martedì 30 luglio 2019

magma, 'zëss'



spiace dover dire “no” ai magma dopo 50 anni di onorata carriera, purtroppo ‘zëss’ non mi è proprio piaciuto. il motivo principale è la presenza dell’orchestra, timbro che in generale malsopporto e che qui porta delle conseguenze pesanti sul suono del gruppo.

i magma (fondatori del "genere" zeuhl) storicamente hanno basato il loro suono su una percussività jazz, inondandola di suoni e giocando su ripetitività modulare e interazione aperta, con grosse influenze classiche nella composizione ma poche nel timbro. se le composizioni degli anni ‘70 risentivano dei blocchi dissonanti di stravinsky, dell’epicità dissonante di wagner e delle scelte armonico/melodiche delle avanguardie del primo ‘900, qui l’influenza sembra più venire dalle vomitevoli sviolinate sentimentali di dvořák (o generalmente da colonne sonore un po’ melense) che appesantiscono oltremodo il suono del gruppo. si fa spazio all’orchestra ma gli arrangiamenti sono troppo spesso di pessimo gusto.

altra cosa che mi ha allontanato sono le parti narrate in francese e tedesco, i magma hanno sempre cantato in kobaiano (lingua del pianeta kobaia, inventata dal batterista christian vander) e questo ha sempre dato alla loro musica un tono ulteriormente alieno e affascinante; l’utilizzo di lingue esistenti cambia il baricentro sonoro (anche se non si capiscono francese o tedesco) e di conseguenza fa suonare la voce non come uno strumento ma come... una voce. 
inoltre per la prima volta vander si fa cantante principale, lasciando le bacchette al mostro morgan ågren che però non brilla particolarmente, suonando benissimo e con un gran suono delle parti molto controllate e poco incisive.

la composizione risale alla fine degli anni ’70 ed è stata più volte proposta dal vivo ma solo nel 2018 è stata registrata; è lunga 38 minuti e divisa in 7 parti senza pause. è sicuramente da lodare il lavoro compositivo, coeso e coerente con le scelte timbriche, questo però vuol dire che tralascia quasi completamente la parte jazz del suono magma (confinata alla sola batteria e non sfruttata realmente) per lasciare più spazio all’orchestra.

il lavoro dietro ‘zëss’ è di prim’ordine ma troppe cose non mi sono piaciute. poi ci sono ovviamente bei momenti più classicamente magma ed è da apprezzare la voglia di cambiamento da parte di un gruppo con 50 anni alle spalle, se chiedete a me però non è questa la strada.

domenica 21 luglio 2019

lingua ignota, 'caligula'



kristin hayter spicca il volo. se i precedenti capitoli come lingua ignota erano già interessanti ed originali, ‘caligula’ parte per la tangente e lascia tutti a casa.
c’è gente che fa rumore per il gusto di farlo, altri lo fanno in maniera ignorante per esprimere quel senso di bestialità primitiva; kristin hayter ha una cultura musicale enorme, ha alle spalle studi accademici che le permettono un totale controllo del suono, oltre ad avere una delle voci più profonde, emotive e sconquassanti che possiate ascoltare in una biondina piccola e magrolina. quando lei fa rumore, vi arriva direttamente allo stomaco come un calcio; questo perché sa come fare male, ha trovato una formula perfetta per rendere in musica l’oscurità del male di vivere, la frustrazione, la rabbia cieca e la desolazione più completa. lei il rumore lo usa per dare un messaggio che sa di dolore e vendetta.
ha dalla sua parte l'abisso e un carattere unico, per quanto a tratti prosecuzione del lavoro svolto da diamanda galas negli anni (la voce arriva spesso da lì, il trambusto emotivo pure così come molte tematiche dei testi, si ascolti ’sorrow! sorow! sorrow!’).

