mercoledì 29 giugno 2022

porcupine tree, 'closure/continuation'


a volte le cose del passato è giusto che rimangano nel passato.

13 anni fa usciva ‘the incident’, un disco in cui i porcupine tree sembravano volersi riagganciare almeno in parte con il loro passato più psichedelico, ammorbidendo le asprezze metal e cercando un flusso sonoro che a tratti riusciva ancora a entusiasmare. non il loro miglior disco ma quantomeno non era mai insufficiente e aveva almeno 3-4 pezzi clamorosi.

oggi steven wilson decide di riesumare la creatura dopo un filotto di dischi solisti che hanno smesso di essere interessanti nel 2015 con il mediocre ‘hand. cannot. erase.’ e sono arrivati ad essere ridicoli con l’ultimo ‘the future bites’. sicuramente non sono stato l’unico a sperare che il ritorno della storica band riportasse le composizioni di wilson al livello di una volta, speranza che nel mio caso ha iniziato a vacillare con la pubblicazione di ‘harridan’ ed è crollata piangendo quando ho sentito l’agghiacciante ‘of the new day’.

assente colin edwin, fondamentalmente perché wilson ha deciso che il basso voleva suonarlo lui, gnègnègnè, ritroviamo gavin harrison e richard barbieri a dare man forte all’ego di wilson.


‘harridan’ è un buon pezzo, soprattutto nella bella parte strumentale centrale mentre invece traballa nelle strofe, risultando un po’ scollato e poco fluido; un pezzo divertente che non smuove le coordinate del suono porcupine tree di un millimetro e non può certo competere con aperture come ‘blackest eyes’, ‘signify’ o ‘even less’. ‘of the new day’ invece è una ballata sciapa, ridondante, retorica, con un gran lavoro di stratificazione dei suoni che può distrarre dal fatto che ci troviamo di fronte ad aria fritta e nulla più.

‘rats return’ ha un buon riff preso di peso dagli opeth di metà 2000. basta, non c’è altro, è fondamentalmente un riff ripetuto per 5 minuti alternato a strofe che ricordano specificamente quelle di ‘the grand conjuration’ da ‘ghost reveries’ (il bridge prima del finale è scandaloso in questo senso). l’unico elemento degno di nota sono i suoni di barbieri, sempre perfetti.

l’inizio di ’dignity’ riporta ai tempi di ‘stupid dream’ e ‘lightbulb sun’, giusto per non scomodare i blackfield: una ballata morbida con cori beatlesiani e ancora barbieri sugli scudi, che però quando si alza di intensità diventa ridicola e finisce col suonare come troppi pezzi solisti di wilson (protagonista qui di una discutibile prova vocale di cui avremmo fatto a meno). l’unica cosa che mi è piaciuta davvero è il minuto di coda finale, finalmente i porcupine tree.

va meglio con ‘herd culling’, probabilmente il pezzo migliore del disco. scura, paranoica e sghemba, con delle dinamiche incredibili e una netta influenza dei genesis che affiora qua e là. le esplosioni elettriche finalmente coinvolgono e le linee vocali funzionano molto meglio con le solite, bellissime armonizzazioni di wilson, che comunque ci tiene ancora un paio di volte a farci sentire il suo orrendo falsetto. una buona outtake di ‘deadwing’.

‘walk the plank’ è dalle parti del primo peter gabriel (quindi ancora una volta sembra di sentire wilson solista), un pezzo non brutto ma inutile in cui il basso di wilson arriva a risultare invadente e fuori luogo: si sente l’assenza di un bassista vero e la presenza di un ego ingombrante. ancora una volta la parte migliore è la coda, di nuovo appesantita dall’orrido falsetto.

il gran finale è assegnato ai quasi dieci minuti di ‘chimera’s wreck’. il pezzo peggiore dell’album si prende il suo tempo, con una prima parte presa di peso dalle sessioni di ‘the raven that refused to sing’ e che non ha assolutamente niente dei porcupine tree. verso i quattro minuti ci si inizia a chiedere se il pezzo abbia intenzione di succedere in qualche modo e puntualmente arrivano il crescendo di batteria, il basso distorto, i cori, le chitarre distorte, gli intrecci strumentali super-prog e tutto quello che deve arrivare da manuale, senza la minima inventiva né motivo di stupore, diventa un pezzo progressive come se ne sono sentiti almeno mille altri senza nemmeno i suoni di barbieri, inchiodato da wilson a un vetusto hammond per la maggiorparte del tempo. vogliamo farci mancare uno special in falsetto? e una ripresa frenetica? e un riffone anonimo nell’ultimo minuto e mezzo? terribile.


da notare come l’elemento sonoro che suona sempre e comunque porcupine tree sia rintracciabile solo nei sempre fantastici suoni di barbieri: le chitarre in generale sembrano provenire più dal wilson solista, il basso è anonimo e la batteria di harrison suona esattamente come ha sempre suonato, da paura ma senza nessuna sorpresa o evoluzione.

