venerdì 12 giugno 2020

nile, 'in their darkened shrines'

i nile sono uno dei gruppi più unici e riconoscibili di tutto il death metal: sai esattamente cosa aspettarti da un loro disco. sono un gruppo che nasce da un’idea troppo precisa, troppo specifica per non essere perfettamente riconoscibile: fanno brutal death metal ispirato all’antico egitto, non puoi confonderli con nessun’altro. e c’è stato un momento, più o meno attorno all’uscita di questo disco, che sono diventati praticamente dei nuovi blind guardian: a tutti piacevano i nile, non potevano non starti simpatici i nile, c’era il death metal e indiana jones, cosa cazzo vuoi di più dalla vita?
risposta: non puoi avere di più dalla vita. nel caso poi di ‘in their darkened shrines’ davvero non puoi avere di più, alla sua uscita nel 2002 era il disco metal perfetto, veloce oltre ogni dire, tecnico e complesso ma atmosferico, brutale e violento ma a modo suo innocuo perché fiabesco e lontano, un mix perfetto di tradizione (morbid angel su tutti) e novità (strumentini stronzi, arrangiamenti curati e atmosferici, le mummie) in un pacchetto che non poteva essere più invitante con una copertina stupenda e i testi (con spiegazione allegata) ispirati agli orrori delle piramidi, alle torture immonde, ai misteri dell’egitto, su rieducational channel.

‘the blessed dead’ è una delle migliori aperture che si siano sentite in un disco metal, i suoni sono pazzeschi, la batteria suona naturale e pestata come fosse mr.sandoval in persona (anzi meglio, non me ne voglia commando), invece si chiama tony laureano ed è una bestia, le chitarre sono piene di sugna e sanno di cantina che manco una forma di taleggio nella tomba di tutankhamon, le voci sono un grugnito infernale ma quello che tira avanti tutta la baracca sono gli incredibili riff di karl anders, infinite colate dal suono unico che trascinano indietro di migliaia di anni. ‘sarcophagus’ presenta il lato lento e soffocante, il buio dentro la tomba, ornato di melodie paranoiche, avvolto in synth ambientali e appoggiato sui tappeti di doppia cassa supersonica di laureano.
tutto bellissimo, poi c’è ‘unas, slayer of the gods’. in poco meno di 12 minuti di canzone, i nile riassumono tutta la loro carriera, prendendo in prestito nel frattempo uno dei riff più belli del metal, quello di ‘well of souls’ dei candlemass, per rielaborarlo in veste brutal con effetto sfondamascella. poi il pezzo si inerpica per una struttura stronzissima con continui cambi, arrangiamenti di fiati, una parte atmosferica terrificante in mezzo e una continua epicità, un senso di meraviglia per orrori sopiti da secoli e secoli. e secoli.
un altro capolavoro è ‘i whisper in the ear of the dead’, un terrificante ibrido brutal/dark ambient su cui la voce cavernosa più che mai di sanders recita parole innominabili. non che il resto sia da meno eh, parliamo davvero di un capolavoro, un disco che ha preso le regole e l’estetica di un genere intero e li ha piegati ai propri voleri, utilizzandoli per creare un mondo in cui gli stessi nile sono rimasti intrappolati ormai da anni, proprio come i blind guardian citati prima hanno fatto con ‘nightfall in middle earth’, disco per molti versi simile a questo.
la suite finale è l’apoteosi del nero mondo fiabesco dei nile, 18 minuti in cui bordate brutal death accompagnano la narrazione alternati a oasi ambientali soffocanti e buie e un finale che più epico non si può, una tempesta di sabbia tra le rovine, dove le voci degli spiriti dei faraoni sussurrano nell’orecchio di chi si perde fra le dune. dai, sul serio, non si può non amare i nile.

il disco precedente, ‘black seeds of vengeance’, è figo quasi quanto questo e pure i due successivi, ‘annihilation of the wicked’ e ‘ithyphallic’, non sono un cazzo male. certo, bisogna sempre accettare il patto narrativo del gruppo: i nile parlano di egitto, sempre e comunque, le atmosfere sono quelle, i suoni pure. ‘ithyphallic’ gioca con qualche vena vagamente black ma sono sfumature, di fatto il suono del gruppo non si è evoluto e il loro immaginario è diventata una prigione. c’è da dire che quando sanders ha voluto fare un disco solista ha insistito su queste coordinate, pur eliminando il death metal e facendo un disco dark ambient suggestivo quanto usa e getta.
‘in their darkened shrines’ resta un miracolo, la prova di come il death metal sia materia malleabile e possa essere usato in maniera originale pur senza allontanarsi troppo dai suoi canoni, un sunto di un decennio abbondante del genere e una finestra sulle possibilità future, il tutto in un pacchetto originale e con carattere da vendere. tra i dischi da sentire assolutamente nella vita.


giovedì 11 giugno 2020

cynic, 'focus'


la storia dei cynic è la storia di paul masvidal e sean reinert, amici fin dall’adolescenza, compagni di vita e menti musicali illuminate che hanno regalato al metal (e non solo) uno dei momenti più alti di tutta la sua storia.
‘focus’ arriva nel 1993 ma il gruppo è già attivo discograficamente dall’88, con una serie di demo che contenevano già tutti gli elementi (e parte dei pezzi) che avrebbero reso questo disco inarrivabile. perché così tanto tempo prima dell’esordio? semplice: tra il ’90 e il ’91 entrambi i musicisti erano stati “rapiti” da chuck schuldiner per ‘human’ e conseguente tour (disastroso: la band finì in crisi finanziaria e in inghilterra vennero sequestrati tutti gli strumenti per sei mesi). dopo questa esperienza, i due si dedicano anima e corpo al loro progetto con una formazione completata dal bassista sean malone (che sostituisce tony choy, passato agli atheist dopo la morte di roger patterson) e dal secondo chitarrista jason gobel (monstrosity, poi negli agghiaccianti gordian knot). viene anche coinvolto tale tony teegarden per il growl, bel timbro, perfetta contrapposizione; resta, per quanto ne so, un totale sconosciuto.

