domenica 29 marzo 2020

rush, 'exit... stage left'


secondo i rush, la sequenza 4 dischi-1 live è stata una cosa assolutamente casuale; possibile, sta di fatto che il ciclo si è ripetuto 4 volte senza interruzione ed ogni volta ha significato un cambio di pagina per il suono del gruppo. 
‘exit... stage left’ chiude la fase più propriamente progressive e ne abbraccia il repertorio in un doppio album (in vinile, singolo in cd) che è un vero e proprio manuale di come si suona il progressive, oltre ad essere semplicemente uno dei live più belli della storia del rock.ogni singolo pezzo vive una nuova vita, ognuno elevato dall’esecuzione live a un nuovo livello ancora più alto e incredibile: tutte le versioni contenute qui sono ancora meglio delle rispettive versioni in studio, senza eccezione alcuna. 

‘the spirit of radio’ perde la patina e apre le danze mettendo in chiaro lo stato di forma assoluto del gruppo, marcato dalla pazzesca coesione di gruppo sui cambi di tempo e velocità, seguita da ‘red barchetta’ che qui va ancora più in profondità con le sue atmosfere sospese ma ruggenti. gli unici due pezzi più vecchi non hanno più nulla del grezzume di una volta, ‘a passage to bagkok’ e ‘beneath, between and behind’ sono inserite nel nuovo contesto con grande maestria e non stonano affatto ma il piatto forte è rappresentato soprattutto da ‘jacob’s ladder’, ‘xanadu’ e ‘la villa strangiato’, apici emotivi e strumentali eseguiti con un trasporto che lascia interdetti. negli anni ho sentito tanti musicisti dire che si ha davvero tecnica quando non si deve più pensare alla tecnica, mi vengono in mente pochi esempi più lampanti di questi brani: le acrobazie musicali vengono eseguite con una naturalezza disarmante che ne camuffa la complessità, creando un flusso che non si inceppa mai.ho già parlato di tutti i brani parlando dei rispettivi dischi, resta solo da dire che la vertiginosa ‘yyz’ qui include anche l'assolo di batteria di neil che evolve la sua composizione ulteriormente, introducendo passaggi melodici con percussioni e suoni che resteranno nel brano fino alla fine del gruppo.

tanto per essere pignoli, bisogna ricordare che alcune voci di geddy sono state sovraincise in studio; per quanto mi riguarda poco male, non è mai stato il miglior cantante del mondo e il lavoro in studio (non si sa di preciso quanto sia stato ritoccato) non risulta mai posticcio per cui non ci sono problemi al riguardo. ‘exit... stage left’ è uno dei migliori dischi live mai pubblicati, fotografia di un gruppo al top della forma e del repertorio, forte di un’alchimia unica e suonato da tre musicisti la cui testardaggine ha pagato, lasciandogli modo di fare quello che vogliono, come voglio e quando vogliono. è un trionfo ed è quasi sicuramente il punto migliore per iniziare a scoprire i rush.

domenica 22 marzo 2020

rush, 'moving pictures'



tra i dischi più amati dei rush, ‘moving pictures’ ha un ruolo tutto suo. gran parte del merito per il suo strepitoso successo va ricondotta a un brano in particolare, ‘tom sawyer’, bandiera del suono rush e perfetta sintesi delle varie parti che lo compongono. curioso il confronto con il disco precedente: tre capolavori e un pezzo bellissimo sostengono da soli l’album, rendendolo meno valido mediamente a livello di qualità delle composizioni ma il suo suono cristallino (ancora il le studio, il suono di batteria in particolare è un capolavoro a sé), la sua forma perfetta e quei tre pezzi posti in apertura lo rendono sicuramente il disco più amato tra i fan del gruppo (non per me perché sono stronzo, of course).

