mercoledì 15 settembre 2021

tropical fuck storm, 'deep states'


arrivati al terzo disco, i tropical fuck storm consolidano la loro originale formula trovando una sintesi tra la (quasi) forma canzone dell’esordio e le asperità sperimentali di ‘braindrops’.
‘deep states’ non cerca nuove strade ma riesce a distinguersi dai due dischi precedenti sfruttando molto di più la band che in passato: liddiard più di una volta fa un passo indietro per lasciare le lead alle due voci femminili, i cori si moltiplicano e i contributi di seconda chitarra e (soprattutto) basso sono molto più rilevanti, oltre alla solita dose di tastiere cheap sparse per i pezzi.

ciò che ancora una volta fa la fortuna del disco è la qualità delle composizioni, perfettamente bilanciate fra tensioni nevrotiche e avvolgenti aperture melodiche in cui il contrasto timbrico fra le voci viene in primo piano per creare un gioco di chiaroscuri perfetto per esprimere al meglio i torrenziali testi di liddiard.


restano le ritmiche scheletriche, le linee di chitarra spezzettate e dissonanti, i testi sarcastici e taglienti e uno spirito anarchico che aleggia su tutto l’album, a partire dalla caotica apertura di ‘the greatest story ever told’ (che purtroppo non è una cover dei grateful dead), che tratta un ipotetico ritorno in terra di cristo da una prospettiva curiosa.

stupisce e ammalia la vena soul della bellissima ‘blue beam baby’ così come il crescendo tra sci-fi, industrial e stooges di ‘suburbiopia’, affidata alla voce di fiona kitschin (mentre quella di erica dunn racconta la desolazione interstellare di ‘new romeo agent’). ‘the bad news channel’s on a fucking roll/ i’m feeling useless as a missing remote/ control is an optic illusion’, ‘bumma sanger’ è uno dei momenti in cui il disco mostra di essere anche figlio dei lockdown, del covid e di tutto il 2020 con un testo delirante fatto di ossessioni, tv e noia esistenziale, sorretto da una base tanto elaborata quanto semplice. ‘the donkey’ invece riporta alle atmosfere teatrali e drammatiche di ‘braindrops’ con un lungo crescendo lento e straziante e un’elucubrazione sull’estinzione umana.

‘reporting of a failed campaign’ è molto interessante nella sua struttura che adatta continuamente la musica al bellissimo testo di liddiard sull’arroganza e i giochi dei grandi potenti, augurandogli di distruggersi a vicenda in un mexican standoff internazionale.

in chiusura ‘legal ghost’ colpisce allo stomaco con un testo amaro e un arrangiamento leggero che ha quasi del chamber rock, un pezzo grigio e alienato che porta a una strana conclusione con ‘the confinement of the quarks’, esperimento più vicino a una colonna sonora sci-fi che alla musica del gruppo, una sorta di epilogo strumentale che poco aggiunge ma nulla toglie a un disco fenomenale.


i quattro australiani sono stati in grado di mettere in fila tre dischi incredibili, ognuno con le sue peculiarità nonostante il suono del gruppo sia talmente marcato (e marcante) da non lasciare grande spazio in termini di versatilità. insomma, un po’ alla maniera del blues o dei cantautori, i tropical fuck storm fanno questo e lo fanno da paura, se quello che conta nell’arte sono originalità e carattere, allora liddiard e compagne hanno ben pochi rivali tra i nuovi gruppi rock.




venerdì 3 settembre 2021

prince, 'welcome 2 america'

come qualsiasi altro artista, anche prince ha avuto momenti di stanca. basti pensare al traballante inizio degli anni 90 (ricordate ‘come’? no? c’è un motivo) o alla loro discutibile chiusura (si vedano i vari ‘chaos and disorder’, ‘emancipation’ o ‘new power soul’), anche se forse la palma di “periodo più inutile” va agli anni attorno al 2010. nonostante le esibizioni live continuassero ad essere stellari, la produzione in studio di questo periodo è mediocre: ‘planet earth’, ‘lotuflow3r’, ‘2010’, tutti album che contengono al massimo un paio di pezzi buoni per poi perdersi nell’anonimato più totale.