‘caligula’ arriva a due anni da ‘let the evil of his own lips cover him’ e ‘all bitches die’, episodi già notevoli ma che lasciavano ampi margini di miglioramento (già incredibili e massacranti invece le esibizioni live).
qui c’è più focus che nelle uscite precedenti, c’è più elaborazione, molta più stratificazione sonora e un’ispirazione solida e più in controllo, sia timbrico che strutturale; soprattutto c’è una maggiore confidenza col materiale che rielabora minimalismo, black metal, avanguardie del primo novecento, doom, folk, cantautorato, ambient, teatro, noise e drone.
l’iniziale ‘faithful servant friend of christ’ mette in chiaro il cambio di rotta: c’è più pienezza nelle tessiture e nei timbri, c’è un gioco di armonie vocali pagane (una sontuosità che spesso riporta a rituali da chiesa ortodossa e in generale riferimenti all’est europeo che talvolta sembrano arrivare da bartok), tutto sorretto da un drone vibrante e dalle ondate degli archi.
il capolavoro del disco si chiama ‘do you doubt me traitor’ ed è il secondo pezzo. nei suoi 9 minuti e mezzo è racchiusa tutta l’estetica del progetto lingua ignota: dolore, magniloquenza, disperazione, distorsione e un testo che ha la ferocia di un animale gravemente ferito (“bitch, i smell you bleeding/and i know where you sleep/do you doubt me traitor?/throw your body in the fucking river”), tutto steso su una struttura cangiante con un finale giocato sulle armonie vocali che è semplicemente da brividi.
'butcher of the world' spinge sull’epicità, cori, organo e un’esplosione che sta tra il black metal, l’ambient e i dead can dance in un perfetto gioco di pieni e vuoti; l’uso degli accordi mostra quel controllo di cui parlavo, con minuscole oasi maggiori calibrate alla perfezione (una cosa un po’ alla trent reznor volendo, altra ombra che ogni tanto compare soprattutto nelle scelte armoniche).
la già citata ’sorrow! sorow! sorrow!’ è una landa desolata in cui i vocalizzi guidano verso la tensione circolare di ‘spite alone holds me aloft’ che si apre in un ambient/black metal lontano quanto disperato per poi finalmente esplodere epica e gigantesca e risolvere le tensioni in un altro vortice di voci.

ci sono momenti celestiali in mezzo ai brani in cui hayter gioca con armonie vocali sbilenche, un tocco di lisa gerrard (in paranoia sotto anfetamina) che talvolta affiora a rischiarare la quasi totale oscurità regnante. il finale di ‘fragant is my many flower’d crown’ è emblematico in questo senso, così come il contrasto con l’esplosione drone della successiva ‘if the poison won’t take you my dogs will’ che a tratti pare kate bush (o tori amos?) che fa una cover da ‘the drift’ di scott walker (sempre sia benedetto).
nonostante il rumore e l’abrasività, c’è una grande attenzione alla melodia come contrasto alle parti più urlate, una contrapposizione che risulta efficace lungo tutto il disco (sfruttata anche dal vivo con l’allucinata cover di ‘jolene’ di dolly parton).
c’è dinamicità nei pezzi: per quanto gli espedienti si basino molto spesso sul contrasto dinamico, le timbriche cambiano, ci sono pianoforte, organo, clavicembalo, archi oltre all’arsenale di effettistica e momenti più “canonici” con anche una batteria, prestata da lee buford dei the body. 
altri ospiti sono sam mckinlay (fautore di un noise estremo) e le voci di dylan walker (full of hell), mike brendan (uniform) e noraa kaplan (visibilities), gente che negli ultimi anni ha pubblicato materiale estremo tra il migliore in circolazione, senza dimenticare l’ingegnere seth manchester che ha guidato hayter durante le registrazioni con tecniche alternative e fonti sonore tra le più disparate.