‘tom sawyer’, dicevamo. e cosa dovrei dirvi? fonte eterna di ispirazione per legioni di musicisti, copiata, adulata e anche presa in giro in decine di modi (epocale lo sketch di south park https://www.youtube.com/watch?v=JcyqIA2eJww
che la introduceva nel tour del trentennale), è una canzone perfetta in cui il trio convive con i synth in un modo completamente diverso dal progressive classico, suonando moderni e freschi senza essere artefatti o artistoidi e restando fedeli a se stessi, un tema trattato a fondo e in modo estremamente personale ed intelligente nel famosissimo testo di peart.
‘red barchetta’ non è da meno, da nessun punto di vista: il testo, basato sul breve racconto distopico “a nice morning drive” di richard foster, racconta di una gara in macchina in un futuro in cui i motori a combustione sono proibiti, nascondendo un sottotesto critico in cui peart prende di mira l’eccessivo potere in mano a pochi. musicalmente, il viaggio narrato si traduce in viaggio musicale, con una struttura cangiante e dinamica che segue il racconto passo per passo, un capolavoro che mostra la coesione inarrivabile dei rush e la loro creatività nell’arrangiamento.
sapete come scovare un fan dei rush in mezzo ad un ristorante pieno? picchiettate su un bicchiere l’inizio di ‘yyz’, l’effetto sarà come ‘ammazza la vecchia’ per roger rabbit. qualunque musicista prog di oggi sogna ancora di scrivere un pezzo del genere e sono passati quasi 40 anni dalla sua pubblicazione, giusto per ribadire la modernità strabiliante di questa musica. ‘yyz’ è uno strumentale che parte dal codice morse di riconoscimento dell’aeroporto di toronto e costruisce su una serie di riff epocali di alex. la prestazione strumentale è come sempre a livelli più che altissimi, in particolare geddy al basso non si risparmia un attimo e traina tutti dietro di lui.
e che dire di ‘limelight’, un brano che si interroga sul significato della fama e su come reagire ad essa, sostenuto da un hard rock pieno di cambi e tempi dispari subdoli, graziato da uno strepitoso assolo di alex nella parte centrale.

non è che la seconda facciata sia brutta, però ovviamente dopo tanta grazia è dura mantenere il livello e infatti si scende un pochino, pur restando molto in alto: ‘the camera eye’ sfrutta i suoi 11 minuti di durata per evolversi aggressivamente con bellissime linee di chitarra, ‘witch hunt’ si incattivisce ancora di più e si avvolge in un manto epico e gotico mentre ‘vital signs’, il pezzo più debole del disco, punta già al futuro e avrebbe potuto essere pubblicata su ‘signals’. a questo proposito è da notare come nella seconda parte del disco i rush  approfondiscano ulteriormente la simbiosi con i synth, rendendoli protagonisti delle canzoni e anticipando il metodo compositivo che caratterizzerà tutti gli anni ’80 del gruppo.

‘moving pictures’ ha tutti i suoi buoni motivi per essere uno dei dischi più amati dei rush, una manciata di canzoni iconiche, un suono potente e cristallino, una produzione perfetta e pure una bellissima copertina, il pacchetto è a dire poco perfetto e non sono in pochi gli ascoltatori ad accorgersene. il loro disco migliore? forse sì, forse no, in fondo chissenefrega.

giovedì 19 marzo 2020

today is the day, 'no good to anyone'


una delle cose più belle di ‘no good to anyone’ è che conferma il fatto che i today is the day sono entrati in una nuova fase: ‘animal mother’ prometteva ma non era del tutto compiuto mentre i tre dischi prima risentivano di una poca necessità, per quanto mai brutti nessuno dei tre riusciva ad essere veramente incisivo, ognuno per motivi diversi.
‘no good to anyone’ è incisivo.

le premesse per il disco sono le seguenti: nel 2014 il furgoncino di austin viene travolto da un veicolo fuori controllo che lo ribalta e lo manda fuori strada, frantumandogli un numero non indifferente di ossa. durante la convalescenza, il suo amato cane di tre anni si becca il morbo di lyme e viene soppresso, non prima di aver trasmesso la malattia a steve che passa i mesi seguenti all’inferno. questo disco è la conseguenza.

