mercoledì 27 febbraio 2019

mark hollis, 1955-2019



non è mancato solo un cantante.
mark hollis era un artista e non uno qualsiasi; ha sempre avuto un’idea molto precisa del suono che voleva ottenere e l’ha sempre ottenuto senza fermarsi di fronte a nulla.
una delle cose che stimo di più in assoluto della sua carriera è come sia stato capace di dire basta senza essersi svenduto, senza diventare un guru (ne avrebbe avuto ogni diritto), senza proclami altisonanti. dopo ‘laughing stock’ ha semplicemente deciso che i talk talk avevano toccato un apice e la cosa migliore sarebbe stata fermarsi lì. l’unica volta che ha messo la testa fuori dalla tana è stato per pubblicare il suo unico, bellissimo disco solista nel ’98, una prosecuzione ed ulteriore evoluzione di quello svuotamento sonoro che aveva portato a ‘spirit of eden’ e ‘laughing stock’. un scelta intellettuale decisa, netta e completamente onesta.
in condizioni normali due dischi come quelli appena citati porterebbero a percepire un’artificiosità un po’ finta, un sovrarrangiamento ingombrante e pesante; e invece no. invece sia ‘eden’ che ‘stock’ suonano genuini, emozionali, profondi e, soprattutto, incredibilmente onesti. sono dichiarazioni artistiche derivanti da una visione lucida scaturita da una mente che vive l’arte per l’arte, non per i soldi o per la fama. tanto per ribadirlo, dopo il ’98 hollis annunciò il suo ritiro dalle scene e scomparì completamente dalla faccia della terra.
e comunque, a parte tutto questo, è anche mancato un cantante unico, con un’espressività personale e originale che faceva da filo conduttore tanto in quei flussi sonori quanto negli splendidi ‘it’s my life’ e ‘spirit of eden’, la sua profondità in ‘renée’, i sospiri di ‘chameleon day’, l’energia rassegnata di ‘such a shame’ e le ondate di suono cavalcate in ‘living in another world’, tutti momenti impossibili da dimenticare.
è mancato un artista, un genio, un cantante incredibile e un uomo che ha sempre tenuto alla propria onestà e dignità. non celebriamolo perché è morto, portiamolo in trionfo per la vitalità inestinguibile della sua arte, è il miglior tributo che si possa fare.

it’s my life

the colour of spring

spirit of eden

laughing stock

live in montreux 1986

venerdì 22 febbraio 2019

khanate, 'capture and release'



quando i khanate erano attivi, i loro dischi spesso venivano recensiti e definiti come ‘avanguardia’ metal. per come la vedo io, i dischi del quartetto sono un punto di arrivo e non di partenza.
andiamo indietro di una cinquantina d’anni abbondanti, tracciamo una linea che parte dagli episodi più rumorosi dei kinks e degli who, attraversiamo l’oceano e andiamo a new york da lou reed, spostiamoci a detroit e continuiamo la linea passando per mc5, stooges, death e grand funk, rifacciamo una capatina in inghilterra per presentarci ai black sabbath, andiamo a los angeles e portiamoci dietro germs e black flag, torniamo a new york e incontriamo glenn branca e i sonic youth poi torniamo sulla west coast per prenderci i melvins, altra gita in terra d’albione con napalm death e carcass e chiudiamo di nuovo negli usa con fugazi e slint. questa linea (incompleta ma non voglio scriverci un libro. non ancora.) segue l’evoluzione del rumore nel rock usato come strumento, ogni band fa un passo più avanti e scopre nuovi modi di interagire con il rumore e di usarlo per i propri fini. all’inizio abbiamo semplicemente un volume esagerato, poi iniziamo a sentire feedback e droni, poi arrivano le urla, l’uso totale degli strumenti, il deragliamento di ogni senso melodico/armonico e infine la dissoluzione. 
ma ancora non ci basta per capire i khanate, per questo dobbiamo prendere in considerazione un altro paio di elementi che si discostano da questa linea. il primo è sicuramente ‘trout mask replica’ di captain beefheart, croce e delizia della critica mondiale, capolavoro insuperato di astrattismo rock e silenzioso faro nel buio (insieme a certi residents) per una quantità incalcolabile di gruppi “d’avanguardia”.
poi bisogna considerare la deriva portata da ‘metal machine music’ di lou reed, apripista per il movimento drone che trova negli earth dei primi ’90 il suo apice. 
non si possono inoltre non citare i throbbing gristle, gruppo che non è mai stato propriamente rock ma che ha fatto dell’utilizzo di rumore, distorsione e droni una vera bandiera, scardinando ogni regola musicale e shockando il mondo.
per chiudere, torniamo all’inizio di tutto. nel suo periodo di nascita, il blues era ben lontano dalla codificazione che ne diamo oggi, quelle 12 misure e 3 accordi che diamo per scontate. all’inizio i bluesman erano intrattenitori e non lontani da certe forme di cabaret musicale, intrattenevano con storie e con l’accompagnamento musicale sottolineavano la narrazione. queste storie erano spesso dolorose e tristi e l’espressività dei musicisti le rendeva uniche. come sappiamo, dal blues sono nati il rock 'n’ roll e poi il rock.

