sabato 30 marzo 2019

il fondo del barile #0: devin townsend, 'empath'



il problema alla base di ‘empath’ è lo stesso che affligge tutti i lavori di townsend dopo ‘ghost’ (escludendo ‘casualties of cool’): a un certo punto della sua carriera, townsend ha smesso di tenere le sue anime separate ed ha lentamente mischiato tutto insieme. un tempo, intendo fra il ’97 e il 2002, le due parti che compongono da sempre il suono townsend avevano ognuna il suo spazio per esprimersi, evolversi e compiersi in dischi indimenticabili come ‘city’, ‘terria’, ‘infinity’, ‘biomech’ o ‘syl’ (pure ‘alien’ volendo, dai); ogni disco aveva un suo suono e lo sfruttava al meglio. l’ultima volta che questo è successo è stato con i primi 4 bellissimi dischi del devin townsend project, purtroppo da lì in poi in tutte le ultime produzioni del canadese queste anime sono state mescolate insieme, con l’effetto di rendere la musica fuori fuoco, generica e artificiosamente strampalata, con uno humor fatto di dad jokes e dei suoni che, per sterilità e piattume, ricordano quegli abominii reznoriani conosciuti come ‘year zero’ o ‘the slip’.

se questo non bastasse, si è perso completamente il concetto di canzone ma ciò non è affatto una cosa buona, anzi. in ‘empath' i continui cambi diventano presto irritanti, sembra di sentire un collage di frammenti più che delle composizioni. ci sono dei buoni momenti, e dici, grazie al cazzo, quando in un disco metti TUTTO ci sarà pure qualcosa di buono. anche i muse magari per sbaglio hanno scritto un bel giro di basso, questo non li redime in alcun modo. nel caso di townsend è ancora peggio perché lui un tempo, quando i soldi per le produzioni erano molti di meno, faceva dischi con dei concept forti alla base e funzionavano anche per il loro immaginario, qui c’è il vuoto, perfettamente rappresentato dall’inutile copertina.
non basta? ok, questa volta va ancora peggio, questa volta c’è un’aria da operetta in cui compare il growl e il pezzo dopo inizia con influenze caraibiche. questa volta c’è un coro che rende ancora più stucchevoli le solite melodie, trite e ritrite. ah, giusto, se c’è un’aria da operetta va da sé che ci sia anche un’orchestra intera.

c’è una cassa tamarra in 4 con un coro angelico, poi devin urla su un riff zarro, poi l’orchestra fa il riff zarro, poi c’è una cascata di scale di tre secondi, poi il coro, poi uno stacco lo-fi, poi torna il riff zarro ma con una melodia diversa armonizzata, poi cambia accordo, entra l’orchesta e il coro e poi c’è un break. pensate che vi abbia raccontato la suite? no no. pensate che sia un pezzo? nope. quello che vi ho raccontato è il primo minuto e mezzo di musica dopo l’intro ambient-chill-spiritual. capite cosa intendo quando dico TUTTO? francamente si sconfina nel ridicolo ben prima della metà di ‘genesis’, vuol dire entro 5 minuti dall’inizio. ah, sì, non ve l’ho detto. il disco dura UN’ORA E UN QUARTO. 
potrei parlarvi della sfilata di ospiti, dai soliti steve vai e anneke van giersbergen a chad kroeger dei nickelback passando per morgan ågren, nessuno di loro viene valorizzato, sono tutti minuscoli pezzi di un caos fin troppo controllato e sterile.
già che ci siamo, due parole su mix e mastering: i suoni sono atroci, le batterie sembrano fatte in midi, il basso non esiste, le chitarre suonano bene ma è sempre lo stesso suono. la cosa più allucinante è quanto male sia fatto il mix, con i volumi che sbiellano continuamente, aspetto peggiorato ancor di più dal mastering che continua ad alzare ed abbassare il livello per simulare delle dinamiche che non esistono, fino a rasentare (e superare) il ridicolo. è tutto finto, è una disneyland sonora completamente fatta di plastica senza alcun contenuto.
e pensare che nelle parole di townsend 'empath' dovrebbe rappresentare un enorme spettro emotivo, dovrebbe far provare all'ascoltatore un'emozione dietro l'altra mentre invece risulta gelido, costruito a tavolino, privo di qualsiasi ispirazione musicale solida e interessante. vuoto.

devin, per favore, ti prego, so che là dentro ancora c’è un musicista interessante con idee originali, piantala con queste vaccate da centinaia di migliaia di dollari e torna a fare musica. 
dai, su.



lunedì 18 marzo 2019

amorphis, 'tuonela'



bestia strana, gli amorphis. nella galassia delle band metal nordiche si potrebbero per certi versi avvicinare agli ulver: partenza da un truce black (più death in questo caso) e deriva che se ne allontana separando i fan. se però i lupi norvegesi hanno poi fatto del cambiamento un loro baluardo, gli amorphis a un certo punto della carriera si sono arrestati, anzi, sono proprio tornati indietro. mi riferisco ovviamente al momento in cui pasi koskinen (ajattara, shape of despair, to separate the flesh from the bones), fantastico cantante, abbandona il gruppo e viene rimpiazzato dal mediocre tomi joutsen in un tentativo da parte del gruppo di riagganciarsi al proprio passato metal. purtroppo il risultato, ‘eclipse', fu un fiasco artistico e mise la band su una tremenda rotta di riciclo e autocompiacenza che gli impedirà di produrre nuovamente musica interessante. 