a un primo impatto ‘no good to anyone’ è un disco molto strano. scuro, emotivo, rabbioso, tutto questo non sorprende certo, quello che sorprende è un equilibrio perenne fra accettazione e rassegnazione, tra l’essere sopraffatti dalla vita a l’aver accettato ciò che di buono si può trovare in essa. i momenti lirici più limpidi parlano di amore, amicizia e necessità e sembrano davvero fare la parte dei punti fermi in mezzo alla rabbia e alla foga. che poi, foga. ci sono momenti col sangue agli occhi e sono ovviamente tra i migliori ma non aspettatevi la schizofrenia di ‘willpower’, gli assalti di ‘in the eyes of god’ o le bordate di rumore infernale di ‘sadness’, quella guerra è finita anni fa, non sarebbe sincero riproporla e se c’è una cosa di steve austin su cui non si è mai potuto discutere, questa è la sua sincerità artistica.

quello su cui si può discutere, soprattutto negli ultimi 15-20 anni, è la sua scelta dei musicisti che lo accompagnano. non sto a girare in tondo, in questo caso mi riferisco soprattutto al batterista tom bennett che, in più momenti, mina il flusso dei pezzi con una prestazione a dir poco mediocre (la pessima doppia cassa in ‘son of man’ o ‘you’re all gonna die’ ne è prova piuttosto evidente ma gli inciampi sono un po’ ovunque).

l’inizio dell’album è pazzesco.
come molti altri dischi prima di lui, ‘no good to anyone’ ha la fortuna/sfortuna di aprirsi col pezzo migliore dell’album, la stupefacente title-track, un misto di paranoia crescente in cui chitarre e synth dipingono uno scenario desolante su cui la voce di austin canta una melodia (!) lontana e sfibrata prima che un crescendo digrigni i denti per poi esplodere in un’onda ai limiti del black metal che spazza tutto. e quando è la voce di steve austin a squarciarsi urlando “i hate everyone”, per una volta possiamo crederci, al contrario di tante altre.
‘attacked by angels’ è meravigliosa, riporta ai primi tre dischi del gruppo con un 5/8 sbiellato cavalcato dagli arpeggi paranoici della chitarra di austin prima che un break pesantissimo porti fino alla fine del pezzo tra stacchi e melodie angoscianti. in modo simile ‘son of man’ rotola addosso all’ascoltatore prima di un’apertura con chitarre fragorose e un synth raggelante che ondeggia sul tappeto di doppia cassa, è la visione psichedelica di austin, un muro di suoni che stordisce e disorienta.

‘burn in hell’ propone un hard rock settantiano che ricorda ‘pain is a warning’ ma finisce con il minuto più parossistico del disco, l’unico momento in cui si palesano (nella forma) i vecchi today is the day. si muove su binari simili anche ‘mercy’ che si chiude con un riffazzo seventies e austin che ci urla sopra; ‘cocobolo’ sembra cercare riparo con strofe di basso e batteria in mezzo alle chitarre sferraglianti del ritornello.
‘callie’ è quasi tenera, un’oasi di placida positività che si tende solo nel finale senza sfogo, quasi per imposizione, un momento struggente dedicato al povero cane deceduto (il testo nella sua semplicità è commovente). in mezzo al brano viene da chiedersi se si stia ascoltando lo stesso disco. ‘oj kush’ ci ricorda che sì, sono i today is the day, un’aggressione tutta sbilenca come ai bei tempi.
‘born in blood’ riporta in primo piano la tensione psicotica, andando ancora a riprendere l’instabilità sonora dei primi album, mettendo in secondo piano l’impatto per puntare più sullo sfinimento e ‘mexico’ non va lontano, lasciando covare la rabbia sotto a strati di chitarre assordanti su una ritmica inarrestabile ma aperta e piuttosto seduta, bellissime le melodie vocali catatoniche e trasandate.
il finale è affidato a ‘rockets and dreams’ che, come atmosfera, fa coppia con ‘callie’ con un suono acustico, riverberato e desolante.