i khanate sono un punto d’arrivo, si diceva. attivi tra il 2001 e il 2006, breve reunion nel 2009, sono in 4 e si chiamano alan dubin (voce, o.l.d., gnaw), stephen o’malley (chitarra, sunn O)))), james plotkin (basso e synth, o.l.d., scorn, mick harris) e tim wyskida (blind idiot god).
non è difficile trovare nei latrati di alan dubin lo stesso dna che scorreva nei blues di new orleans (storie dolorose che fanno perno sull’espressività dell’artista), così come è evidente come la musica segua di pari passo le sue parole. allo stesso tempo le sue urla arrivano dagli o.l.d., efferato e delirante esempio di grindcore, quindi ci si allontana decisamente dal blues per entrare nel mondo delle urla sguaiate. siamo a un livello di dissoluzione musicale assoluto, nessuno dei tre campi (ritmica, melodia e armonia) si muove secondo i canoni e l’astrattismo colorato e straniante di ‘trout mask replica’ si fa incubo nero come la pece. 
se non si fosse intuito, i khanate fanno parecchio rumore, la loro vera arma però non è questa ma è il silenzio. hardcore, grindcore, heavy metal, sono tutte forme di rock estremo che tendono a dimenticare il vuoto e a crogiolarsi in un horror vacui che ha un suo preciso senso (soprattutto se ridotto nella durata come la maggiorparte dei dischi di questi generi). la musica dei khanate vive di continue esplosioni ed implosioni, vuoti pneumatici che diventano inferno sonoro in una frazione di secondo, sospensioni da tachicardia infrante dalla voce lancinante di dubin, è un espressionismo sonoro che fa dell’angoscia e della paura i suoi perni espressivi.
la chitarra di o’malley ha uno dei suoni più riconoscibili al mondo, le sue sferzate soniche nei sunn o))) vengono qui immerse in un contesto ancora più terrificante e risultano più incisive che mai, legate al tono slabbrato del basso immenso di plotkin che si occupa anche di effetti e distorsioni digitali che rendono il tutto ancora più gelido; wyskida qui non fa propriamente il batterista ma suona la batteria, sottile differenza per indicare come la sua prestazione sia totalmente slegata dai canoni ritmici dello strumento (e della musica in generale) ma segua invece il flusso magmatico creato dal gruppo.
nessuno strumento risalta, anche la voce ben presto diventa un timbro come gli altri, parte di una tessitura sonora che non ha simili. lo stesso livello di violenza, insidiosità e “disturbo” si può trovare nei today is the day di steve austin ma in una declinazione molto differente: per quanto passi dagli stessi riferimenti, austin tende a far risaltare altri aspetti e raramente si slega dalle convenzioni ritmico/armoniche fino a questo punto.

‘capture and release’ (2005) è composto di due tracce (‘capture’ e ‘release’, appunto), una di 18 e una di 25 minuti; tutto quello che ho detto finora si ritrova qui al suo massimo “splendore”, incorniciato in un contesto che esalta ulteriormente la tensione vuoto/pieno di cui questa musica si ciba. non che gli altri dischi siano molto da meno (questo è il terzo ed ultimo, prima ci sono ‘khanate’ e l’eccezionale ‘things viral’ mentre ‘clean hands go foul’ è una raccolta di outtakes postuma) ma qui il disegno è perfettamente nitido e compiuto, difficile immaginare un modo per andare oltre.

infatti il gruppo si scioglie, dubin fonda gli gnaw, o’malley continua coi sunn e plotkin coi suoi vari progetti mentre wyskida passa ai jodis (ancora con plotkin) prima di tornare nei fenomenali blind idiot god.
non è un ascolto per tutti, questo è poco ma sicuro; se però vi interessa sapere fino a che livello di efferatezza possa spingersi il rock, provate a ripercorrere la linea tracciata all’inizio e concludere con l’ascolto di questo album. vi sarà evidente come i khanate siano (stati) un punto di non ritorno di un intero genere musicale.


