sabato 21 settembre 2019

nine inch nails, 'the fragile'



vent’anni fa oggi usciva un disco molto atteso. un disco doppio, frutto di due anni abbondanti di lavoro, figlio della depressione e della disillusione, conseguenze di un tour infinito durante il quale trent reznor era diventato alcolizzato, cocainomane e famosissimo, tanto da essere indicato dal times come uno dei personaggi più influenti del periodo. il disco si chiamava 'the fragile' e c’è tanto da dirne.

alla fine del ‘self destruct tour’ trent reznor era una persona cambiata; da ragazzino di mercer, pennsylvania, si era ritrovato superstar trentenne riverito e copiato in tutto. oltre a questo, il tour era stato sfiancante, più di due anni in giro per il mondo con in mezzo un tour di spalla a david bowie e woodstock 94, il tutto condito con la nuova passione di reznor per alcol e coca. senza dimenticare ’natural born killers’, ‘strade perdute’, il progetto tapeworm e le tante collaborazioni (perlopiù abortite), tutta roba di cui reznor si circonda scappando dal nuovo disco dei nine inch nails e andando sempre più isolandosi, fino a quando la morte della nonna (che l’aveva cresciuto) non fa calare definitivamente la depressione sul musicista che verso la metà del ‘98, su consiglio di rick rubin, scappa nel big sur dove passa un mese tormentato dai fantasmi e dalle onde dell’oceano, riuscendo a scrivere un’unica canzone.
quando torna a new orleans chiama a raccolta alcuni collaboratori (tra cui charlie clouser, adrian belew, keith hillebrandt e dave ogilvie) e inizia seriamente a lavorare al nuovo disco, trovandosi alla fine una quarantina di canzoni per le mani. canzoni che nascono da input diversi rispetto al passato, non più basate su loop ma su una ricerca sonora che viene più dalla ambient, seppur sempre canzoni. soprattutto, molte di queste sono strumentali e nessuna ha avuto testo prima che ci fosse la musica, è un insieme coerente ma dispersivo e disordinato e reznor non riesce a vedere la narrazione, quindi chiede consiglio a quello che considera il miglior produttore al mondo: bob ezrin. 
per chi non lo sapesse, bob ezrin è il produttore di ‘the wall’ dei pink floyd. oltre a questo, ha lavorato con un altro paio di persone: alice cooper, aerosmith,  dr. john, peter gabriel, jane’s addiction, kiss, kula shaker, rod stewart... tra gli altri. 
ezrin accetta e vola a new orleans dove per dieci giorni ascolta le canzoni in loop; alla fine, presenta a reznor una tracklist da 23 canzoni, divise su due dischi: ‘the fragile’.

“the fragile was an album based a lot in fear, because i was afraid as fuck about what was happening to me ... that's why there aren't a lot of lyrics on that record. i couldn't fucking think. an unimaginable amount of effort went into that record in a very unfocused way."

questa è una dichiarazione di reznor che nel 2005 guarda indietro a quel periodo, riconoscendo il disordine che ha portato al disco. eppure il lavoro finale ha una sua strutturazione evidente, fosse anche solo per la divisione in due dischi chiamati ‘left’ e ‘right’, complementari ma non opposti; si possono anche ascoltare separatamente (grazie al valore delle canzoni) ma è solo un ascolto completo che rivela il viaggio. ‘the downward spiral’ parlava di eccessi immaginari, si creava una condizione ad hoc per sfogare la violenza, ‘the fragile’ nasce dalla depressione e dall’isolamento e si nutre di dipendenza: il primo immaginava una caduta, il secondo parte dal fondo di una caduta reale e vaga nell’oscurità cercando ragioni e uscite. il tema di fondo è appunto la fragilità delle cose, come tutto si possa rompere, dagli oggetti alle persone.
l’impatto fisico di ‘spiral’ si è trasformato in violenza latente, un filo d’ansia percorre l’intero album, sempre pronto ad esplodere ma non sempre disposto a farlo, un’apocalisse incombente che riporta all’anno di uscita del disco, il 1999 col suo y2k. 
i rimandi si sono aperti in un ventaglio di profumi che colorano i brani: bowie, king crimson, roxy music, debussy, prince, gary numan, talk talk, ministry, depeche mode, beatles... ce n’è di ogni, rock ed elettronica sono la base ma i condimenti sono pop, progressive, metal, classica novecentesca, funk ed altro ancora.