cos’ha di speciale ‘focus’? tutto. sul serio, non c’è niente in questo disco che sia fuori posto, di troppo o buttato lì. intanto proviamo a spiegare di cosa stiamo parlando: la base di partenza è il death metal, riff tremolo, doppia cassa, growl e velocità elevate sono il punto da cui si origina l’arte dei cynic ma tutto questo è pesantemente ibridato (tanta fusion e prog ma anche ombre elettroniche) e deformato in svariati modi. tanto per cominciare la voce è divisa a metà tra growl selvaggio (teegarden) e voci sintetiche melodiche (masvidal); questo crea un contrasto continuo che rende le linee molto più interessanti rispetto al disco death medio, oltre ad aggiungere strati di melodia sul maelstrom strumentale. 
poi, se vi aspettate l’attacco frontale degli obituary o dei morbid angel siete fuori strada, i riff dei cynic sono complessi, spesso su metriche dispari o composte, arrangiati per due chitarre (più alla maniera dei king crimson che degli iron maiden) e fanno largo uso di varie tecniche (e qui si vede la maestria di masvidal, che usa anche chitarra synth e midi) che li rendono molto più dinamici del solito chugga-chugga. la batteria di reinert è un fiume in piena, i suoi arrangiamenti contengono una varietà di idee incredibile, riesce inoltre ad essere fisico e groovy suonando partiture dai tempi stronzissimi e unendo i puntini tra i riff di chitarra, un batterista assolutamente unico. da notare anche l'uso di pad elettronici, derivati forse da neil peart, che aprono ulteriormente le possibilità timbriche.
se di solito nei dischi death il basso è o inudibile o completamente inutile, qui malone rivolta le carte, fraseggiando su e giù per il manico fretless e riuscendo sempre ad emergere dal mix con uno stile molto personale.
non mancano nemmeno i synth: pad, arpeggiatori, semplici suoni, tutti strumenti utilizzati per arricchire le tessiture sonore dell’album.
insomma, è un ulteriore salto avanti rispetto all'approccio già rivoluzionario di 'human', molto più legato al death propriamente detto.

e poi ci sono i pezzi. lontani dalla monotonia della maggiorparte delle produzioni del genere, sono otto scene eteree quanto nitide, otto capitoli di un unico racconto-non-racconto i cui testi affondano i denti nella filosofia, misticismo, meditazione e buddismo (tutti interessi di masvidal). no, non c’è ‘zombie ritual’, è proprio un’altra roba. del resto è un disco death che si apre con un crescendo di synth prima di accoglierci con la vocina filtrata e aliena di masvidal; ‘veil of maya’ può bastare come ascolto per cogliere i fondamenti della formula unica dei cynic: riff incessanti, batteria scatenata, le voci che si alternano e una stratificazione sonora estrema che lascia spazio a inaspettate oasi celestiali e luminose. il lavoro dei morrisound alle registrazioni e mix è impeccabile, ogni strumento ha il suo spazio ed ha modo di farsi sentire, senza mai perdere un insieme timbrico irripetibile.
non c’è alcun motivo per citare tutti i pezzi, questi 35 minuti vanno vissuti come un viaggio unico senza interruzioni. l’unica eccezione che mi sento di fare è per ‘textures’, strumentale arioso in cui le influenze fusion (attenzione a parlare di jazz, ce n’è ben poco) vengono prepotentemente a galla per dipingere uno scenario di grande respiro, grazie anche a un uso magistrale delle dinamiche. se ancora credete che il metal sia un genere grossolano da buzzurri questo album potrebbe essere il modo migliore per ricredervi.

i cynic con ‘focus’ sono entrati nella leggenda, il loro scioglimento poco dopo farà disperare i fan e le voci di una reunion si rincorreranno per anni e anni fino a quando, 14 inverni più tardi, il gruppo tornerà insieme dando finalmente la possibilità di vederli a chi non ha potuto al tempo. arriverà anche un secondo disco, il bellissimo ‘traced in air’, e pure un terzo (il mediocre e deludente ‘kindly bent to free us’) prima che masvidal e reinert facciano doppio outing, dichiarando la loro omosessualità e anche la fine della loro relazione, chiudendo di fatto la storia dei cynic. la morte di reinert il 24 gennaio 2020 ha colpito duro tutti quanti e ora il nome dei cynic riposa con lui ma ‘focus’ non ha alcuna intenzione di sparire. 
potrei andare avanti per ore a parlare di questo disco, è una pietra miliare che ha cambiato la vita a me come a miriadi di altri musicisti, mostrando la via per un metal estremo lontano dai cliché, fantasioso, personale, originale. artistico. è un album da ascoltare centinaia di volte, da scomporre in ogni sua parte e da amare per tutta la vita. 

(ps: io il video iutub lo metto ma ascoltare questo disco in pessimo mp3 è un crimine contro l'arte e l'umanità, sapevatelo.)



mercoledì 10 giugno 2020

death, 'human'


prima di parlare di ‘human’ ho parlato dei primi death, di come abbiano più o meno inventato il genere death metal (da cui il nome, verrebbe da dire), dell’influenza dei possessed, blablabla. dopo essere emersi come capostipiti di un intero sottogenere, i death di chuck schuldiner si reinventano. o meglio, chuck schuldiner si reinventa, visto che delle formazioni precedenti non resta più nessuno. i nuovi reclutati invece sono un gruppo di musicisti mostruosi che rispondono ai nomi di paul masvidal (chitarra, cynic), sean reinert (batteria, cynic) e steve digiorgio (basso, 70% dei gruppi metal), due dei quali (masvidal e reinert) due anni dopo con i cynic registreranno uno dei 10 migliori dischi metal di sempre. altra storia. digiorgio da parte sua è uno dei nomi più conosciuti dell’universo metal: ha sempre suonato nei sadus, ha continuato coi death fino alla morte di chuck, ha suonato con testament, autopsy, dragonlord, james murphy, vintersorg, arch/matheos… ne ha fatte di cosine.

quello che succede in ‘human’ è che tutte le imperfezioni che rendevano i primi tre dischi dei death delle perle grezze vengono eliminate, la composizione si fa cerebrale e complessa, i testi prendono nuovi punti di vista, in poche parole i death crescono e prendono il volo. se oggi si parla di “technical death metal” o “progressive death metal” è indiscutibilmente grazie anche a questo disco che, nel 1991, introduce un’attenzione strumentale e compositiva inaudita fino a quel momento nel genere musicale più violento del pianeta, con tempi dispari, cambi di velocità e intrecci strumentali vorticosi. te lo puoi permettere quando sei uno dei migliori chitarristi metal in circolazione e metti su una band di mostri.
8 pezzi, 34 minuti e una manciata di secondi, tanto basta a schuldiner e soci per rivoltare le carte, 8 immagini perfettamente nitide di come la violenza sonora possa sposarsi con quella psichica e parlare di sofferenza psicologica invece che di zombie, serial killer e satana (nulla di male, intendiamoci, qui vogliamo tutti bene a satanello). la voce di schuldiner si fa anche lei più sofferente, un latrato più vicino ora a quello di tardy degli obituary (LA voce death metal.). 
il disco è registrato ai morrisound di tampa e il suono è esattamente quello: chitarre soffocanti, batteria con la giusta stanza e un mix sapientemente impastato che permette di godere delle finezze strumentali.

i brani più emblematici sono tre, ‘flattening of emotions’, ‘lack of comprehension’ e ‘cosmic sea’; la prima apre il disco con i fusti di reinert in crescendo (indescrivibile la sua prestazione su tutto il disco, groovy, tecnico, fantasioso, potentissimo) per poi spiccare il volo fra riff in tremolo, stop & go mozzafiato e fughe strumentali al fulmicotone. ‘lack of comprehension’ amplifica il lato emotivo contorcendosi tra chitarre iper-sature mentre ‘cosmic sea’ è uno strumentale che si mette in linea con certe cose che stavano facendo i conterranei atheist al tempo con dischi meravigliosi come ‘piece of time’ e ‘unquestionable presence’, un progressive death arioso e dai toni vagamente psichedelici, un momento bellissimo che non viene sprecato per inutili virtuosismi ma è più mirato a creare un’atmosfera aliena e distante.