sorprende e spiazza quindi la decisione degli eredi di pubblicare un disco inedito proprio del 2010: registrato con una formazione incredibile, ‘welcome 2 america’ è uno dei vari dischi abortiti da prince durante la sua carriera; non certo il più famoso né il più richiesto dai fan che hanno ben altre mire (‘roundhouse garden’, per dirne una), eppure la scelta si rivela quantomeno sorprendente per la qualità della musica contenuta.


si diceva della formazione: tutti i pezzi tranne ’1010 (rin tin tin)’ e ‘1000 light years from here’ sono frutto di una sessione di una settimana e mezza con chris coleman alla batteria e tal wilkenfeld al basso, un trio che quanto a groove conosce ben pochi rivali sulla faccia del pianeta. questo porta una certa coesione al disco, soprattutto in termini di suono, evitando quella disomogeneità che ha minato vari dischi passati di prince. sono poi state aggiunte le tastiere di morris hayes e le voci di shelby j, elisa dease e liv warfield, portando l’album verso una dimensione molto più corale rispetto al solito ‘composed, performed and produced by prince’. soprattutto a livello vocale prince fa un passo indietro, lasciando ampi spazi a shelby & co. e donando a tutto l’album un’aura soul/gospel che porta dinamicità e coinvolgimento.


non è ben chiaro perché prince abbia deciso di tenersi il disco. pare che dopo la fine delle registrazioni tutti fossero estremamente contenti del risultato, lui stesso incluso; in più poco dopo partì il ‘welcome 2 america’ tour, durante il quale però non venne suonato nessun brano del disco. una spiegazione l’ha data wilkenfeld, raccontando di come non sarebbe stata disponibile per il tour per altri impegni: forse a prince non piaceva l’idea di non poter portare dal vivo i brani con i musicisti che li avevano registrati ma, visti i precedenti, anche questa ipotesi è traballante. boh.

nonostante le premesse non fossero tra le migliori, ’welcome 2 america’ contiene alcuni dei momenti migliori degli ultimi 20 anni di produzione di prince. innanzitutto è un disco molto sociale e incazzoso, in quel modo un po’ spirituale proprio di ‘sign o’ the times’; questo conferisce ai pezzi una carica tra il sardonico e il critico che svicola dalle solite porno-ballad.


non è tutto oro ovviamente’ e non parliamo certo di un capolavoro: ‘hot summer’ è un rock piuttosto innocuo il cui organetto sembra citare ‘shake’, uno dei pezzi meno riusciti di ‘graffiti bridge’; simile per suono e risultati è ‘check the record’, molto anni 90, piuttosto ridondante.

quando però il nano azzecca il pezzo giusto c’è da tenersi forte: ‘welcome 2 america’ è uno slow-groove in costante crescendo in cui subito risaltano il basso felpato di wilkenfeld e i botta e risposta tra prince e le cantanti, un pezzo che trasuda tradizione black in ogni suo aspetto. la fluidità ultraterrena di chris coleman traina invece ‘born 2 die’, quasi un tributo a curtis mayfield e a certo funk vellutato anni 70, un pezzo avvolgente e riuscito. ‘when she comes’ è forse il momento più alto del disco, una porno-ballata (finalmente) strappamutande in cui il basso è pura poesia così come gli appoggi (giggity) di piano di prince; non va affatto male neanche con ‘yes’, che mischia sly e synth vintage come succedeva in ‘1999’ e travolge con un funk-gospel che sembra la versione più riuscita di alcune atrocità di ‘graffiti bridge’.


è bello per una volta sentire ancora prince con una band e non da solo rinchiuso nello studio, è bello sentirlo un pochino più indietro per inserirsi meglio nell’organico, così come è bello sapere che anche in uno dei suoi momenti artisticamente più bassi riusciva a scrivere figate come 4 o 5 pezzi di questo disco riesumato. non è tra i suoi picchi ma è tranquillamente la miglior musica che abbia composto dopo ‘the rainbow children’, un’ascoltata la merita eccome.



nota: l'edizione ultramegadeluxe del disco contiene l'album in cd e vinile, un libro che sembra avere varie informazioni e il bluray di una serata del tour che ha seguito 'welcome 2 america'. non ho visto né il libro né il bluray ma ho l'audio del concerto e sono sicuro che meriti, se meriti 120 dollari... decidetelo voi, io stavolta passo.