le esplosioni finali di ‘i am the beast’ scaricano tutta la tensione in un mare di suoni dal volume catartico prima di congedarsi con una cadenza maggiore. insomma, ‘caligula’ è un’opera in cui kristin hayter compie un altro passo verso la maturità artistica, sacrificando forse un po’ di istinto omicida nel nome di un controllo (sovra)strutturale che l’ha portata a un disco potente, profondo, ricercato e intelligente ma anche sincero, mai freddo e dallo spiccato carattere. 
applausi a scena aperta, mi tolgo il cappello di fronte a tanta maestria, un altro candidato al titolo dell'anno.


mercoledì 17 luglio 2019

napalm death, 'scum'



grindcore. che bella parola. come ti riempie la bocca quando la pronunci. grindcore. che bello. e chi è responsabile per questa cosa bellissima? un po’ di persone, un giro di musicisti inglesi che hanno quasi tutti fatto parte in qualche momento dei napalm death. e quindi gioia e gaudio, viva i napalm death e viva ‘scum’.

che poi quando è uscito 'scum' chi erano i napalm death? questa è una storia interessante. a studiare un po’ si viene a sapere che i fondatori del gruppo nel 1981 furono nic bullen e miles ratledge ma se il primo ha effettivamente suonato su ‘scum’, il secondo ha lasciato il gruppo nell’85 prima delle registrazioni (squisitamente orrende) della prima facciata dell’album. però, a ben vedere, anche nic bullen ha abbandonato nell’86 e infatti non suona sulla seconda facciata. questo fa sì che i napalm death siano un gruppo che quando ha pubblicato il suo album d’esordio (1 luglio 1987) non aveva neanche un membro originale in formazione ed era stato “ereditato” da mick harris.
la seconda facciata è infatti registrata, ancora peggio, da una formazione completamente diversa. tempo di un disco e un ep e la formazione che registrerà ‘harmony corruption’ nel 1990 sarà ancora una volta completamente diversa (salvo mick harris) ma sarà la base per il gruppo che ancora suona oggi.
ma torniamo a ‘scum’, si diceva di due sessioni di registrazione: alla prima, nell’agosto ’86, partecipano nic bullen (voce e basso), justin broadrick (chitarra) e mick harris (batteria) mentre per la seconda resta harris ma arrivano jim whitley (basso), bill steer (chitarra) e lee dorrian (basso). i più attenti noteranno che questi non sono nomi da poco: lee dorrian fonderà i cathedral e diventerà un profeta del doom, justin broadrick coi godflesh farà un gran casino, bill steer suonava già anche nei carcass e continuerà a farlo (altra gioia, altro gaudio), bullen si riunirà a harris nei pazzeschi scorn e collaborerà con bill laswell e tanta altra bella gente mentre whitley invece si darà all’hardcore. in qualche modo, ognuno dei gruppi citati porta dentro di sé qualcosa di ‘scum’.

cos’è il grindcore? per l’orecchio casuale è casino e poco più. vogliamo dirla tutta? anche per l’orecchio attento ed esperto a volte è casino a cazzo di cane, c’è però un ma: il grindcore, in un eterno gioco di rimbalzi da una parte all’altra dell’oceano (rock n roll>british invasion>rock>punk>hardcore>metal>thrash>grindcore), arriva dall’hardcore e quindi dal punk e ne mantiene sia l’etica che parte dell’estetica sonora, dando ben poca importanza (almeno alla nascita del genere) alla tecnica strumentale. di fatto poi il genere si dividerà in due filoni, uno più “conservatore” (quanto fa ridere?) che continua a guardare a ‘scum’ come faro nella notte, l’altro più moderno e più vicino al metal (death in particolare), quindi più tecnico e serrato (per fare un esempio, i compianti nasum sono tra i migliori di questo filone).
grindcore è velocità esasperata, distorsione iper-satura, voce da sturalavandino e basso più lercio possibile. è la versione estrema dell’hardcore filtrato dalle chitarre ribassate e la velocità del metal americano, in pratica è una delle cose più feroci, sporche e e maleducate che possiate ascoltare. no, non è per tutti.