il resto non è da meno, ‘human’ è da mandare giù tutto d’un fiato per poi rifarlo subito dopo. e ancora. e ancora. è una delle migliori prove del talento incredibile di chuck schuldiner, un musicista la cui fantasia e passione l’hanno portato prima ad essere tra i fondatori di un genere, poi a rinnovarsi mettendosi in gioco, infine a cercare ancora nuove strade poco prima di lasciarci troppo presto. 
cazzo devi fare? ah sì, lo so. schiaccio play ancora.


death, 'scream bloody gore'


come sempre succede, è difficile dire di qualsiasi disco che sia stato “il primo del genere”. nel caso del death metal c’è una mezza diatriba che vede da una parte i sostenitori di ‘seven churches’ e dall’altra quelli di ‘scream bloody gore’; personalmente mi trovo sicuramente più d’accordo coi secondi: ‘seven churches’ è un disco fondamentale che ha influenzato miriadi di band ma è anche un punto di passaggio, un ponte dal thrash al death che esagera alcuni tratti del primo ma non arriva a definire un canone per il secondo.
‘scream bloody gore’ invece sì. il primo disco dei death è una ventata di aria marcia e putrida nel panorama metal in pieno fermento anni 80. quello che chuck schuldiner pubblica con la sua band è un nuovo dizionario, una musica ancora più estrema del thrash, più veloce, più violenta, con i classici riff tremolo e la voce di schuldiner lercia e malata, un latrato animale pareggiato solo da john tardy degli obituary. i testi si rifanno a film horror di serie b, dando il via al filone gore con sangue ovunque, teste mozzate che praticano sesso orale, zombie, satana e tutte le cose belle della vita. titoli come ‘mutilation’, ‘regurgitated guts’ o ‘torn to pieces’ sono abbastanza esplicativi.
la curiosa formazione a duo è durata un attimo e vede schuldiner alle chitarre, basso e voce e chris reifert alla batteria. reifert lascerà dopo poco: quando schuldiner si trasferisce in florida, lui rimane in california e fonda gli autopsy.

è incredibile come nel 1986 (anno di composizione e registrazione del disco, pubblicato poi nell’87) schuldiner diciannovenne già avesse una visione chiara di quello che voleva dalla sua musica: ci sono già break rallentati, cambi di tempo, assoli fulminanti, tutte cose che in futuro verranno esasperate dalla band, arrivando a un vero e proprio progressive death da ‘human’ (1991) in poi. ‘sacrificial’ è un buon esempio di questa dinamicità, così come la bella intro melodica di ‘zombie ritual’ che anticipa le suggestioni merdiorientali dei nile prima di gettarsi in una serie di riff chuggachugga epocali.
nei primi anni i death venivano “accusati” di essere una copia dei possessed; al tempo dei primi demo questo era vero ma parliamo di 3-4 anni prima che questo disco venisse pubblicato, qui l’influenza è ancora presente, senza dubbio, ma è utilizzata per codificare un nuovo modo di esprimersi nell’heavy metal, non è ancora del tutto metabolizzata ma di certo non si può dire che il gruppo sia una copia di mike torrao e soci.
il suono del disco è perfetto, melmoso, ribassato, pesantissimo; nonostante sia l’unico della discografia del gruppo a non essere registrato agli storici morrisound studios di tampa, ‘scream bloody gore’ ha esattamente il suono del death metal. e pensare che da qui si migliorerà soltanto.

il primo parto dei death è già epocale, ‘leprosy’ metterà ancora più a fuoco la proposta mentre il terzo ‘spiritual healing’ porterà già la band verso territori più intricati, un ponte verso il secondo capolavoro ‘human’, primo di una triade di dischi inattaccabili.
qui non ci sono grandi labirinti sonori né arrangiamenti fini e di classe, qui c’è il brodo primordiale del death metal, arti che volano, sangue e pus che schizzano, zombi ovunque e 38 minuti di musica che presentano al mondo una nuova sfumatura di estremo.


martedì 9 giugno 2020

morbid angel, 'domination'


prima che la vita ci colpisse duramente in faccia con quella merda immonda di ‘illud divinum insanus’, ‘domination’ era il disco sperimentale dei morbid angel, oltre ad essere l’ultimo con dave vincent e il primo con eric rutan, giovane chitarrista dal brillante futuro come produttore e capoccia dei devastanti hate eternal.
dopo il macigno ‘covenant’, i morbid angel recuperano quella dinamicità un po’ weird da ‘blessed are the sick’ e la sfruttano in pieno, pubblicando un disco vario e diverso. 

non si direbbe dal primo pezzo: ‘dominate’ è una martellata death a velocità supersonica su cui si staglia il growl imperioso di vincent, una lezione di death metal per tutti. a seguire troviamo uno dei pezzi più imitati e invidiati di tutta la storia della band: ‘where the slime live’ è un mid tempo paludoso dominato dai riff di azagthoth, una prova superlativa in cui lenti macigni si mischiano ad armonici dissonanti e momenti di groove inaspettati. l’assolo è semplicemente leggenda, non saprei che altro dire, è van halen posseduto da nyarlathotep che urla agli astri.
‘eyes to see, ears to hear’ propone una cascata di riff con un bizzarro e interessante profilo melodico, aperto e strano per il genere, mentre ‘melting’ è il primo di alcuni brevi intermezzi strumentali molto belli, ognuno molto specifico come atmosfera e timbri utilizzati.
altro picco è la furiosa ‘dawn of the angry’, aperta da un riff monumentale diventa presto una sfuriata in cavalcata rapida con grandi momenti di epicità infernale, condivisa con la bellissima introduzione di ‘caesar’s palace’, in odore di sunn o))). i tempi in generale sono cadenzati e la velocità estrema è usata come espediente, un po’ al contrario di quanto succedeva in ‘covenant’; inoltre i testi deliranti di dominazione satanica di vincent portano un’aura magniloquente quasi teatrale che si sposa alla perfezione con la musica.
apice di questa teatralità è la conclusiva ‘hatework’, il trionfo del male sull’universo, dave vincent scatenato e impossessato da tutti i demoni possibili, le chitarre e i synth a dipingere mondi in fiamme, torture eterne e satana, satana ovunque, un capolavoro. 

a, b, c, d. poi nulla sarà lo stesso, anche se non mancheranno ulteriori figate (almeno due), però la prima fase dei morbid angel, quella storica che ha deviato il corso del metal estremo, si chiude qui, con una dichiarazione di superiorità a cui nessuno si è mai opposto. sarebbe assurdo del resto, dura battere qualcuno al gioco che lui stesso ha creato; ci han provato in tanti ma trey azagthoth guarda tutti dal centro dell’universo e ride, giocando a quake 3 e scrivendo i migliori riff death metal che possiate sentire nella vita.


morbid angel, 'covenant'