reznor, per cambiare suono, decide di basare la composizione su strumenti reali, principalmente a corde, registrati su nastro per poi essere passati in digitale in uno studio che all’epoca era all’avanguardia, con tre sale in comunicazione in cui i musicisti potevano provare idee diverse contemporaneamente; nel frattempo crea delle texture elettroniche tra ambient e drone che fanno da sfondo ai pezzi.
i brani del disco si possono quasi tutti inquadrare in tre categorie, pestoni, melodici e strumentali, con la proporzione tra le tre parti che può variare. tra i pestoni troviamo l’iniziale ‘somewhat damaged’, ‘no, you don’t’ e la mediocre ‘starfuckers inc.’ (unico anello debole di un album perfetto), tre esempi di come la rabbia esplosiva di ‘spiral’ si sia tramutata in qualcosa di più subdolo che urla da dentro, un po’ come la frustrazione del cane che ringhia al padrone.
tra i brani melodici troviamo alcuni dei momenti più alti dell’intero lavoro: ‘the day the world went away’ coi suoi layer di suono infiniti, ‘the fragile’ e il suo crescendo avvolgente su un delicato e bellissimo testo, il singolo danzereccio ‘into the void’, alienato e distaccato e la meravigliosa ‘please’ dalla ritmica irresistibile e un ritornello tutto da cantare.
gli strumentali costellano l’intero album e rappresentano l’animo più sperimentale del progetto, creando perle di bellezza incredibile come la strepitosa ‘just like you imagined’, una continua contorsione sonora nella quale partecipano anche il pianoforte impazzito di mike garson e la chitarra selvaggia di adrian belew, o l’epica e violenta ‘pilgrimage’, dalla melodia straniante trascinata dai rullanti da guerra.
il lavoro sugli arrangiamenti è a dir poco maniacale, ogni suono è studiato e congegnato alla perfezione, dalle esplosioni di rumore che riportano ai ministry ai soffusi tocchi di piano che sospendono la tensione un po’ come succedeva in un pezzo come ‘the rainbow’ dei talk talk.

ci sono poi dei brani che meritano un discorso a parte. il primo di questi è ‘we’re in this together’, primo singolo e canzone formalmente perfetta, scritta in maniera impeccabile e marchiata da una scelta di suoni che la rende urticante e permette al ritornello di esplodere in un urlo primitivo e liberatorio; poi ‘even deeper’, un miracolo di programming e droni che si intrecciano in un atmosfera pesante, scura e minacciosa su cui si snoda uno dei testi più emblematici del disco (“do you know how far this has gone? just how damaged have i become? when i think i can overcome it runs even deeper”), sostenuto da un arrangiamento d’archi sublime per gusto e mimetismo. 
ma il momento più alto dell’intero album è la doppietta che chiude il primo cd. si parlava poco fa del big sur e di una singola canzone che gli è sopravvissuta: quella canzone è ‘la mer’, (quasi) strumentale basato su un vamp di piano sul quale lentamente cresce l’arrangiamento, con la batteria di bill rieflin (ministry, rem, king crimson) a portarsi via tutto, prima che il suono si sciolga e coli senza pausa in ‘the great below’, forse la più bella canzone di tutta la discografia dei nine inch nails. un tumulto sommesso di droni, archi sintetici ed effetti alieni crea il mare in subbuglio sul quale reznor canta una melodia che sa di antichità, un rituale prezioso che porta a perdersi nel buio tra le correnti, un brano che è pura magia.
ultima citazione a parte per ‘i’m looking forward to joining you finally’, splendido esempio della creatività di reznor che costruisce il brano su un incastro ritmico minimale dai timbri marcati e lascia l’arrangiamento largo, quasi vuoto ma efficace nel restituire un senso di torpore a cui può portare la depressione (il brano è dedicato alla nonna da poco morta, è con lei che trent spera di riunirsi presto).

dopo il ‘fragility tour’ niente sarà più uguale, la musica di trent reznor perderà per anni in incisività e abrasività (al punto da vincere un oscar). questo lo dico non per fare polemica ma per sottolineare come questo album rappresenti un apice dopo il quale è difficile continuare, la sua ricchezza melodica, timbrica, ritmica e negli arrangiamenti lo rende un’opera d’arte complessa e affascinante, alla faccia di chi ancora sostiene che il rock non sia da considerarsi arte. 