giovedì 14 febbraio 2019

pausa pubblicitaria: king bong, 'beekse bergen'



mi dicono dalla regia che non mi faccio abbastanza pubblicità. probabilmente hanno ragione, quindi ho pensato di farmi pubblicità da solo qui, dove centinaia di migliaia di milioni di miliardi di persone ogni giorno leggono le mie stronzate. mi sembra una buona idea, no?
e andiamo con la pubblicità allora, se non avete idea di chi siano i king bong e cosa sia 'beekse bergen’ o magari sapete chi sono i king bong (sono un mio gruppo, siamo in tre, basso-chitarra-batteria e facciamo musica strumentale più o meno psichedelica) ma non avete capito di preciso cosa cazzo sia beekse bergen, vi capisco, anch’io non l’ho capito per molto tempo, ora ve lo spiego. 

fotografia: giorni di roadburn a tilburg, olanda del sud; festival di 4 giorni, alberghi pieni, campeggi inaccettabili, prezzi orrendi. noi invece, like a boss, ci svegliamo ogni mattina con una grossa vetrata che dà su un lago, spesso con le oche che vengono a guardare in casa. lo scenario della colazione a beekse bergen, un parco/campeggio/safari fuori tilburg, posto veramente grosso con una strada che fa il giro al suo interno.
l’idea alla base di ‘beekse bergen’ è semplice: avere una mappa del parco e improvvisare seguendo la mappa, che ovviamente rispetto all’originale è stata mutata per funzionare meglio (sì, è quella che vedete sopra). tecnicamente si tratta di un’improvvisazione (non ci sono note scritte) programmatica (“a tema”, suoniamo ispirati dai vari luoghi nel parco) strutturata (prima di ogni esecuzione decidiamo un giro nella mappa e abbiamo quindi una struttura).

le zone (per ora) sono 11 e ognuna ha delle caratteristiche:
vialone d’ingresso: ha un senso di movimento in avanti, si arriva in pullman o simile.
bosco ovest: boschetto luminoso e con creaturine colorate.
lungofiume: ha la "spinta" del fiume, crea tensione.
casa: risolve ogni tensione, ci si svacca sul divano.
jeep: sono un branco di jeep selvatiche che si abbeverano in riva al lago.
bosco est: antico e oscuro.
palude: fangosa, lercia e puzza pure un po’.
lago: in superficie con la barca o sul fondo nuotando.
rhytzepthion: completamente a caso senza alcun tipo di organizzazione.
fiume: scorre. può sostituire il vialone come ingresso.
ristorante: è allegrotto ma straniante. è anche piuttosto raro.

come dicevo, ognuna ha delle peculiarità legate al luogo ma nessuna ha reali “regole” per l’esecuzione, né indicazioni di tempo, dinamica o tonalità. oltre a quelle zone ci sono anche una rotonda e un parcheggio alla fine del vialone d’ingresso; la rotonda comporta una modulazione per ogni uscita, originalmente di terza minore in modo da poter eventualmente tornare indietro nella stessa tonalità. il parcheggio invece indica più semplicemente una fermata brusca dal vialone d’ingresso.
il lago è una zona molto interessante perché si può percorrere in barca (come è effettivamente possibile fare a beekse bergen) o se ne possono esplorare le profondità che, inutile dirlo, sono sconfinate e abitate da esseri mostruosi di ere antiche. inoltre può condurre a quasi qualsiasi altra zona del parco, essendo in mezzo alla mappa, cosa che crea moltissime possibili combinazioni strutturali.
ovviamente poi tutto questo è soggetto al momento in cui viene suonato: è quasi natale? magari c’è babbo natale nel lago; è estate? potrebbe essere tutto lento e bollente; è inverno? potrebbe essere tutto gelido e arido e avere dei synth anni '80. la libertà di interpretazione è abbastanza assoluta.

ci sono poi le lune. dovete immaginare la nostra beekse bergen un po’ come il mondo disco di terry pratchett, è un’enorme isola che vaga nello spazio (sorretta da tanti piccoli piedini), circondata dal suo sistema galattico che le orbita attorno.
le lune sono un’aggiunta successiva ma ce ne sono già a decine. ogni luna ha delle specifiche regole musicali dettate dalle sue condizioni ambientali: la luna a isole si muove per frasi sospese nel vuoto, la luna ad alta gravità impedisce intervalli superiori al tono e velocità elevate, la luna desertica vieta l’uso di effetti, la luna robot vieta l’uso di strumenti non digitali, la luna ventosa accelera e rallenta con le folate di vento… sono tante, non le spiegherò tutte anche perché ne inventiamo continuamente di nuove. 
una delle mie sequenze preferite è quella con le 4 lune elementali: luna di terra (primitiva e rituale), luna d’acqua (sospensione e scala esatonale), luna d’aria (senza metrica, suonata solo sul beat) e sole (energia, combustione, luce), oppure la luna misteriosa, in cui ognuno viene mandato da solo ad esplorare prima che gli altri si uniscano.