‘altars’ è l’inizio, ‘blessed’ è la perfezione, ‘covenant’ è la furia più pura.
vi è piaciuta la fantasia di ‘blessed’, i suoi intermezzi strumentali, le chitarre melodiche di richard brunelle? bene, non c’è più niente di tutto ciò, ci sono altri 40 minuti di morbid angel in trio che non hanno alcuna intenzione di avere pietà per voi, ‘rapture’ lo metterà in chiaro fin da subito.

dopo la cacciata di brunelle (pare per abuso di sostanze) l’angelo morbidello si rifugia nella violenza con un monolite gnucco e nero come un blocco di ossidiana. la produzione è la migliore che il gruppo abbia mai avuto, le chitarre suonano infernali come non mai, la batteria è naturale e secca, la voce potentissima di vincent esce dalle casse come un’anima tormentata e il basso si sente ben distinto (cosa non da poco nel metal in generale), è davvero uno dei dischi che suonano meglio in tutta la storia del genere. c’entra sicuramente anche la mano di flemming rasmussen, già coi metallica di ‘ride’, master’ e ‘justice’, che si occupa di produzione e mix. 
tutto questo è al servizio di pezzi tra i migliori mai scritti da azagthoth; ‘rapture’, ad esempio, è tutto ciò che potete volere dal death metal: batteria parossistica, riff tremolo, growl malvagio, break spezzacollo, rallentamenti soffocanti e un assolo unico. ma che ve lo dico a fare, gli assoli di chitarra in questo disco sono la perfezione.
se dovessi descrivere i pezzi uno per uno probabilmente pensereste che questo non è un disco dinamico. beh, avreste ragione, non lo è, sono solo mazzate dall’inizio alla fine ma è uno dei pochi dischi che riescono a farlo in maniera ispirata e coinvolgente dall’inizio alla fine, non ci sono pezzi brutti, non ci sono pezzi minori, in compenso ci sono due pezzi che sono ancora più belli e finiscono all’istante nell’olimpo del metallo: la già citata ‘rapture’ e la conclusiva ‘god of emptiness’, basata su un riff che è magia pura, roba che sicuramente mikael akerfeldt ha consumato in lacrime. è un pezzo lentissimo e trascinato con un testo quasi recitato da vincent nel suo tono profondo e disturbante, con una sezione centrale che è leggenda (chiedere ai nile per chiarimenti) e una grandissima prestazione di sandoval alle pelli.

‘covenant’ è un disco che se ne frega ti starvi simpatico, disorienta continuamente col volume, col timbro e con le strutture. potrei dirvi che ‘world of shit’ ha dei riff melodici quando aggressivi, che ‘vengeance is mine’ ha un finale col sangue agli occhi o che ‘nar mattaru’ è l’unico, bellissimo intermezzo ambientale ma questo non è un disco di cui parlare, è un disco da cui farsi travolgere e da godere in ogni suo singolo riff, la lettera c sono i morbid angel che danno fuoco al mondo intero, gettatevi nelle fiamme del caos e invocate i grandi antichi anche voi.


morbid angel, 'blessed are the sick'


passano due anni tra ‘altars of madness’ e ‘blessed are the sick’, sono anni in cui il metal deve iniziare a confrontarsi col successo ma anche con la rivalità con i nuovi generi che stanno contagiando le masse.

beh, i morbid angel se ne battono il cazzo.
‘blessed are the sick’ è probabilmente il miglior disco death metal mai pubblicato. punto. qualcuno per suo gusto personale può rispondere che preferisce questo o quello ma di fatto questo disco è la bibbia del brutal death metal, musicalmente, liricamente ed esteticamente. non è che ci voglia una grande analisi per rendersene conto, bastano i primi tre minuti di ‘fall from grace’: zolfo ovunque, riff ora maligni e rallentati, ora lanciati a velocità folli, batteria indomabile, voce schizoide, testo che tratta di antichi, satana, morti scannati, una meraviglia. ma se vi fermate a tre minuti vi perdete l’allucinato solo di chitarra su struttura schizofrenica e pure il rallentamento quasi funeral che segue. pochi altri hanno saputo dipingere l’inferno in maniera così accurata, particolareggiata e coinvolgente, pare di vedere il fumo uscire dalle casse.

la produzione è nettamente migliorata, le chitarre in particolare marchiano a fuoco il suono dei morbid angel ma anche la voce di vincent si fa più dinamica, passando dallo scream al growl a parti recitate in un inquietante tono da basso, per non parlare delle contorsioni ritmiche di sandoval, sempre più veloci e violente (qui inizia a sfruttare davvero i tappeti di doppia sui tempi lenti con effetto devastante). ‘brainstorm’ pesta durissimo ma è con ‘day of suffering’ che si compie un altro miracolo inarrivabile, due minuti scarsi di riff da scolpire nella pietra, un trionfo.
‘blessed’ è anche il primo disco in cui compaiono i brevi intermezzi strumentali che diventeranno parte integrante dell’estetica del gruppo; ‘doomsday celebration’ o ‘desolate ways’ (con protagonista brunelle all’acustica) sono esempi perfetti, oasi in mezzo alla violenza che non fanno però calare la tensione grazie a un’atmosfera malsana e soffocante.
‘blessed are the sick/leading the rats’ approfondisce i tempi lenti, anticipando pezzi come ‘god of emptiness’ o le trovate di ‘gateways to annihilation’ di dieci anni dopo ma finisce con un’inquietante quanto inaspettata melodia di flauto.
da qui alla fine non ci sono grossi scossoni ma i riff continuano a inseguirsi, ognuno più bello e satanoso (satanacchio?) di quello prima con gli assoli di azagthoth a squarciare le trame con la sua follia controllata (pare che non fossero realmente scritti, sceglieva una zona del manico e un’intenzione timbrica per poi quasi improvvisarci).

se ‘altars’ è stato un fulmine sulla scena ed ha presentato una formula che moltissimi hanno copiato, ‘blessed’ è svariati passi più avanti e presenta un’interpretazione del death metal finalmente libera dalle influenze, unica ed originale, un impasto sonoro non replicabile se non dai fautori stessi, grazie anche a una dinamicità ed ecletticità non scontate nel genere. sì, è il miglior disco death metal di sempre ma se ne vedranno ancora delle belle.


morbid angel, 'altars of madness'


non è difficile tracciare la linea storica del death metal, se non ci si addentra nei meandri dell’underground: i venom hanno ispirato gli slayer, gli slayer hanno ispirato i possessed, i possessed hanno ispirato i death, i death hanno più o meno fissato le coordinate sonore del genere per tutti gli altri venuti dopo. quello che è venuto dopo si è aperto in due filoni principali, da una parte il grindcore inglese che si imbastardiva con l’hardcore, dall’altra il brutal floridiano; se per il primo abbiamo i napalm death come indiscussi portatori di bandiera, per il secondo abbiamo i morbid angel (mentre i sempiterni obituary e i deicide mantenevano una linea più death “classica”). a seguire arriverà la svezia a dire la sua ma in questo momento non ce ne può fregare di meno.

