martedì 13 ottobre 2020

ulver, 'shadows of the sun'


gli ulver sono sempre stati un gruppo dalla spiccata emozionalità, anche quando si sono mascherati di gelo digitale. se partiamo dal presupposto che ‘shadows of the sun’ si occupa dei grandi temi esistenziali in un momento di profonda depressione di garm, è facile capire come l’ascolto di questo disco sia questione di un’intensità importante.


nella discografia dei norvegesi questo album segnò di fatto una nuova rottura: dopo il minimalismo elettro-digital-glitch che ha posseduto le produzioni a cavallo dei primi 2000 (album imperdibili come ‘perdition city’ o ‘teachings in silence’) e il ritorno alla musica “suonata” dello sbiellato ‘blood inside’, gli ulver si presentano più vicini che mai all’ascoltatore, sedendosi di fianco a voi per contemplare l’infinita profondità dell’esistenza. spaventosa? a volte sì, altre volte affascinante e bellissima ma sempre travolgente. c’è un paradosso alla base che in un certo senso unisce due anime musicali in eterna contrapposizione, la contemplazione classica e il tormento interiore romantico. è un’osservazione di come l’essere umano reagisce di fronte all’eterno ma al contempo è essere lì a reagire con l’umano stesso, guarda una sofferenza universale che in quanto universale coinvolge tutti in prima persona, compreso l’osservatore.


la resa musicale di questa meraviglia è stupefacente. si possono citare come riferimento i talk talk degli ultimi due album o, soprattutto, il david sylvian di ‘secrets of the beehive’ ma il suono di ‘shadows of the sun’ è meno distaccato e ‘incravattato’, si sporca le mani nell’emozione pura e lo fa partendo anche dalle bellissime colonne sonore prodotte pochi anni prima, su tutte quella di ‘svidd neger’.

è musica cameristica, anche quando utilizza strumenti rock la dimensione rimane sempre quella di una stanza, anche se senza pareti. il quartetto d’archi dell’oslo session string quartet ricopre un ruolo essenziale nel dipingere gli scenari su cui si svolgono i brani ma le infiltrazioni di elettronica, noise e glitch sono continue e pervadono tutto il disco, al contrario delle sparute percussioni che compaiono solo in un paio di brani. interventi di piano, chitarra, tromba o theremin completano i dipinti sonori ma protagonista assoluta è la voce di garm, sempre in primo piano ad interpretare col suo tono baritonale testi semplici ma mai banali, come a voler rimarcare la mancanza di termini migliori di fronte ad argomenti tanto vasti. l’essenzialità del sentire umano è racchiusa in frasi di una semplicità disarmante come “we fear the things we don’t understand”, non c’è la cripticità poetica di sylvian né l’astrazione di hollis, c'è invece un affascinante senso di simbiosi con la natura e lo scorrere del tempo, evidente fin dalla bellissima copertina "rubata" da un numero del national history magazine del 1978.


è un caso in cui si è pienamente giustificati ad usare il prefisso “post-“ poiché ogni linguaggio utilizzato è piegato all’espressività della musica, è un suono totale, usa anche strumenti rock ma non in modo rock, usa gli arrangiamenti della classica ma la voce è pop mentre le interferenze elettroniche arrivano per arricchire il suono senza mai spostarne un baricentro che non è poi così lontano dalla ambient.

ogni brano è una storia a sé, dal soffuso inizio di 'eos' passando per le melodie rassicuranti di 'like music', le aperture fragorose di 'shadows of the sun' fino ad arrivare ai quasi due minuti di completo silenzio posti in coda alla risoluzione di 'what happened?'; non sarà solo il viaggio intero a farsi ricordare ma anche i piccoli momenti di magia che affiorano nei brani: l'apertura a metà di 'all the love', la commovente fioritura di armonie vocali nel finale di 'vigil', la profondità dell'abisso sonoro che si apre in 'let the children go', ogni brano è marcato da trovate compositive e di arrangiamento di grandissima classe, ogni secondo merita di essere vissuto.