‘tuonela’ invece è tutta un’altra storia. qui gli amorphis arrivavano dal loro album più sperimentale, ‘elegy’, che mischiava death, goth, anni 70, folk e addirittura momenti elettronici in un eclettico frullato che, per quanto poco coeso e piuttosto sconnesso, mostrava delle grandi potenzialità. ‘tuonela’ trova un punto di fuoco preciso proprio negli anni 70, nelle chitarre fragorose, in tappeti di hammond che sorreggono melodie celestiali e in generale in un approccio molto poco metal e molto musicale.

la voce di pasi la fa da padrona ma può farlo grazie ad una scrittura dei pezzi intelligente, dalle idee semplici ma dalla stratificazione sonora densa che dona un tono aperto e sconfinato ai brani. il sax e flauto di sakari kukko danno un’ulteriore marcia in più a canzoni già fantastiche come ‘ nightfall’, ‘tuonela’ o ‘rusty moon’ mentre in ‘greed’, oltre agli unici growl di tutto il disco, troviamo addirittura un sitar. è comunque un suono molto corale e collettivo in cui nessuno svetta veramente.
le melodie tristi e trasognate solcano il mare di suoni, con vette come il ritornello di 'morning star', 'summer's end' e la splendida title-track, con una spaziosa coda di piano e sax.

‘tuonela’ è una mosca bianca all’interno del panorama metal nordico, una ventata di aria fresca e di inventiva in un genere che, nella maggiorparte dei casi, tende ad una staticità noiosa mascherata da vaccate di scena e ‘spirito coerente’. purtroppo i successivi ‘am universum’ e ‘far from the sun’ tenteranno la stessa strada ma con una scrittura meno ispirata ed efficace. 
gli amorphis non hanno avuto paura di cambiare pelle e la scelta li ha ripagati con un album sensazionale che consiglio a chiunque ascolti rock.



domenica 10 marzo 2019

kula shaker, 'k'


i kula shaker non si sono mai inventati nulla. ma proprio niente di niente eh, intendiamoci fin da subito: hanno fatto una cosa bellissima con un suono vecchio di quasi 30 anni (allora) ma l’hanno fatta da paura. come? scrivendo delle canzoni che riuscivano a trasportare perfettamente il feeling del rock di fine ’60/inizio ’70 nel suono degli anni ’90. li hanno inseriti frettolosamente nel calderone brit-pop ma loro con oasis, verve e blur non c’entravano più di tanto. sì certo, la venerazione per i sixties, l’india e tutto il resto ma nel suono dei kula shaker non troverete mai l’uggiosa malinconia degli altri citati, piuttosto un’esplosione di vitalità vorticosa e dai mille colori che riporta la mente a certi grateful dead più che ai beatles.

sono un gruppo solare che anche quando esprime disagio lo fa col sorriso stampato, ironico o meno poco importa, l’effetto è comunque dirompente. buona parte del merito per tutto questo va ovviamente a crispian mills, compositore, chitarrista e cantante e ad oggi unico membro rimasto della formazione che registrò ‘k’ nel ’96. sua è la fissazione con le discipline orientali che lo porta a scrivere la canzone che li fece esplodere nel mondo, ‘govinda’, primo brano cantato interamente in sanscrito ad andare in cima alle classifiche inglesi (non credo che ce ne siano stati altri dopo). è una canzone calda ed avvolgente che mischia psichedelia liquida e fortissime inflitrazioni di musica indiana, nel testo come nelle melodie e nella strumentazione, suona assolutamente anni ’90 ma sembra provenire da un’altra epoca, così come la sua controparte ‘tattva’, altro singolo di enorme successo ed altra canzone incredibile che sparge fiori attorno a un testo deliziosamente naif, altro elemento molto ’60.
poi ci sono i pezzi rocchenrol, quelli con la carica animale che si trascina via tutto, ‘hey dude’, ‘smart dogs’ o ‘303’, tutte scariche elettriche che discendono da hendrix, lo passano nel miele e lo rosolano a suon di anni ’90, ci sono brani più elaborati e drammatici come la bellissima ‘temple of everlasting light’ o la lunga conclusione con ‘hollow men’, in mezzo c’è la strepitosa ‘grateful when you’re dead/jerry was there’, esplicito tributo alla storia della musica che si concretizza in due minuti e mezzo al fulmicotone con tanto di coretti ‘pappappaaaaaa’ e in una coda semi-strumentale psichedelica che dal vivo viene trascinata in un crescendo fantastico.

proveranno a ripetersi con ‘peasants, pigs and astronauts’ ma in parte falliranno, nonostante un paio di vertici a livello di questo disco (‘great hosannah’ e ‘mystical machine gun’, due pezzi per cui uccidere), poi si perderanno, si scioglieranno, reunion, nuovi dischi e addirittura ‘k 2.0’, tentativo riuscito solo in parte di recuperare la freschezza di questo esordio fulminante che resta impresso nella memoria di chiunque sia cresciuto negli anni ’90 (anche qui a scapito di un paio di episodi imperdibili come ‘infinite sun’ e ‘mountain lifter’).

recuperate ‘k’, recuperate i kula shaker, anche il best of ‘kollected’ va bene, metteteli in macchina, alzate il volume e lasciatevi portare via da una nuova summer of love, finta ok, d’imitazione e magari un po’ posticcia ma cazzo quanto funziona bene. ah e se dovessero passare dal vivo non perdeteveli per nessun motivo.