i morbid angel sono la creatura di george emmanuel iii, meglio conosciuto dai più come trey azagthoth, chitarrista unico nel suo genere, vero e proprio visionario con una mano inimitabile e una fantasia infinita negli arrangiamenti e assoli. all’inizio è insieme all’amico batterista e cantante mike browning, che lascerà prima di ‘altars’ per formare i nocturnus, e al bassista dallas ward di cui, per quanto ne so, si perderanno le tracce. entrambi lasciano prima dell’esordio e i loro rimpiazzi diventeranno una formazione leggendaria: richard brunelle alla seconda chitarra porterà un tocco più melodico e “terrestre”, dave vincent porta la sua voce marcia e violentissima oltre al basso ma soprattutto porta il suo compagno batterista nei terrorizer, pete ‘commando’ sandoval, una delle migliori macchine da guerra che il metal abbia mai avuto, batterista violentissimo, velocissimo, tutto -issimo che diverterà un simbolo per tutto il genere.
in realtà prima dell’arrivo di vincent e sandoval ci fu la falsa partenza di ‘abominations of desolation’: registrato nell’86, contiene già alcuni pezzi che andranno sui dischi successivi ma è penalizzato da una pessima registrazione e un orrendo mix che lo rendono interessante solo come documento.

tutt’altra storia il vero esordio ‘altars of madness’. (per chi non lo sapesse, i dischi dei morbid angel sono in ordine alfabetico)
l’attacco di ‘immortal rites’ è fatto di nastri rivoltati che spiazzano, prima che entri il grandioso riff principale a presentare al mondo un nuovo modo di suonare death metal, ancora più veloce, intricato, fatto di riff contorsionisti e doppia cassa a tappeto. si sentono gli slayer, i possessed e i death ma il livello di parossismo è portato ancora oltre, con la voce allucinata di vincent ad invocare i grandi antichi in mezzo al putiferio. quando finisce non va meglio perché ‘suffocation’ attacca alla faccia con un blast beat selvaggio e il riffing di azagthoth a virare il timone del pezzo. ‘visions from the dark side’ introduce cascate di riff tremolo, ‘maze of torment’ spiazza con una struttura piena di cambi, parti di batteria folli e un break rallentatissimo e opprimente, è un susseguirsi di brani che utilizzano un numero relativamente ristretto di formule ma ne danno interpretazioni in continua mutazione, mostrando al mondo quello che il gruppo saprà fare negli anni a seguire. gli assoli di azagthoth sono schegge folli che spesso rasentano il puro rumore, scelte più timbriche che melodiche che negli anni lo porteranno a livelli di sperimentazione estremamente interessanti.

alla fine sono neanche 40 minuti di musica ma questi 40 minuti hanno cambiato la vita a un sacco di musicisti. le influenze sono ancora evidenti, slayer, death e possessed sono un po’ ovunque ma i testi e la velocità dei pezzi sono inauditi, è la proverbiale pietra lanciata più lontano che segna un nuovo orizzonte. ben presto gli stessi morbid angel si libereranno dalle influenze di gioventù per continuare con 3 album uno più bello dell’altro, tutti superiori ad ‘altars of madness’ ma la carica innovativa di questo album esplode sulla scena metal creando centinaia di band clone e viene giustamente ricordato come una pietra mliare.


domenica 7 giugno 2020

prince, 'the rainbow children'


se c’è un disco di prince da sentire assolutamente al di fuori dei classici degli anni ’80, questo è ‘the rainbow children’, senza alcun dubbio la sua opera più riuscita dopo il 1989.
dopo un intero decennio di controversie, il cambio di nome, i casini con la warner, il figlio morto a due giorni dalla nascita, il matrimonio e divorzio con mayte e la ricerca a tentoni di una nuova formula musicale, prince trova finalmente un nuovo baricentro e lo fa gettandosi di faccia nella tradizione afroamericana: jazz e funk (e gospel) sono alla base di questa nuova veste. c’è ricerca, c’è sperimentazione, voglia di osare e andare oltre, tutto quello che era mancato dai dischi degli anni ’90.

il disco è come sempre suonato quasi interamente da prince ma introduce almeno due nuove “armi” che saranno fondamentali negli anni a seguire: larry graham, storico bassista di sly & the family stone, suona il basso su due brani (‘the work’ e ‘last december’) mentre john blackwell (accreditato nel booklet come ‘the magnificent’, a ragione) suona la batteria su tutti i pezzi. blackwell era un batterista eccezionale, insieme a bland è stato il miglior batterista di prince con uno stile tutto suo, coinvolgente, dinamico, fantasioso, potente e con un groove pazzesco che dal vivo sarà uno dei punti focali dei concerti, grazie anche alla sua ottima padronanza di una gran varietà di stili, jazz, funk, latin, rock (spesso con doppia cassa dal vivo) e quant’altro, perfetto per la nuova, variopinta direzione di prince.
da notare inoltre come il mix dell'album sia molto più asciutto e live rispetto alle produzioni precedenti, lasciando in primo piano gli strumenti con poco riverbero generale.

l’iniziale ‘rainbow children’ non fa nulla per mascherare le intenzioni: sono 10 minuti di lounge-jazz dai toni spiritual e gospel in continuo crescendo, lascia continuamente a bocca aperta, nonostante il lieve fastidio causato dalla voce narrante. ecco, parliamone subito e leviamoci la questione di torno. non ho alcuna intenzione di addentrarmi nei testi che formano il concept, preferisco fare finta di nulla e girarmi dall’altra parte perché odio il fatto che questo disco incredibile sia praticamente un opuscolo dei testimoni di geova. capisco che per prince questa ritrovata fede è stata importante per tanti motivi ma so anche che pochi anni dopo sarà lui stesso a ripudiarla per cui, per me, i testi sono una favola nonsense e poco altro, perché in alternativa dovrei dire che sono solo merda propagandistica da fanatici. ad ogni modo, la linea narrativa è affidata a una mostruosa voce filtrata che compare tra quasi tutti i pezzi e su buona parte del primo, può dare fastidio ma si può facilmente ignorare.
‘muse 2 the pharaoh’ ha un groove morbido e sexy su cui prince fraseggia liberamente col piano rhodes mentre con la voce passa dal classico falsetto ad armonie bizzarre a un rap tutto dinoccolato e traballante. ‘digital garden’ sposta invece le coordinate, è un pezzo stranissimo basato su un loop di percussioni su cui si apre un arrangiamento creativo in cui le voci si rincorrono e la chitarra commenta fraseggiando ma verso metà si placa in un break ambientale prima di un violento ingresso di chitarre elettriche, decisamente più di un intermezzo ma molto strano come pezzo. tutta questa stranezza viene bilanciata da pezzi come ‘the work pt.1’, non lontana dall’aperto tributo a james brown, un funk grandioso in cui le bacchette di john blackwell vi faranno muovere il culo in ogni secondo.