mix e mastering dell’album sono ad opera di austin come (quasi) sempre e sono una questione strana: i suoni presi singolarmente sono belli, soprattutto le chitarre (grazie al cazzo), pieni e risonanti; manca forse un pochino di impasto, è tutto molto separato ma il carattere dei singoli strumenti crea l’atmosfera da solo per cui non sembra che manchi nulla, è solo strano e spiazzante. il livello di compressione è ottimale per un disco di questo genere e non distrugge i timpani più del dovuto. 
(nerd alert, mix e mastering sono stati fatti con harrison mixbus 32c, un daw che simula tutta la circuiteria di un banco analogico harrison 32c con controlli di saturazione che imitano l’effetto del nastro, molto consigliato se siete smanettoni)

allora, i capolavori dei today is the day restano altri (‘willpower’, ‘temple’, ‘sadness’) e quei tempi sono lontani, non tanto per la qualità delle composizioni quanto per l’istinto omicida e la sovversione sonora. ciononostante, ci troviamo di fronte a quello che è probabilmente il loro (suo) miglior disco da ‘axis of eden’ (sottovalutato), se non altro per la voglia di rinnovamento e la capacità dei pezzi di lasciare un segno. potrebbe addirittura essere un buon punto d’ingresso se non avete mai avuto a che fare con l’inferno sonoro di austin, presentando più melodia e meno massacro rispetto al passato.
ad ogni modo discone, speriamo primo di una nuova serie.


domenica 15 marzo 2020

rush, 'permanent waves'



dopo aver registrato un capolavoro, esistono due vie: o si cerca di replicarlo o si va in tutt’altra direzione. tentare di replicarlo vuol dire rinunciare all’evoluzione per tentare un manierismo (che può comunque essere ottimo), cambiare direzione è prova di coraggio, intelligenza e coerenza artistica. provate a indovinare che strada hanno scelto i rush dopo ‘hemispheres’.
il tour concluso è stato un successo, finalmente il gruppo ha stabilità economica, i fan continuano ad aumentare e la casa discografica li lascia fare quello che vogliono. curiosamente, appena questo succede, il gruppo decide di spostare le coordinate sonore verso brani più brevi, più semplici e più efficaci melodicamente. più commerciali? quella è solo una conseguenza. l’intento del gruppo era di allontanarsi da ciò che avevano già fatto: invece che mettere insieme frammenti per comporre una suite, i rush scelgono di elaborare ognuno di questi frammenti e di farne canzoni, con un’unica e precisa idea alla base ed uno svolgimento strutturale più canonico.

le registrazioni del disco furono a dir poco tranquille ed agiate: dopo sei settimane di vacanza dopo la fine del tour, viene deciso niente più galles, il gruppo con terry brown si rifugia al le studio di morin heights nel quebec, quindi a pochi chilometri da casa. per farvi capire il livello, a poca distanza dallo studio uno chef parigino aveva il suo ristorante e il gruppo poteva farsi consegnare ogni pasto a domicilio; inoltre si erano costruiti in giardino un campo da pallavolo con tanto di riflettori per le partite notturne. lavoro, duro lavoro, sempre lavoro.

l’inizio non potrebbe essere più rappresentativo delle intenzioni del gruppo: ‘the spirit of radio’, uno dei loro classici più classici, è retto da un semplice (ma per niente facile da suonare) lick di chitarra con un suono vagamente alieno, un 4/4 su cui però geddy e neil incastrano una serie di obbligati infernali prima di cambiare tempo per poi arrivare all’apertura del tema e alla strofa. la melodia la fa da padrona ma l’arrangiamento è così studiato e perfetto da non far perdere neanche un grammo di attitudine prog, è un pezzo radiofonico e piacione ma tremendamente difficile e stronzo da suonare e queste sono le coordinate su cui più o meno si muoverà tutta la futura carriera del gruppo. colpiscono la modernità della musica (che d’ora in poi terrà molto più conto di ciò che succede nel mondo, new wave in particolare) e la precisione e pulizia della registrazione, per l’intenzione sembra di trovarsi di fronte a un gruppo rivoluzionato (shock che si riproporrà qualche anno più tardi con ‘signals’).
‘freewill’ è un altro classico tra i classici, un pezzo che, come espresso da peart nel bellissimo testo, non ha paura di cambiare e adattarsi al momento, tagliando misure, cambiando tempo e giocando di incastri strumentali ma senza mai dimenticare la melodia.
‘entre nous’ e ‘different strings’ sono più legate al passato, la prima rockeggiando mentre si interroga sulle relazioni interpersonali (un tema a cui è legato l’intero album) e la seconda rilassando i toni con una ballata che mostra le personalissime scelte di arrangiamento del gruppo, con una prova maiuscola di geddy al basso.