‘closure/continuation’ è un disco da cui non mi aspettavo niente e alla fine ho avuto esattamente quello: niente. un album vuoto in cui il pazzesco lavoro di mix e master cerca di mascherare una totale mancanza di ispirazione e un gelo di fondo che non ha nulla della fredda paranoia di ‘fear of a blank planet’, tanto per dirne uno. le ballate sono molli e patetiche, i riff pochi e rubacchiati qua e là, melodie memorabili non se ne sentono e la musica non sembra suonata da un gruppo ma da turnisti.

fa male dirlo ma ‘closure/continuation’ è senza ombra di dubbio il peggior disco che i porcupine tree abbiano mai pubblicato, scollato e poco omogeneo, arrangiato in modo banale e privo di ispirazione, un disco senza senso di cui potevamo tranquillamente fare a meno. 

venerdì 17 giugno 2022

oren ambarchi, johan berthling, andreas werliin, 'ghosted'


oren ambarchi è uno che ha poco da dimostrare ormai, le sue collaborazioni con keiji haino, jim o’rourke, john zorn, charlemagne palestine, sunn o))), zu o merzbow parlano da sole e la lista sarebbe ancora molto lunga. il batterista andreas verliin e il bassista johan berthling hanno qualche anno in meno, vengono entrambi dalla svezia e da anni sono i sodali di mats gustafsson nei fire! e progetti correlati.

questi tre insieme si sono già incontrati più volte sia in studio che sul palco con risultati eccellenti (l’eccezionale ‘live hubris’ ad esempio, con anche gustafsson), eppure questa volta sono riusciti in qualche modo a superare se stessi: ‘ghosted’ è un piccolo gioiello strumentale di musica intelligente e perfettamente calcolata ma mai noiosa, fredda o distaccata, al contrario riesce continuamente ad avvolgere e affascinare senza mai scadere nel minimalismo “un tanto al kilo”.


il disco, registrato a stoccolma, è diviso in quattro movimenti, con i primi tre a fare da corpo dell’opera e il quarto che fa da coda. a parte per il quarto brano, tutto parte sempre da uno spunto ritmico attorno al quale i tre lavorano ossessivamente, con il contrabbasso a fare da perno. è musica che arriva evidentemente dal minimalismo degli anni ’60 ma non cade mai nella pretenziosità o in quella tendenza degli ultimi anni a svilire i concetti minimalisti con opere che sanno più di suggestione e fumo negli occhi che altro (no, non sto affatto pensando a pharoah sanders e floating points). è musica con una forte componente materica, i suoni si muovono attorno all’ascoltatore e lo trasportano nella stanza con i tre musicisti e oltre, lasciando che ci si perda nei continui cicli ritmici.

negli otto minuti del primo brano si fa notare la presenza di christer bolthén, veterano della scena jazz svedese attivo dagli anni 70 che qui suona il n’goni, uno strumento a corda del mali antenato del banjo con cui contrappunta il basso creando ulteriori strati ritmici e timbrici.

il secondo brano, nove minuti e mezzo, è basato su un giro di basso elettrico fatto solo di armonici, con un’ulteriore sovraincisione di note basse incastrate nel meccanismo in 7/8 in cui la batteria fa da metronomo sballato e la chitarra, amplificata tramite il leslie di un hammond per tutto il disco, fluttua tra gli spazi. 

l’apice però arriva con i sedici minuti del terzo movimento: su un lento 5/4, il trio gioca con minime ma continue variazioni, creando un gioco di specchi in cui partecipa anche l’inarrestabile giro di basso con una scrittura ritmica del pedale che spiazza invece di rassicurare. lo spazio sonoro è immenso, la batteria gioca tanto ritmicamente quanto melodicamente attorno al basso mentre gli interventi liberi della chitarra di ambarchi legano insieme tutta la musica portando ventate nebbiose e spettrali.

i cinque minuti di coda posti alla fine fanno da defaticamento, probabilmente anche per i musicisti: vengono in mente le lande deserte di ‘the bees made honey’ degli earth, un drone costante riempie gli spazi tra i lenti colpi di batteria mentre il leslie della chitarra satura l’aria, non c’è nessun meccanismo contorto e i tre musicisti sembrano prendersi questi cinque minuti per respirare.


tutta la musica sta perfettamente in equilibrio fra composizione e improvvisazione ma è da notare anche come riesca a evadere ogni ovvia categorizzazione: se il minimalismo arriva dal mondo classico, qui c’è una strumentazione rock, eppure di rock c’è poco e niente e il timbro ricorda più quello di un gruppo jazz ma, ancora una volta, mancano troppi elementi chiave (il solismo, per dirne uno) per chiamarlo jazz. sono composizioni modali che si muovono unicamente grazie all’interpretazione e al gusto dei tre musicisti, tre personaggi che hanno saputo interpretare una certa corrente moderna in maniera personale e convincente ma mai antipatica o supponente, veramente un gran disco.