la voce di tia white apre ‘everywhere’, una festa di colori latin-jazz, ancora una volta con fortissime tinte gospel, ancora una volta con john blackwell protagonista insieme al nano, con una prestazione a dir poco stellare a sostegno di belle linee di fiati; prince da parte sua ci mette un bell’assolo di basso che porta alla coda del pezzo. ‘the sensual everafter’ è un breve strumentale che però mette in tavola una bella dose di synth e si fa apprezzare per le belle melodie della chitarra mentre ‘mellow’ ci riporta alle atmosfere lounge dell’inizio del disco con un morbido flauto traverso che punteggia tra le stratificazioni vocali. ‘1+1+1 is 3’ è goduriosamente old school prince, con melodie naif dai suoni acidi e un tiro funk essenziale che pare arrivare da ‘1999’, è un passo importantissimo: finalmente prince riesce a fare pace col suo passato e a interpretarlo in una nuova forma, ovvero quello che negli anni ’90 ha prima rifuggito e poi mancato. con tutta questa grazie si è disposti anche a passare sopra all’intermezzo ‘deconstruction’ e all’orrenda ‘wedding feast’, scritta dal nostro per il suo matrimonio con manuela testolini. meglio buttarsi nel groove profondo di ‘family name’, sorta di moderna ‘cloreen bacon skin’ poco più arrangiata prima di strutturarsi con l’ingreso di voci, chitarra e fiati, un gran momento di funk zozzo e divertente.
prima del finale arriva ‘the everlasting now’ a far tremare i muri, un funk viscerale (con una fantastica ritmica di blackwell) dal ritornello gospel e un intermezzo latin che non lascia respirare un secondo (in cui si palesa la grossa influenza di carlos santana sul prince chitarrista), una delle migliori party song del nano che dal vivo farà fiamme. 
è un peccato che ‘the last december’ non sia all’altezza e non soddisfi del tutto come chiusura: non è un brutto pezzo ma non ha nulla che lo faccia spiccare se non un senso di pacchiano che riporta a ‘gold’. per fortuna dopo un paio di ritornelli si apre in un riff maligno su cui parte un bel solo di chitarra con dietro blackwell più rock che mai, poi la struttura si fa addirittura prog, con obbligati, bruschi cambi di dinamica e aperture in una lunga sezione strumentale prima del moscio reprise finale.

tanta roba in questi 70 minuti, un sacco di idee che finalmente trovano una direzione precisa e chiara, restituendo ai pezzi di prince l’incisività di un tempo e regalandoci un disco divertente, colorato, dinamico ed interessante in quasi ogni suo minuto. il ‘one nite alone… tour’ che segue è talmente una figata che lo stesso prince lo userà per pubblicare il suo primo live ufficiale (recentemente ristampato in confanetto). la ventata d’aria fresca portata dalle nuove sonorità e dai nuovi musicisti andrà a trasfigurare anche i brani vecchi ma finalmente, dopo un decennio stanco, i fan saranno felici di sentire anche i pezzi di ‘the rainbow children’ che infatti verrà suonato quasi per intero.
il periodo jazz di prince ci regalerà ancora qualche perla rimasta più nascosta (‘xpectation’ e ’n.e.w.s.’ in particolare) per poi dissolversi con l’arrivo del moscio ‘musicology’, di dischi di questo livello purtroppo non se ne vedranno più (a parte quelli postumi) ma la verve resterà nei live incendiari degli anni successivi.

per riassumere? mi ripeto: se c’è un disco di prince post-1989 assolutamente da sentire, è questo.


sabato 6 giugno 2020

prince, 'diamonds and pearls', 'o(+>'



‘diamonds and pearls’ e ‘o(+>’ sono quasi dischi gemelli, in senso che il grosso dei pezzi per entrambi gli album sono stati scritti insieme nel ’91 e ci sono configurazioni embrionali che confermano questa cosa, con brani ancora mischiati che verranno poi separati.
sono entrambi frutto del primo periodo di crisi di prince, non solo artistica, considerando il disastro finanziario che stava vivendo dopo le spese sregolate per la costruzione di paisley park e il licenziamento totale del suo team gestionale. in più c’è il nuovo gruppo, la new power generation, composta da nuovi musicisti eccezionali con un approccio molto diverso dai revolution o dalla band con sheila, una vera gang con tanto di trio di rapper (mediocri) votata al verbo di quella che gli inglesi chiamano “braggadocio”, una millanteria sessual-maschilista lontana anni luce dai sottili discorsi di ‘sign ‘o’ the times’ o dalla spiritualità di ‘lovesexy’. era il modo di prince di riconnettersi con la nuova musica nera che in quel momento vedeva la cultura hiphop farla da padrona, purtroppo il risultato è spesso ridicolo, privato di ogni asperità e reso innocuo come potrebbe fare la disney ma la colpa non stava con gli strumentisti: michael bland, insieme a john blackwell, è probabilmente il miglior batterista che prince abbia mai avuto, sonny t al basso ha una mano pazzesca, ha rubato il posto a levi seacer jr che invece si rivela un gran chitarrista in vari momenti mentre tommy barbarella deve prendere il posto che per tanti anni è stato del dottor fink e se la cava più che egregiamente, soprattutto all'hammond. oltre ai tre rapper (tony m, damon dickson e kirk johnson, quest'ultimo purtroppo resterà appiccicato a prince fino ai primi 2000) arriva anche la voce strabordante di rosie gaines che prende la lead in più momenti su 'diamonds and pearls' per poi scomparire dopo il tour.

‘diamonds and pearls’, uscito nel 1992, mette comunque sul piatto un bel pasto. i pezzi inutili ci sono (‘strollin’’, ‘willing and able’, ‘walk don’t walk’, ‘push’) e ce n’è un paio propriamente brutti (‘diamonds and pearls’ e ‘walk don’t walk’) ma tutto ciò è contrastato da alcuni momenti di grandissimo prince, su tutti ‘gett off’, un funk moderno, zozzo, pompato di sconcerie, con un bel riff portante e un’interpretazione vocale straripante. c’è il bel notturno dai toni lounge di ‘money don’t matter 2 night’, che tratta di gioco d’azzardo, c’è la bellissima chiusura con ‘live 4 love’, un pezzo aggressivo e ripieno di effetti sintetici che trascina dall’inizio alla fine. e non si può dire che ‘cream’ sia una brutta canzone, anche se prince ci ha tenuto a suonarla migliaia di volte live mostrandone la vacuità a lungo termine; in poche parole non è brutta ma ha rotto il cazzo.
l’influenza rap all’inizio doveva essere molto più marcata, alla fine sono 4 i pezzi che ne fanno largo uso nel disco. ‘daddy pop’ è l’espressione perfetta di quel maschilismo pomposo di cui si parlava prima, non è un brutto pezzo ma verrà presto dimenticato, così come ‘push’ o la più riuscita ‘jughead’.
allo stesso modo spariranno le jazzate ‘strollin’’ (assolutamente inutile e anche un po’ ridicola) e ‘willing and able’, che i toni gospel e un gradevole lavoro di chitarra non salvano dall’oblio. verrà invece trascinata per un po’ ‘diamonds and pearls’, un’orrenda ballata pomposa, sovrarrangiata e con una melodia sconsigliata ai diabetici che preannuncia l’arrivo di orrori cosmici quali ‘the most beautiful girl in the world’.