giovedì 5 settembre 2019

tropical fuck storm, 'braindrops'



è passato esattamente un anno da quando ‘a laughing death in meatspace’ è arrivato come un uragano e si è imposto come miglior disco rock del 2018. dopo un tour pressoché infinito, che li ha portati anche dalle nostre parti con una breve quanto intensa esibizione al beaches brew di marina di ravenna, i tropical fuck storm tornano sul mercato con ‘braindrops’. 

mettiamo le cose in chiaro: il disco è grandioso e mantiene le coordinate sonore del suo predecessore ma cambia la cornice, l’atteggiamento ed anche i contenuti.
tanto per cominciare scompare quasi del tutto quel sorriso sardonico che spuntava a più riprese nell’esordio, qui il suono del gruppo, obliquo, dissonante e scordato ai limiti dell’atonalità, si sposa con un’emotività profonda, sincera e lancinante, la voce di liddiard è sfibrata e distrutta, porta nelle sue parole la stanchezza di un vivere nero e malsano. i testi stringono il cerchio, da un’osservazione (più o meno) critica della realtà (che comunque non manca in ‘braindrops’ o ’the planet of straw men’) si passa all’introspezione e ai rapporti personali, cambiano anche le dinamiche negli arrangiamenti con liddiard meno istrione e un gruppo più compatto che implementa le dinamiche dei brani.

si può intuire tutto dall’apertura di ‘paradise’, un lento crescendo con le chitarre che sembrano vagare senza direzione, così come i due personaggi del testo girano attorno al problema senza mai risolverlo; quando il ritornello inizia quasi non ce ne si accorge da quanto è naturale il passaggio. in generale non è un disco di ritornelli, ancora meno di ‘meatspace’: in ‘braindrops’ c’è una sorta di (e mi sento stronzo solo a pensarlo) post-destrutturalismo, non c’è intenzione di fare a pezzi perché tutto è già a pezzi, si costruisce con brandelli, frammenti e pezzi trovati a terra. 
è un rock meno alieno di 'meatspace' ma più mutato, talvolta segue più certe logiche di cantautorato che non di canzoni pop, graffia coi suoni ma avvolge nel torpore con un effetto desolante.
‘paradise’ è uno dei brani migliori ma a fargli compagnia ci sono il delizioso finto pop di ‘who’s my eugene’, cantata da erica dunn e ispirata dalla relazione tossica tra brian wilson dei beach boys e la psichiatra eugene landy, l’intreccio di botta e risposta di ‘the happiest guy around’, i continui mutamenti della splendida ‘braindrops’ (sui pro e contro della gentrificazione, in particolare dei quartieri di melbourne) e soprattutto la drammaticità inarrestabile della conclusiva ‘maria 63’, racconto di un immaginario incontro fra un agente del mossad e maria orsic, figura mitologica del nazismo che avrebbe avuto poteri sovrannaturali e contatti con gli alieni. il testo è come sempre molto intelligente e mai banale, lascia addosso una sensazione di sporco per la mania moderna di mitizzare qualsiasi cosa, al di là del bene e del male, quello che però colpisce allo stomaco è la forza della musica, unità all’interpretazione di liddiard che nel finale diventa una cosa sola con i cori prima di un’esplosione violentissima che promette fuoco e fiamme dal vivo.

se si può fare una critica al disco è che i suoni, decisamente più fangosi rispetto all’esordio, non sempre valorizzano i brani con una spinta forse eccessiva sul lo-fi (e una compressione killer sulla batteria che a volte funziona e a volte no). 
a parte questo ci troviamo di nuovo di fronte a un disco pazzesco che conferma i tropical fuck storm come una delle realtà più creative, vitali e genuine del panorama rock odierno.


lunedì 2 settembre 2019

il fondo del barile #2: tool, 'fear inoculum'



il primo disco dei led zeppelin è stato registrato in un totale di 36 ore, sparse su due settimane. ’sgt pepper’ è stato scritto e registrato in 5 mesi. esagero, trent reznor ci ha messo 3 anni per scrivere e registrare ’the fragile’. tra ’songs of faith and devotion’ e ‘ultra’ sono passati 5 anni. giusto un paio di esempi che mi passano per la testa.