‘jacob’s ladder’ e ‘natural science’ sono forse gli ultimi brani propriamente progressive scritti dal gruppo e nessuno dei due tocca i 10 minuti di durata, ulteriore segno della nuova capacità di sintesi e focus del gruppo. ‘jacob’ è scritta durante i soundcheck di un breve tour di 4 settimane che il gruppo ha fatto appena prima di entrare in studio, è un pezzo fortemente atmosferico in cui tastiere e basso synth ricoprono un ruolo fondamentale; la struttura è data da due crescendo di gruppo, entrambi basati su tempi dispari e metriche composte dall’andamento largo.
‘natural science’ invece è puro progressive, uno dei pezzi più amati dai fan musicisti dei rush, 9 minuti di evoluzioni sonore, repentini cambi di tempo e tecnicismi mai fini a se stessi ma sempre legati al meraviglioso testo in cui peart si interroga sulla scienza e sulla natura dell’evoluzione. la prestazione di ogni singolo musicista è mostruosa ma in nessun momento si ha la sensazione che il brano sia un altro ‘exercise in self-indulgence’, la narrazione è lineare e cattura per la sua intensità, prima ancora che per le acrobazie strumentali.

‘permanent waves’ è una mirabile opera di sintesi e prova concreta della continua evoluzione della musica dei rush, un disco più maturo e curato che segna uno standard per il futuro e si pone come modello da superare per le creazioni successive. o forse, molto più semplicemente, un disco bellissimo da consumare a ripetizione.

domenica 8 marzo 2020

rush, 'hemispheres'



se le registrazioni di ‘a farewell to kings’ furono tranquille e idilliache, quelle di ‘hemispheres’ furono travagliate e segnate da vari problemi. il crescente interesse di geddy per le tastiere gli aveva fatto ordinare un’impalcatura che potesse contenere vari oberheim sincronizzati ma, quando il tutto arrivò ai rockfield studios, non funzionava niente; questo costrinse il gruppo a chiamare un tecnico e perdere qualche giorno per sistemare il problema.
un altro problema fu che i tre presero la composizione con molta calma e quando arrivò il momento di entrare in studio non erano ancora pronti. uno dei pezzi, ‘la villa strangiato’ (forse la miglior canzone di tutta la carriera), era uno strumentale di 10 minuti, talmente bastardo nella struttura e nei cambi e nelle dinamiche che il gruppo per due  settimane lavorò solo su questo, arrivando alla fine a registrarla live in una sola take. peart ha dichiarato che ci è voluto di più a registrare ‘la villa strangiato’ che l’intero disco ‘fly by night’.
un ulteriore problema arrivò da geddy, quando si rese conto che le composizioni finite stavano in una tonalità al di sopra delle sue possibilità vocali; questo fece sì che i giorni ai rockfield (10 settimane) finissero prima che la voce fosse pronta e le tracce vennero registrate all’advision di londra, prenotato da brown per il solo mix.
inoltre, essendo il gruppo a registrare nel vecchio continente, furono difficili le comunicazioni con hugh syme che contemporaneamente lavorava alla copertina; sebbene la stessa copertina sia diventata un simbolo del progressive, oggi l’artista la definisce “tecnicamente un abominio” e anche il gruppo non ne fu soddisfatto.