vi potrei parlare di tutte le canzoni ma non lo farò per due motivi: 1) sarebbe inutile, sono più o meno tutte uguali 2) la durata dei pezzi del disco va da un secondo a un paio di minuti, ‘scum’ ne ha 28.
prima di venire al capolavoro che da solo può rappresentare non solo tutto il disco ma un intero genere, cito quel paio di momenti diversi che ci sono: ‘multinational corporations’ apre il disco senza blast beat ma con un marasma infernale di distorsioni, piatti e voce ragliata, un inizio epocale; ‘siege of power’ azzarda una forma canzone e quasi tocca i 4 minuti, è il pezzo più lungo del disco e pure del disco successivo; in generale si nota la differenza di suono tra le due facciate: la prima suona da schifo mentre la seconda suona di merda. sottili differenze.
blablabla, basta stronzate, ‘you suffer’. ‘you suffer’ è l’emblema, è la punta di diamante, è la summa dell’intero universo grindcore, passato, presente e futuro. chi la conosce magari pensa che stia scherzando ma in questo caso sono serissimo: è raro che una canzone da sola sia così rappresentativa di un genere, ancora più raro che questa si trovi sul primo disco di un gruppo che di fatto inventa il genere stesso. il rock aveva canzoni di 3-4 minuti, il punk di 2-3, l’hardcore di 1-2, ‘you suffer’ dura 1 secondo e 316 millesimi (guinness per la canzone più breve di sempre), è l’ultimo passo prima del nulla. non solo, la musica fin dal folk e blues ha trattato di sofferenza, cercandone le ragioni, cercando di esorcizzarla, rigirandosela tra le mani; il punk ha trattato il disagio sociale, l’hardcore si è chiuso nella solitaria sofferenza apatica, il metal ha flirtato con la sofferenza fisica; il testo di ‘you suffer’ recita: “you suffer, but why?”. esiste sintesi migliore? probabilmente sì ma a noi piace questa.
ad onor di cronaca bisogna ricordare che, almeno secondo bullen, il pezzo è nato come scherzo e talvolta veniva suonato anche 30 volte a sera. qualcuno potrebbe dirmi che sto costruendo castelli su una stronzata ma di fatto che la cosa sia intenzionale o meno non cambia l’importanza della canzone se inquadrata in un certo modo. 
(poi certo, è ‘you suffer’, l’ho avuta come sveglia per anni, la sentivo 20 volte ogni mattina aprendo gli occhi, è comunque uno scherzo che fa sempre ridere e se non è la mia canzone preferita di sempre poco ci manca.)

gli stessi napalm death hanno lasciato presto queste coordinate: il seguente ‘from enslavement to obliteration’ ricalcherà le orme di ‘scum’ ma ‘harmony corruption’ vedrà l’ingresso di mitch harris, jesse pintado, shane embury e barney greenway, iniettando una massiccia dose di death metal nella musica e dando vita al gruppo che ancora oggi devasta i palchi di tutto il mondo con concerti violentissimi. ‘scum’ però rimane una pietra miliare del rock, contemporaneamente punto di partenza e di arrivo, istantanea perfetta del collasso di una via del rock su sé stessa (l’altra via collasserà di lì a poco con fugazi, slint e compagnia destrutturante, senza dimenticare i talk talk. MAI dimenticare i talk talk.).
è anche il disco che potete usare in qualsiasi momento del giorno e della notte per dare fastidio a chiunque abbiate attorno, valore da non sottovalutare.

piaccia o meno, ‘scum’ è un capolavoro scolpito nella pietra, è l’apice di un certo modo di intendere la musica: pura aggressione frontale, senza fronzoli e orpelli, veicolo anche per un messaggio politico legato alla sinistra più battagliera e radicale (molti musicisti grind sono anche diventati straight edge nel tempo, altro evidente legame con l’hardcore). in quei giorni in cui volete solo vedere il mondo bruciare, mettete ‘scum’ a volume smodato e il mondo vi sorriderà. 