‘o(+>’ invece ha preso una strada diversa, quella del “quasi concept”, peccato che la trama si sia persa tra mille passaggi prima di arrivare alla forma cd. è una trama dai connotati spirituali, parla di rinascita, di religione, di filosofia e di scopare. scusate, la tentazione era troppo forte. comunque sul serio, c’è chi ha provato a ricostruire la storia, ha fatto molta fatica e non c’è riuscito del tutto per cui non starò qui a perdermici.
rispetto a ‘diamonds’ il lato gangsta rap patriarcale è ancora più amplificato ma riesce a rendersi più coinvolgente, almeno in uno dei capolavori dell’album, il miracolo funk di ‘sexy mf’, con una ritmica di michael bland che è puro james brown. l’altro momento incredibile è ‘7’, un pop-funk infarcito di arrangiamenti bizzarri dai toni esotici e retto da un fantastico ritornello pluri-armonizzato dalle voci di prince, una sorta di evoluzione di certe atmosfere di ‘around the world in a day’ e uno dei migliori (ed ultimi) esperimenti del nano in questa direzione.
poi c’è una buona quantità di pezzi coi loro pro e contro ma tutto sommato belli: ‘my name is prince’ è un’ottima apertura aggressiva, ‘love 2 the 9’s’ ha un groove stortignaccolo tutto suo, ‘the sacrifice of victor’ è una gran party song con un testo che mischia narrativa e autobiografia; poi, come spesso succede con prince, altrove sta a voi prendere una posizione: per me ‘i wanna melt with u’ è talmente esagerata che fa il giro e diventa divertente e pure la doppietta fortemente rap di ‘arrogance’-‘the flow’ non è affatto male. 
il male è altrove. ‘the max’ è un filler big beat ridicolo, esattamente come ‘the continental’. va ancora peggio con ‘blue light’, un agghiacciante pezzo dai toni reggae che si adattano a prince quanto il death metal a miles davis. ‘and god created woman’ è vomitevole ma l’apice dell’orrore si tocca con ‘3 chains o’ gold’, una cagata sovrarrangiata, iper-strutturata, pomposa, ridondante, ridicola come solo i queen saprebbero essere. sarebbe da considerare per l’eclettica prova vocale ma non ce la si può fare, è una delle cose peggiori mai registrate da prince.

il tour di ‘diamonds’ del ’92 curiosamente non toccò l’america, girando per giappone, australia ed europa. lo show era incentrato su prince e i tre rapper, a livello musicale proponeva dei bellissimi momenti ma mancava di quell’anarchia pan-sessuale dei tour degli anni ’80, una tendenza già anticipata dal ‘nude tour’ di un paio d’anni prima. fu anche una delle ultime occasioni per sentire ‘thieves in the temple’ dal vivo, in una versione super-funky, oltre ovviamente a pezzi come ‘daddy pop’, ‘jughead’ o ‘willing and able’ che (per fortuna) sarebbero scomparsi subito dopo.
discorso diverso per ‘act i’ e ‘act ii’, il tour di ‘o(+>’, un carrozzone molto teatrale in cui l’interazione era ridotta quasi unicamente a due persone, prince e mayte, più o meno per tutto il tempo, con trovate sceniche come prince che canta davanti a un plotone d’esecuzione, mayte che balla con una spada ed altre scenografie studiate che tarpavano un po’ le ali allo show.

non sono dischi brutti, nessuno dei due, qualunque fan di prince ve lo dirà. hanno alti e bassi ma per ora i primi ancora riescono a far dimenticare i secondi. la band si fa notare, in particolare la ritmica, con ottime prestazioni di tanti brani ma l’impasto collettivo non ha la stessa personalità spiccata delle formazioni precedenti, quantomeno non ancora.
due dischi contraddittori che se da un lato mostrano un’evidente volontà di evoluzione da parte di prince, dall’altro manifestano il suo smarrimento, una ricerca per tentativi di un nuovo suono che, ahimé, non si concretizzerà ancora per quasi 10 anni. in ogni caso consiglio a chiunque apprezzi la sua musica di farsi un giro con entrambi perché riservano delle bellissime sorprese.




venerdì 5 giugno 2020

prince, 'the undertaker'


‘the undertaker’ è uno dei vari dischi “fantasma” di prince ma è uno di quelli facilmente reperibili, poiché è stato pubblicato almeno in formato video (vhs e laserdisc). è un live in studio registrato il 14 giugno del ’93 in power trio con prince a chitarra e voce, michael bland alla batteria e sonny t al basso, una formazione pazzesca di cui purtroppo non ci sono abbastanza registrazioni live.
il video è carino, sarebbe stato ancora meglio se si fosse basato unicamente sulle riprese live invece di tentare una maldestra storia di cui non si capisce una minchia (vedi ‘3 chains o’ gold’, per chi sa).

il cd, se pubblicato, sarebbe stata la prima uscita a nome o(+> (il video invece è stato pubblicato a nome prince); non solo, l’idea di prince era di pubblicare il disco allegato a un numero della rivista guitar world, cosa a cui la warner si oppose rigidamente. non solo, quando prince decise di stampare in privato 1000 copie del disco, la warner gli ordinò di distruggerle. merde. 
ma merde davvero, perché questa volta hanno bloccato quello che poteva essere uno dei migliori prodotti princeiani di tutti gli anni ’90. sono poco più di 35 minuti che frullano bluesaccio, funk e rock hendrixiano, tutto trascinato dalla chitarra scatenata del nostro. la ritmica è compatta oltre ogni dire, sostiene, accompagna, commenta, hanno tutto quello spazio che sui dischi era preso da drum machine e synth.
buona parte dei pezzi era stata scritta per un ipotetico disco di nona gaye, figlia di marvin che in quel periodo frequentava prince e ci collaborava (canta su ‘love sign’, fa cori in ‘the gold experience’ più altre cosine).
‘the ride’ è una goduria unica, 11 minuti di bluesone profondo e zozzo, con la distorsione maleducata di prince a fare il bello e il cattivo tempo. ‘poorgoo’ non è il miglior pezzo di sempre ma il tiro è ficcante e sentire prince così rilassato non è cosa di tutti i giorni.
se ‘the undertaker’ fosse stato pubblicato, avrebbe contenuto sia la prima cover che la prima ri-registrazione di un pezzo passato. la cover in questo caso è ‘honky tonk women’ degli stones in cui il nano tira fuori tutto l’hendrix che è in lui con una distorsione slabbrata e fragorosa, più o meno come succede anche nell’adrenalinica rivisitazione di ‘bambi’ dal secondo album, un hard agguerrito ma dal groove micidiale con assoli di chitarra a ruota libera.
purtroppo ‘zannalee’ viene solo accennata, sarebbe sicuramente stata una versione di gran lunga superiore a quella completamente inutile di ‘chaos and disorder’, vabbè. a tirarci su il morale ci pensano i 10 minuti di ‘the undertaker’: groove funk investigativo che si insinua sottopelle e pulsa ininterrottamente, le dita di prince poetiche sulla sei corde nell’accompagnamento, semplicemente incredibili nei meravigliosi soli.
in chiusura troviamo una versione deliziosamente grezza di ‘dolphin’; ancora inedita nel 93 ma pubblicata poi su ‘the gold experience’, qui la sua vena psichedelica è in bella mostra, specialmente nella bella coda liquida.