tutti questi problemi portarono a ‘hemispheres’ e verrebbe da pensare che quindi il disco abbia risentito del casino e delle tribolazioni del gruppo. forse sì, forse no, è difficile dirlo quando ci si trova davanti un capolavoro. già, perché nonostante tutto questo, ‘hemispheres’ per molti fan del gruppo (incluso il sottoscritto) è il miglior disco in studio della carriera dei rush. è uno di quei casi in cui la qualità del materiale e dell’esecuzione è tale da far dimenticare anche la presenza di un pezzo inferiore, la non memorabile ‘circumstances’ che comunque presenta una commistione linguistica nel ritornello, mostrando la grande creatività lirica di peart.
a leggere il titolo della suite ‘cygnus x-1 book ii: hemispheres’ viene naturale aspettarsi un seguito dell’avventura della navicella rocinante dal primo capitolo. in realtà quando il protagonista esce dal buco nero si ritrova sull’olimpo, nel mezzo di una guerra fra apollo e dioniso, una metafora mitologica sull’eterna lotta fra istinto e ragione che si risolve con l’intervento del protagonista come ‘dio dell’equilibrio’ tra le due parti. musicalmente è una suite in sei parti in cui ognuno dei tre musicisti brilla intensamente nella sua performance, dagli incastri melodico-ritmici di peart all’onnipresente basso di lee, ormai evoluto e unico nel suo modo di suonare, fino alle strepitose chitarre di lifeson che in questo periodo inizia a giocare seriamente con pedali ed effetti, soprattutto chorus. è un hard-prog fortemente evocativo ed epico e pressoché scevro di tastiere, se non nella prima parte di ‘bringer of balance’; i rush riescono a suonare musica complessa con un groove che trascina l’ascoltatore, oltre a farlo, a differenza del 99% dei gruppi prog, senza un tastierista in formazione. questo dà modo a lifeson di giocare con accordi, rivolti e sovraincisioni senza mai risultare eccessivo (fatto assai rimarchevole per un chitarrista in generale, figuriamoci per un chitarrista prog).

‘circumstances’ non è certo il pezzo migliore del disco ma non fa certo schifo, grazie soprattutto all’ispirata prestazione di lifeson e ad un paio di incastri felici di tutto il gruppo.
altra storia è ‘the trees’, un testo politico di peart basato su una metafora che vede gli aceri protestare contro le querce per la loro eccessiva altezza, la quale toglierebbe luce e vita agli alberi più bassi. l’introduzione acustica è idilliaca, l’hard rock che la segue convince ed esplode prima di gettarsi in una radura placida e rigogliosa di suoni che sfocia in un crescendo in 10/4 che sarebbe da insegnare in ogni singola scuola di musica.
e poi c’è ‘la villa strangiato’, ironicamente sottotitolata ‘an exercise in self-indulgence’. lifeson una volta ha detto, riguardo al gruppo: “individually we’re an ass, together we are a genius”. se c’è un pezzo che può riflettere le sue parole è proprio questo, una prova di gruppo che ha del soprannaturale per coesione, precisione ed intento collettivo, ‘la villa strangiato’ è un’opera unica ed irripetibile che divora e metabolizza 10 anni di progressive e li rielabora in una maniera tutta nuova e personale, infilando in mezzo citazioni da brani tedeschi (‘gute nacht, freunde’ nell’introduzione) e addirittura dai cartoni animati (‘powerhouse’ di raymond scott), rimarcando ancora una volta il fortissimo humor che ha sempre accompagnato i rush. i cambi di tempo non si contano, gli obbligati si susseguono senza sosta, un crescendo centrale in 7/8 lancia un assolo di lifeson che è pura e assoluta poesia strumentale, la spinta del basso di geddy non fa mai mancare la fisicità, neanche quando peart inizia a scomporre e a spostare gli accenti. è un lavoro di incastro e arrangiamento che richiede capacità ben al di sopra della norma solo per essere concepito e scritto, figuriamoci per essere suonato.

