature che nei suoi momenti migliori rapisce e affascina.