giovedì 11 luglio 2019

2019: classifica di metà anno


rapido riassunto delle figate a metà anno in ordine crescenzo. pettoruto. (cit. per i più colti fra voi)
si attende con ansia il nuovo tropical fuck storm e in realtà poco altro che io sappia, a meno di altre sorprese che si spera piovano come i meteoriti in armageddon. del resto pare che l’anno prossimo arrivi un nuovo mars volta per cui il primo posto del 2020 probabilmente è già prenotato, vediamo di divertirci intanto che possiamo.

5. santana, ‘africa speaks’
più lo ascolto più mi diverto, il baffetto messicano rialza la testa e tira fuori il suo miglior disco da anni e anni e anni. e anni. mamma africa gli dona nuova vita e fa vibrare tutti i pezzi del disco, finalmente suonati da una band e non da un gruppo di turnisti.

4.claypool lennon delirium, ‘south of reality’
la coppia più improbabile di sempre migliora il tiro e regala un’oretta scarsa di spettacolare rock/prog/psych/pop/jazz e quant’altro. ci sono i primus, ci sono i beatles, ci sono i pink floyd, i king crimson, un sacco di basso bellissimo e tutto quello che volete, belli e bravi. straconsigliati i live su youtube.

3.sunn o))), ‘life metal'
l’ho detto che non ci speravo, e invece stronzo io. loro fanno rumore come sempre ma un po’ meglio, gli ospiti gli girano attorno e steve albini fa la sua cazzo di magia che sa solo lui come e quindi suona tutto da paura, se alzate un po’ il volume tremano i muri.

2.full of hell, ‘weeping choir’
loro non hanno praticamente mai sbagliato e ogni volta continuano a superarsi. ‘weeping choir’ è un concentrato di schifume, orridezza, merdazza e tutto il rock più estremo e oltranzista che possiate immaginare, tutto frullato direttamente nelle vostre orecchie. eroi.

1.black midi, ‘schlagenheim’
quattro ragazzini inglesi saltano fuori e spazzano via la concorrenza con un disco fantastico e (quasi) inattaccabile che mette insieme math, prog, decostruzione da primi ’90 con uno spirito indie che permea i suoni delle canzoni. i margini di miglioramento promettono cose bellissime in futuro, staremo a vedere.

martedì 9 luglio 2019

il fondo del barile #1: baroness, "gold and grey"



nuova rubrica qui al quartier generale dzw: ‘il fondo del barile’ comparirà ogni tanto, quando ne avrò voglia, per parlarvi malissimo di dischi brutti. in genere tendo ad evitarli, di solito sono solo noiosi, ma ogni tanto ne esce uno su cui vale la pena spendere due parole. come, ad esempio, il nuovo dei baroness.

‘gold and grey’ dei baroness è perfetto nel rappresentare il gruppo che l’ha prodotto: scritto male, suonato in maniera mediocre, cantato malissimo, prodotto col culo, registrato in maniera oscena e con un mastering che definire amatoriale è un eufemismo. è quasi sicuramente il disco più brutto che possiate sentire nel 2019, non ché uno dei più brutti che abbia sentito negli ultimi anni, praticamente una merda senza alcuna speranza di salvezza.
ma scendiamo nei particolari.

i baroness sono nati come brutta copia dei mastodon e già facevano schifo, poi sono peggiorati vertiginosamente (più o meno come i mastodon stessi). questa è la parte biografica, ora ascolto il disco.

quando premo play la prima cosa che mi salta all’orecchio è la qualità audio: la compressione è tale da radere al suolo ogni parvenza di dinamica, la batteria è sotto una schiacciasassi, non ha botta, ha un suono orrendo, le chitarre sembrano registrate con un registratore della barbie. sul serio, è uno dei dischi coi peggiori suoni che abbia sentito nella vita. fa schifo, sì, ma nulla in confronto a quando compaiono le voci: molli, mediamente stonate, prive di qualsivoglia carattere, non provano nemmeno a fare delle linee melodiche, sono lagne monotone affogate nel riverbero che si trascinano su un mare caotico di suoni confusi e brutti. a metà del primo pezzo le orecchie sono già stanche, grazie al mastering da asilo di cui sopra.