sono pochi i gruppi che avrebbero potuto scrivere e registrare un disco come ‘hemispheres’, tra questi pochi gruppi uno solo l’ha fatto al meglio e subito dopo è stato pronto per cambiare direzione.

domenica 1 marzo 2020

rush, 'a farewell to kings'



chiusa la prima fase, i rush entrano nel loro periodo d’oro. i quattro dischi che seguono ‘2112’ sono tutti perfetti, ognuno a modo suo, ognuno con le sue precise caratteristiche.
‘a farewell to kings’ è un disco serio in cui il classico humor del gruppo resta leggermente velato, forse per dimostrare dopo un disco ingombrante come ‘2112’ che il gruppo aveva ogni intenzione di fare sul serio. 
il livello è ancora più alto rispetto all’illustre predecessore, la qualità media si alza ulteriormente e i picchi diventano irraggiungibili: ‘xanadu’ e ‘cygnus x-1’ volano alto nelle intezioni, nell’esecuzione e negli arrangiamenti, si fanno più presenti chitarre a dodici corde e acustiche, le dinamiche si accentuano e il "suono rush” si fa concreto più che mai. 
per la prima volta il gruppo non ha l’acqua alla gola durante le registrazioni, i soldi non mancano e il tempo nemmeno per cui si prendono tre settimane chiusi con terry brown ai rockfield studios in galles e ne escono con un disco che lascia a bocca aperta.

‘a farewell to kings’ apre le danze proprio con una chitarra acustica, una bella introduzione di lifeson che esplode poi in accordi luminosi e aperti prima di tuffarsi nell’hard del pezzo vero e proprio, diviso in due da un assolo in 7/8 in cui il jazz rock fa la sua parte e geddy si mostra bassista sempre più originale e competente nel sostenere gli svolazzi e gli armonici di un lifeson ai suoi massimi livelli.
‘xanadu’, come già detto, è uno degli apici del disco: un testo di peart ispirato al ‘kubla khan’ di coleridge porta l’ascoltatore in un mondo mistico e lontano, cullato dagli arpeggi della 12 corde ma con la propulsione inarrestabile di neil che infila rullate su rullate senza mai risultare invadente o esagerato. geddy da parte sua inizia seriamente a mettere le mani sulle tastiere e ad usare minimoog e bass pedal, mostrando un interesse per le tecnologie digitali che esploderà poi pienamente negli anni ’80. da un’introduzione ambiental-psichedelica spunta un lick di chitarra (che ricorda molto alcuni fraseggi di garcia nella parti più spaziali delle 'dark star' del '69) che guida il resto del gruppo per la tortuosa struttura di un brano epico e drammatico ma mai pesante lungo i suoi 11 minuti.
‘closer to the heart’ è uno dei pezzi più famosi dei rush ed è sicuramente pregna del loro suono, una power ballad che va indurendosi pian piano in modo sottile e divertente, scritta benissimo e con un solo leggendario.
‘cinderella man’ e ‘madrigal’ sono i due momenti deboli del disco, trascurabili ma mai brutte, semplicemente non al livello di tutto quello che hanno attorno: dopo di loro il disco finisce con ‘cygnus x-1, book i: the voyage’, altro viaggio fantascientifico partorito dalla mente di peart in cui un uomo si avventura sulla sua navicella spaziale per esplorare il buco nero cygnus x-1 nella costellazione del cigno. nessuno mi toglierà mai dalla testa che parte dei riff degli opeth siano ispirati dalle chitarre di questo pezzo: se la prestazione della sezione ritmica è impressionante, lifeson alla chitarra riesce da solo a riempire tutti gli spazi vuoti con un suono tagliente e accordi dissonanti che il metal intero gli avrebbe rubato per almeno 20 anni (voivod, per dire un altro gruppo). un’altra parte deliziosamente psichedelica carica la tensione prima del finale esplosivo, una composizione perfetta che regala ai tre lo spunto per la nuova suite che arriverà tra poco.

‘2112’ ha generato il suono, ‘a farewell to kings’ lo perfeziona, a breve lo troveremo pienamente compiuto e pronto per esplorare nuovi territori.