in mezzo alle lune c’è lo spazio, per andare in orbita da beekse bergen c’è un decollo e per tornare c’è un atterraggio.
prima di ogni esecuzione si decide un percorso e si parte; una serata tipo inizia con una buona parte di beekse bergen seguita da un decollo e dello spazio, poi esploriamo 4 o 5 lune e alla fine atterriamo e facciamo un altro paio di zone a terra.
come si cambia da una zona all’altra? ci si guarda. parte fondamentale di tutto questo è conoscersi, potersi guardare e, soprattutto, saper ascoltare, sentire i messaggi che gli altri mandano e reagire di conseguenza. non si può mai far calare la concentrazione se no crolla tutto, il gioco funziona se è in continuo cambiamento, se è dinamico e vitale, appena si appoggia diventa noioso.
inoltre, nonostante le caratteristiche delle varie zone bisogna anche considerare la consequenzialità, quello che i fan dei grateful dead (non solo loro) chiamano efficacemente il “flow”. in sostanza, è importante cercare di creare un contesto che abbia senso, una sequenza di parti che funzionino bene una volta messe in fila e che non siano solo appiccicate una dopo l’altra.

perché tutto questo? 
per tanti motivi. sicuramente dopo ‘sand≈return’ avevamo voglia di ritrovare spazio per l’improvvisazione, abbiamo passato quasi due anni a lavorare a quei 4 pezzi e dopo avevamo voglia di essere più liberi. ma l’assenza di regole, si sa, dopo un po’ diventa noiosa. in questo caso era più l’assenza di un contesto, un modo di canalizzare le improvvisazioni in qualcosa che avesse un suo senso. l’idea per beekse bergen mi è venuta mentre pranzavo in un bar in pausa durante gli anni in civica jazz, è stato un mettere insieme alcuni elementi classici (la musica a programma) e altri jazz (improvvisazione strutturata) per vedere se potessero essere riportati nel suono dei king bong. sicuramente i miei studi di quel periodo hanno influito ma 'beekse bergen’ non è mai stata una sboronata, anzi, per certi versi è il contrario: a volte quando si improvvisa e si resta senza idee si tende a fare cose “difficili” pensando che siano interessanti. ‘beekse bergen’ costringe a pensare l’improvvisazione da un punto di vista più focalizzato sull’insieme che sull’individuo, pur lasciando a disposizione una tavolozza espressiva potenzialmente infinita, a seconda di chi suona. in poche parole, a meno di alcune precise situazioni, se qualcuno si mette a fare il john petrucci di turno manda a puttane tutto, sbilancia il suono e risulta fuori contesto.

mi sono sviolinato da solo o no?
la verità è che quello che preferisco di tutto ciò è che è un mezzo incredibile per suonare con ogni tipo di ospiti. voglio dire, il chitarrista della rollins band ha voluto assolutamente venire a suonare con noi. chris haskett, il cazzo di chitarrista della cazzo di rollins cazzo di band, ci ha scritto e ha detto “figata, vengo anch’io”, è venuto, abbiamo suonato per due giorni senza sosta e a breve pubblichiamo 4 ore e 20 di materiale registrato con lui e rosarita crisafi, sassofonista (baritono) eccezionale con cui siamo sempre felici e onorati di collaborare, così come con tutti gli altri che ci sono stati, ricky balzarin dei ligera e goodbye kings, ivan maddio, alessandro luoni e quelli che sto dimenticando. ci si diverte sempre, tutti escono felici e vogliono tornare e noi vogliamo che tornino tutti. 

ecco, mi sono fatto pubblicità. spero in realtà di averne fatta di più a un certo modo di fare e intendere la musica che non a me stesso. tutti i dischi e tutti i capitoli di beekse bergen finora pubblicati sono disponibili aggratis sul bandcamp dei king bong (https://kingbong.bandcamp.com), di solito sotto alla tracklist c’è anche il percorso che abbiamo seguito per quelle registrazione se volete provare a seguirci. se qualcuno di voi milioni di miliardi di lettori dovesse essere interessato a partecipare mi scriva e non si sa mai, potreste finire con noi tra le dolci, calde e accoglienti braccia dell’affanculo in beekse bergen.