i tool nel 2006 hanno pubblicato ‘10000 days’, un album discutibile (diplomazia, portami via) in cui riciclavano le idee precedenti e allungavano il brodo con intermezzi e suoni vari. 13 anni dopo si ripresentano sul mercato con ‘fear inoculum’.
parto da un presupposto: non sono mai stato fan dei tool, li ho sempre trovati un buon gruppo ma senza senso della misura, spesso prolissi e ridondanti, anche nei dischi che mi piacciono; se fossi un fan dei tool mi sentirei personalmente preso per il culo da questo aborto. se siete di quelli che li difendono a spada tratta, PER FAVORE fermatevi qui.

la cosa che più mi ha urtato in generale è il fatto che dopo 13 anni di lavorazione questo disco suoni incompleto, sottoarrangiato (si dice? forse me lo sono inventato) e completamente vuoto di contenuti.
keenan “sceglie di cantare poco" ma l’effetto è che per metà del tempo vorreste la sua voce a completare le parti e invece non c’è e il tutto suona come un demo strumentale. non solo, quando canta per buona parte del tempo sembra svogliato, pare che passasse di lì per caso e abbia sbadigliato un paio di volte nel microfono. il suo apporto generale al disco appare pressoché nullo, la voce sembra esserci ancora, se solo la facesse sentire.
punto due, ‘fear inoculum’ è in la minore. la canzone? no no, il disco, dall’inizio alla fine. e allora uno si chiede, alla monotonia armonica avranno contrapposto una dinamicità strutturale? nope. sembra di ascoltare per 6 volte la stessa canzone, gli incastri ritmici sono sempre gli stessi, arrangiati sempre nello stesso modo (batteria percussiva, basso che le va insieme, chitarra in palm-mute che riffeggia stancamente su un’altra ritmica) e finiscono sempre, sempre, sempre nella stessa stucchevole apertura di accordi aperti e piatto ride. esagero? la trovate a 3:55 di ‘fear inoculum’, a 3:18 di ‘pneuma’, a 6:35 di ‘invincible’, a 4:59 di ‘descending’, a 6:51 di ‘culling voices’ e a 1:46 di ‘7empest’ (il pezzo peggiore del disco, un’accozzaglia di parti incollate insieme), tempi riferiti all’edizione digitale. è SEMPRE la stessa cosa, sempre sullo stesso accordo, la piattezza degli arrangiamenti è desolante.
parentesi per ‘chocolate chip trip’; l’intermezzo è sostanzialmente un tributo a ‘stratus’ di billy cobham, loop di synth che fa da sfondo a un solo di batteria, peccato che gli assoli di batteria di cobham abbiano un senso e un messaggio. io non discuto che danny carey sia un bravo batterista, cazzo se lo è, purtroppo per lui però non è neanche lontanamente un solista e questo brano lo dimostra: sta tra il filotto di esercizi e il “adesso faccio casino”, non ha un tema che sia uno (timbrico, ritmico, melodico, ce n’erano di scelte) e risulta noioso, piatto e vuoto (aiutato anche da una produzione generale che calca la mano sulla compressione di batteria e chitarra inibendo le dinamiche di tutto l’album). 
poi ci sono gli intermezzi, ancora una volta per allungare il brodo e arrivare ad un totale di OTTANTASEI MINUTI, dei quali gli unici salvabili sono forse quelli della title-track posta in apertura. forse.

questo non è un disco, è una presa per il culo. il fatto che arrivi dopo 13 anni di silenzio dovrebbe renderlo un insulto verso i fan dei tool. il suo girare a vuoto lo rende un ascolto noioso oltre ogni limite, pesante ma senza ricompensa alla fine, stanco e ripetitivo. poi magari ci diranno che i tempi messi in sequenza formano la struttura del dna dei peli del culo di adam jones o il numero di conto in banca della cugina di terzo grado di fibonacci o l’esatta distanza tra me e quanto me ne frega (numeri astronomici), questo non cambierà il risultato finale: la noia. anzi, lo peggiorerà.
se vi accontentate del generico suono dei tool e non cercate particolare profondità o ricerca, ‘fear inculum’ potrebbe fare per voi. se invece avete apprezzato la spinta innovativa di dischi come 'aenima' e 'lateralus', forse è meglio che non lo ascoltiate neanche.

per quanto mi riguarda: vuoto, inutile e anche un po’ ridicolo.