ancora una volta non parliamo di un capolavoro, negli anni ’90 di prince a livello di album non ce n’è purtroppo. però è un disco decisamente diverso dagli altri, con focus sulle parti strumentali molto più che su quelle cantate (si avrà l’apice di questo discorso con ’n.e.w.s.’ nel 2003, altro live in studio del 2003, completamente strumentale) e in cui potrete sentire una versione di prince molto più vicina a quella dei suoi leggendari aftershow che non ai dischi precedenti. sono tre musicisti mostruosi che jammano da paura su buone canzoni, se volete una riprova della maestria di prince alla chitarra la troverete qui, non perdetevelo.


giovedì 4 giugno 2020

prince, 'come'


come succederà con ‘chaos and disorder’ un paio di anni più tardi, ‘come’ è uno dei capitoli della discografia di prince che è bene dimenticare. 
è l’ultimo disco pubblicato col nome “prince”  (in copertina si legge "prince 1958-1993") per po’ di anni e, sebbene a occhio sembri avere una sua coesione, è un’accozzaglia di poche idee ma molto confuse. marginalmente migliore di ‘chaos and disorder’ solo perché per la maggiorparte del tempo si limita ad essere completamente inutile e innocuo e non ha nemmeno grossi picchi in negativo, è semplicemente una rottura di palle per 50 minuti.

la title-track ha qualche idea non male, ne non fosse stata trascinata per UNDICI MINUTI magari si sarebbe salvata. tant’è, dopo un paio di minuti ha già rotto il cazzo e ce ne sono altri 9 dopo in cui niente cambia e quelle linee di fiati che all’inizio intrigano diventano insistenti e fastidiose. ’space’ gioca con tentazioni acid quasi ambient-house ma finisce col suonare come il sottofondo per un certo relax di quelli con happy ending. che poi è pure a tema, no? esiste un remix, “universal love radio remix” che i fan tengono in alta considerazione, non ho mai capito il perché.
non ve le starò a citare tutte. la linea generale vede un interessante contrasto tra ritmiche molto accentuate e pad sognanti che fanno da collante, l’idea è bella, peccato resti lì senza alcuna reale conseguenza (‘pheromone’ è forse il pezzo in cui questa cosa è più evidente). si discosta un po’ la ballata ‘dark’, dal feeling vintage e con un buon groove ma scomparsa nel nulla dopo la pubblicazione.
i momenti più interessanti sono due: il primo è ’papa’, poco meno di tre minuti di groove scuro che ricorda certe cose di ‘the undertaker’, una bella interpretazione di prince e un testo controverso che tratta di abuso infantile, un buon pezzo ma nulla di memorabile; il secondo è ‘solo’, un’interpretazione a cappella di un testo scritto dall’autore david henry hwang, contattato da prince con l’idea di scrivere un musical teatrale. il progetto svanì nel nulla ma resta questa unica collaborazione tra i due che permette soprattutto di apprezzare la surreale tecnica vocale di prince, con un controllo dell’intonazione mostruoso, un’estensione inumana e un vibrato che sembra riuscirgli naturale come il respirare. 
prima di finire con un minuto e mezzo di onde del mare, distorsione e orgasmo femminile, ‘letitgo’ preannuncia tutto il peggio che riempirà il logorroico ‘emancipation’.

non è offensivo come disco (a parte ‘orgasm’) ma è evidentemente buttato lì, scarsa cura negli arrangiamenti, ancora meno nelle strutture, zero melodie memorabili e tanta, tanta, troppa noia. ‘the gold experience’ sarà l’ultimo sussulto prima di un oblio che durerà fino a ‘the rainbow children’ del 2001 tra dischi inutili, brutti e/o ridicoli, perfettamente rappresentati da ‘come’. ancora una volta, girate alla larga.


mercoledì 3 giugno 2020

il fondo del barile #3: o(+>, 'chaos and disorder'


‘chaos and disorder’ non sarebbe mai dovuto uscire, questo è quanto. il “disco” che conclude il contratto di prince con la warner nel 1996 è un miscuglio di outtakes lasciate indietro e roba che sta tra l’imbarazzante e l’orrendo. inoltre l’intero album suona sotto-prodotto, buttato lì, lo stesso prince scrive nel booklet che queste erano registrazioni private originariamente non destinate al pubblico. è una pubblicazione per obblighi contrattuali senza alcun interesse da parte di nessuno, artista, etichetta o fan.

l’hard di gomma della title-track e ‘i like it there’ lascia perplessi, una forma di rock che aveva dato buoni risultati su ‘the gold experience’ e che funzionava live ma in questo caso è spompa, accademica, anche un po’ ridicola. “chaos and disorder rule in my world today” urla il ritornello, difficile dargli torto. ah sì, dimenticavo, questi due sono probabilmente i pezzi meno peggiori del disco; no, non ci sono pezzi “migliori” su questo album. c’è ‘dinner with delores’, una vaccatina pop utile quanto un buco del culo sul gomito, c’è ‘the same december’, una vigorsol-song senza alcun mordente con degli orrendi incisi strumentali, ‘right the wrong’ è un ibrido funkabilly senza forma né particolare utilità e con un brutto ritornello. ‘zannalee’ poteva salvarsi in altro contesto, non come pezzone ma almeno come bluesaccio, magari con un arrangiamento meno caciarone (peccato venga solo accennata nel bel live in studio ‘the undertaker’), qui è solo un’altra scusa per jammare in tondo e allungare il brodo. ma il fondo si tocca davvero con ‘i rock therefore i am’ e ‘dig u better dead’, due mostruose deformazioni di ‘gett off’ dai ritornelli ridicoli, arrangiamenti completamente a caso, strutture traballanti con tanto di agghiaccianti break rappati, roba che oggi puzza di vecchio quanto il cadavere di mike bongiorno; non hanno nemmeno il valore aggiunto della npg che ci suona, come nella maggiorparte degli altri pezzi. su ‘into the light’ e ‘i will’ non saprei neanche cosa dire senza ripetermi mentre la conclusiva ‘had u’ mostra quantomeno un profilo melodico bizzarro e qualcosa di interessante ma dura un minuto e venti per cui tutto ciò viene brutalmente cancellato in un attimo.

‘chaos and disorder’ è un disco di merda, non c’è veramente niente da salvare, è il primo candidato a peggior album della carriera di prince, l’unico pregio che ha è la durata che sfiora i 40 minuti, almeno se ne va in fretta. se vi va bene non ve ne accorgerete nemmeno ma può andarvi ancora meglio: dimenticatevi che esista.