azzeccatissima anche l'inclusione di una cover di ‘solitude’ dei black sabbath, perfettamente incastrata nel disco sia a livello musicale che lirico, un tocco di ecletticità che dona all’opera un’ulteriore ricchezza.


la creatura ulver ha più volte cambiato pelle, lo sappiamo bene. ogni volta che l’ha fatto è riuscita a dare vita almeno a un picco nella propria produzione ma ‘shadows of the sun’ è probabilmente ancora di più, è cambiamento ma anche summa estetica (natura, contemplazione/turbamento, oscurità, tutti classici temi di casa ulver), un’opera trasversale in grado di affascinare e rapire gli ascoltatori più disparati, dal rock alla classica al jazz all’elettronica, un disco unico di un’intimità collettiva a cui tutti partecipiamo in solitudine.




giovedì 8 ottobre 2020

prince, 'dirty mind'


dopo l’esordio ‘for you’ e il seguito ‘prince’, rispettivamente ’78 e ’79, l’8 ottobre del 1980 prince pubblica ‘dirty mind’, il suo primo capolavoro, il disco che ha presentato al mondo un individuo talmente ossessionato dal sesso da essere fuori controllo, in una mossa d’immagine rivoluzionaria: basterebbe la copertina, con il nostro in perizoma sotto a un impermeabile, proprio come farebbe il più preparato dei maniaci. basterebbe, sì, ma poi ci sono i testi, con calma ci arriviamo.


‘for you’ non ebbe il sostegno di un tour ma dopo il disco del ’79 prince si ritrovò di fatto una sua band vera e propria con cui fece una serie di date tra novembre e dicembre del ’79: matt ‘dr.’ fink e gayle chapman alle tastiere, dez dickerson alla chitarra, bobby z alla batteria e andré cymone al basso, oltre al nostro ovviamente alla voce e chitarra. vista l’ottima riuscita di queste date, tra febbraio e maggio del 1980 la band venne invitata come opening act per il tour di rick james, l’unica volta in cui prince ha fatto da spalla a qualcuno. queste date da una parte solidificarono il nucleo della band, dall’altra misero in chiaro cosa ancora non andava alla perfezione e così, durante l’estate, gayle chapman lasciò per fare posto alla nuova arrivata lisa coleman, una musicista senza la quale molto di quello che seguì probabilmente sarebbe andato diversamente. interessante e curioso che prince abbia scelto di mettere nel disco una foto della band, nonostante l’album sia interamente suonato da lui solo, a parte un paio di parti di synth suonate dal dottore.


proprio durante i soundcheck di questi concerti prince nota una linea di synth che fink suona in una jam e gli chiede di ricordarsela; sarà la base per il pezzo ‘dirty mind’, per il quale fink prende un credito (insieme a ‘head’). 

‘dirty mind’ è un disco ruvido, tagliente, maleducato, pervertito e metropolitano. è un album dominato dai synth che però non potrebbe vivere senza chitarra (anche se si nota di più l’incredibile prestazione del nano al basso). è il funk più sudato, zozzo e arrapato che viene deformato e ricoperto di suoni digitali dall’oberheim, il synth di cui prince era innamorato in quel momento. in pratica è la base per il percorso che la black music avrebbe intrapreso nei 30 anni successivi.

“in my daddy’s car/it’s really you i wanna drive” è una delle prime frasi che sentirete, in un pezzo che è una confessione di come la mente del protagonista non riesca a pensare a nient’altro che al dolce su e giù. vi sembra un po’ sopra le righe? non so allora cosa direte di ‘do it all night’ o di ‘head’, in cui si parla di una sposina che viene distratta dal nostro per un lavoretto di bocca poco prima di andare all’altare. ovviamente però la palma di pezzo più disturbante va direttamente a ‘sister’, nella quale viene raccontato uno svezzamento sessuale da parte di una sorella maggiore al ritmo vertiginoso di un furioso rock.

molti ci sono cascati, pensando che i testi fossero autobiografici e raccontassero di chi davvero fosse prince. stronzate, ovviamente, l’intelligenza del signor nelson l’aveva portato a costruire un personaggio pubblico di quel tipo perché in quel momento era più interessato a shockare e disturbare l’america perbenista che non a spiegarsi o a raccontarsi. del resto, quando mai lo è stato.