“i’m already gone” sembra quasi uno scarto dei paradise lost di fine ’90, l’arrangiamento è... boh, squallido, c’è una linea che separa il semplice dal banale, non sto a dirvi da che parte stanno i baroness. c’è un riciclo di riff e idee che è sconfortante, sembra di sentire un gruppetto emo-punk che cerca la potenza del metal senza avere alcun controllo del proprio suono, cercano la “raffinatezza” ma hanno la classe di un orinatoio del gods of metal. 
“seasons” è la stessa canzone ripetuta una seconda volta ma un po’ peggio, con un ritornello che sa di vichinghi ubriachi e metallari liceali.
“sevens” è l’intermezzo più inutile che possiate immaginare, fuori contesto e di una banalità agghiacciante ma almeno non distorce per due minuti.
“tourniquet” è un passo oltre: l’intro acustica mette in bella mostra lo strazio vocale, poi cambia in un riff che non c’entra un cazzo di niente, la voce si lamenta come in un gruppo emo di metà 2000, poi rubano della roba ai coldplay (non so se mi spiego); in tutto questo la batteria è suonata col culo, non ha groove, non ha botta e si perde pure qualche colpo per strada, non aiutata da un mix che tiene cassa e rullante in faccia e gli altri fusti nel bagno di fianco. 
 l’intermezzo “anchor’s lament” è pertinente quanto una mattonella di lardo a una cena vegetariana.
quando inizia “throw me an anchor” speri che stiano scherzando; l’introduzione è di un brutto indescrivibile, quando poi parte il pezzo è ancora peggio, con un ritornello vomitevole che sa di arena rock americano ma di quello che manco i 30 seconds to mars, che almeno qualche ritornello buono l’hanno scritto; non è che si rasenta il ridicolo, sono veramente scoppiato a ridere, pare la colonna sonora di un teen movie anni ’90 fatta da bon jovi in eroina, però registrato male su videocassetta e il suono è tutto rovinato. invece l’hanno fatto apposta. rock.

arrivato a questo punto del disco mi rendo conto che non è ancora successo assolutamente niente, i baroness fin qui sono riusciti a non dire niente e a farlo pure male.
“i’d do anything” è una deliziosa ballata cantata da un punk sordo. no, dai, non è vero. non è deliziosa, manco per il cazzo, ancora una volta suona squallidamente emo con un arrangiamento che la rende completamente avulsa dal contesto. sempre che esista un contesto, inizio a chiedermi. “blankets of ash” mi risponde con glitch digitali, una chitarra acustica e dei cori. ok, no, non c’è alcun contesto, non c’è alcun filo logico. “emmett” è un tripudio di pessimi effetti sonori pacchiani e un coro che vagamente forse da qualche parte vorrebbe ricordare townsend ma forse vuole solo suonare sontuoso e invece fa ridere, enfasi drammatica in un disco registrato in cantina.
se conoscete gli anathema, “cold-blooded angels” l’avete già sentita circa 153 volte, solo fatta molto meglio di così. poi, all’improvviso, esplode. non me lo sarei mai aspettato, wow, che sorpresa, è diventata esattamente come TUTTE LE ALTRE CANZONI DEL DISCO. in compenso scompare improvvisamente il volume, “effetto dinamico”. io lo chiamo più mastering a cazzo di cane, vi lascio qui una foto delle onde dei pezzi, giudicate voi.