e quindi poi ci sono le canzoni. le staffilate digitali di ‘dirty mind’ o ‘head’, quest’ultima con un assolo di synth epocale ad opera del dottor fink, entrambe con un groove martellante che sta a metà tra l’alienazione metropolitana e il party sfrenato. allo stesso modo ‘uptown’ vi farà muovere il culo come mai, mettendo fra i versi anche il primo accenno esplicito all’ambiguità sessuale del personaggio (“baby didn’t say too much/she said, “are you gay?”/kinda took me by surprise, didn’t know what to do/i just looked her in the eyes and said “no, are you?”). che dire poi di ‘when you were mine’, uno dei singoli più famosi e longevi nelle scalette di prince, un boogie appiccicoso e trascinante che non si toglierà più dal vostro cervello. interessantissima anche ‘gotta broken heart again’, una ballata in 12/8 con un profilo melodico che prelude a molte ballate future, oltre ad avere alcuni dei migliori momenti di chitarra del disco insieme ad ‘uptown’.

la voce è ancora completamente in falsetto, a parte poche sporadiche frasi. se questo vi fa pensare ai dolci falsetti della musica nera vocale… nope. il falsetto di prince è ambiguo, fisico, spesso sforzato, sporcato, urlato nel modo in cui solo lui sapeva fare. ma tutta questa ambiguità e perversione ha un risultato strano: ‘dirty mind’ non è un disco pervertito quanto un disco da festa orgiastica, un preambolo alle celebrazioni di ‘1999’. nei testi non c’è dolore quanto una piena accettazione di questa via di vita alternativa e dominata dal sesso e dalla fisicità: ‘dirty mind’ è un album positivo, da qualsiasi punto di vista lo si guardi, non c’è la violenza scabrosa di molto rap che seguirà né il machismo che lo ha preceduto (james brown, little richard, due fari eterni per prince).


al disco seguì il primo vero tour della band, ancora senza nome: tra dicembre e aprile il ’dirty mind tour’ porterà in giro per l’america le visioni perverse della mente di prince, facendosi notare a destra e a manca dal pubblico e da una manciata di personaggi illustri. tra questi vi fu mick jagger, che il 22 marzo dell’81 era tra il pubblico al ritz di new york e fu rapito dalla musica e dal personaggio di prince, al punto da invitarlo ad aprire le date dei rolling stones il 9 e 11 ottobre al memorial coliseum di los angeles. 

dopo un cambio di formazione che vide l’uscita di cymone dal gruppo e l’arrivo di brown mark al basso, i nostri si presentarono sul palco per fronteggiare i fan degli stones, radicali, chiusi e intransigenti. ignoranti. cercarono un compromesso? manco per il cazzo, prince salì sul palco in perizoma e la vista di questo nanetto scuro vestito come un maniaco sessuale scatenò un inferno con lanci di bottiglie e quant’altro sul palco, oltre a urla razziste e sessiste. prince lasciò il palco a metà del primo pezzo, la band lo finì senza di lui per poi dileguarsi dietro le quinte. pare che prince non avesse alcuna intenzione di tornare sul palco due giorni dopo ma fu convinto da dez dickerson. andò ancora peggio: i buzzurri nel pubblico non aspettavano altro e si erano portati apposta scarpe, frutta e verdura marcia e molto altro per massacrare prince e la band che però questa volta restò per suonare un breve set. l’esperienza fu così traumatica che da allora prince non ha mai più aperto concerti per nessuno, salvo sporadiche eccezioni quando ormai la sua fama lo riparava.