"ehi, questo gruppo non ha dinamica, comprimiamo tutto
e abbassiamo il volume, vedrai che figata."

mi mancano 20 minuti, mi sto trascinando per arrivare alla fine ma ce la devo fare, è una questione di principio.
“crooked mile” è un altro intermezzo inutile, “broken halo” parte con un merdone di batteria (per esecuzione, intenzione e suono), poi è ovviamente uguale a tutte le altre, melodia lagnosa, chitarre inutili che ogni tanto provano a fare un riff, batteria zoppicante, suoni osceni. mi rendo conto che questo track-by-track è un po’ tutto uguale ma... cosa dovrei dire di un disco in cui non succede mai niente? qui si aggiungono delle brutte tastiere anni ’90.
poi che è, vogliamo farci mancare un altro intermezzo? diciamola tutta, “can oscura” è il pezzo meno peggio del disco, due minuti di batteria con delay e suoni stronzi su pedale di basso, inutile e suona molto male ma è senza dubbio l’unico momento passabile dell’album. poi ci pensa “borderlines” a riportarci alla realtà, coi suoi 6 minuti di melodie ridicole, batteria molle, chitarre che clippano continuamente, soluzioni armoniche trite e ritrite e idee che si fanno dimenticare due secondi dopo l’ascolto, tra cui un mezzo plagio di “detroit rock city”. verso la fine c’è uno stacco che non farebbe schifo se la batteria non zoppicasse, poi si finisce con dei banalissimi suonini di chitarra “post-rock”.
ce l’ho quasi fatta; per fortuna “assault on east falls” è un altro intermezzo inutile, questa volta di soli synth ed effetti, ancora una volta non c’entra assolutamente NIENTE col resto del disco ma almeno non è cantato e non clippa. poi è roba che dopo il ’70 suonava già vecchia, questa è un’altra questione, così come il tirare in ballo i tangerine dream in un disco emo-punk-pop-teen-metal.
per punizione, “pale sun” mi accoglie con un bel coro, una batteria stortina che cerca il groove in maniera impacciata e di nuovo quei vomitevoli suonini “post” stantii e riciclati, per non parlare degli ennesimi arpeggi rubacchiati un po’ qua e un po’ là (molto classic rock americano, ogni tanto del metal, a volte qualcosa di prog per sentito dire). è una traccia che prova a sperimentare, peccato che quello che fa l’abbiamo già sentito tutto tra il ’95 e il 2005. e viste le portentose capacità vocali del gruppo, è giusto che sia proprio la voce a chiudere “gold and grey”.

non so bene come ho fatto ma ce l’ho fatta.
questo disco non è solo brutto, è un disco sintomatico di questo momento musicale: sembra il disco di un politico, parla per un’ora senza mai smettere e non dice niente. la sua non è innocuità, è attiva inutilità e per certi versi è pericolosa: l’ascoltatore con poco bagaglio può pensare che questi si siano inventati qualcosa, che siano un gruppo “moderno” e originale e potrebbe usarli come metro di giudizio, senza rendersi conto che quelli da cui i baroness copiano già copiavano pesantemente a loro volta.
quanto al suono, anche questo è un aspetto che andrebbe analizzato: quanto le loudness wars hanno influito sugli ascoltatori? in quanti si renderanno conto degli errori clamorosi commessi in fase di mix e master? pochi probabilmente, viste le recensioni che si leggono in giro, ma qui non si parla di gusti, qui si parla di errori tecnici e di musica semplicemente fatta male, con poca padronanza dei propri mezzi e un’idea alla base estremamente povera. certo, non tutti sono musicisti o fonici o tecnici della musica ma mi chiedo se veramente il pubblico possa apprezzare un prodotto che suona così male o se siano solo i recensori al servizio delle etichette che provano a venderlo.

la definizione di merda è “scarto”, quello che non serve o fa male viene buttato fuori. 
non vedo definizione migliore per “gold and grey”.