‘dirty mind’ quindi è stato un punto cruciale nella carriera di prince da vari punti di vista, musicale, lirico, estetico ed anche per i live. quello che si porta a casa oggi sono 31 minuti di musica irresistibile che entra nelle vene e non fa stare fermi, ciò che rappresentò all’epoca fu una nuova via alla black music, nonché la nascita di un personaggio pubblico che con la sua totale emancipazione sessuale avrebbe rivoluzionato lo stardom negli anni ’80, alla faccia dei fan dei rolling stones.



venerdì 2 ottobre 2020

grip inc., 'incorporated'

 


l’ultimo disco in studio dei grip inc. esce nel 2004, un anno decisamente ricco di uscite interessanti (‘the eye of every storm’, ‘leviathan’, ‘demigod’, ‘reise, reise’, ‘isa’… ce n’era di roba). forse per questo la sua uscita passò un po’ in sordina o forse perché i grip inc. se li cagavano in pochi, vallo a sapere, sta di fatto che il disco, come tutti i suoi predecessori, avrebbe meritato ben altra attenzione. 

nonostante infatti ‘incorporated’ non sia al livello di ‘solidify’ o ‘nemesis’ per qualità media, è il disco più dinamico, versatile e particolare del gruppo, che arriva ad usare un quartetto di archi in alcuni dei pezzi migliori.

gli arrangiamenti si fanno ancora più fantasiosi, i synth compaiono più spesso anche se mai in primo piano, chambers canta molto di più che in passato anche se non mancano le sua classiche urla rauche, lombardo fa letteralmente di tutto per tutta la durata dell’album, recuperando abbondantemente la doppia cassa a mille che era stata messa un po’ in disparte su ‘solidify’.

di certo è il disco dei grip inc. in cui la composizione ha avuto un ruolo più centrale, la strutturazione dei brani è sempre attenta e ben articolata e ogni pezzo ha delle peculiarità che lo rendono riconoscibile fin dai primi ascolti. 


detta così pare tutto una figata, vero? non è proprio così purtroppo. nonostante l’attenzione di cui dicevo, non tutti i pezzi riescono a coinvolgere davvero e alcuni girano un po’ a vuoto: ‘the gift’, ‘endowment of apathy’, ‘prophecy’ (che comunque ha un gran ritornello), ‘blood of the saints’ o il singolo ‘the answer’, non sono brutte canzoni ma non aggiungono nulla a quello che già sappiamo e amiamo del gruppo, restando in un limbo generico che abbassa la media dell’album nonostante le perle.

ecco, parliamo dei pezzoni invece. non dovrete aspettare molto per sentire il primo: ‘curse of the cloth’ vi salterà alla faccia al primo secondo del disco con una ferocia che lascia il posto a un riff lento e pesantissimo prima di partire per una cavalcata alla velocità della luce, un instant classic per il gruppo che si mostra da subito a denti digrignati. in maniera simile ‘skin trade’ recupera l’influenza di araya e soci ma la rende quadrata, spigolosa, quasi clinica verrebbe da dire, al contrario di ‘built to resist’ che mostra il lato più melodico e teatrale dei grip inc., usando un quartetto d’archi per arricchire l’arrangiamento e ammorbidendo le linee di chambers con armonie e controcanti; stupende le chitarre paranoiche che si agitano sullo sfondo, ricordando quasi ‘the fragile’ dei nine inch nails. 

se si parla di scelte di arrangiamento però bisogna assolutamente citare ‘enemy mind’ che gioca con chitarre acustiche spagnoleggianti e soprattutto ‘privilege’, forse il capolavoro del disco, un brano intenso e drammatico in cui gli archi accomodano la furia del gruppo in un continuo turbine di suoni violenti ma avvolgenti, un pezzo magistrale. notevole anche la chiusura con ‘the man with no insides’ che alterna momenti di pesantezza monolitica, bizzarri suoni e un bel ritornello, mostrando ancora una volta la grande fantasia compositiva di waldemar sorychta.


‘incorporated’ lascia un pochino di amaro in bocca, soprattutto per la seguente e prematura scomparsa di chambers e conseguente scioglimento del progetto che non ha mai potuto approfondire le molte idee messe in campo in questo disco. ciononostante rimane un lampante esempio della capacità dei grip inc. di piegare la materia metallica ai propri voleri, generando un suono unico e ricco di sfaccettature che nei suoi momenti migliori rapisce e affascina.