venerdì 22 luglio 2016

'whiplash'



[chiedo scusa per la mia incompetenza da un punto di vista cinematografico in questa mia prima (e probabilmente ultima) recensione di film.]

è passato un po’ di tempo da quando ‘whiplash’ è uscito al cinema; volevo parlarne al tempo ma ho pensato non ne valesse la pena, poi l’altro giorno ne ho rivisto un pezzo in tv e ho deciso che sì, ne vale la pena: ‘whiplash’ è uno dei film più inutili, mediocri e peggio scritti che abbia mai visto.
punto primo e più importante di tutti: ‘whiplash’ è UN’OFFESA alla musica. in tutto il film si sentono a ruota gli stessi 3 pezzi, suonati sempre nello stesso identico modo, ovvero leggendo a pappagallo le parti, cosa che nel jazz succede sì ma non è di certo l’unica via, anzi. alla base del jazz c’è l’interplay tra i musicisti, qui di interplay non ce n’è nemmeno l’ombra, si vedono solo scimmiette ammaestrate che eseguono. poi, per restare nell’ambito musicale, il messaggio che si trae dalla fine del film è: stai chiuso in cantina a studiare ore e ore e ore e sviluppi tecnica e velocità che è tutto quello che ti serve (“faster” faster!!”, manco si allenassero per i 100 metri olimpici), diventa un onanista dello strumento e quando ti senti pronto, fottitene di tutti gli altri musicisti e fai lo sborone davanti al pubblico, allora sei un musicista. bravi, complimenti, funziona proprio così.
sorvoliamo sul fatto che se studi batteria e ti sanguinano le mani forse non hai capito un cazzo di come si tengono le bacchettee passiamo all’aspetto umano dei personaggi. simmons ha vinto l’oscar per la sua interpretazione ed effettivamente l’intensità con cui si cala nel personaggio è ammirevole. quello che non è ammirevole è il personaggio: scambiato da più parti per “l’insegnante duro che ti sprona”, si rivela essere in realtà un frustrato egomaniaco; ce ne sono parecchi di insegnanti così, è vero, ma allora questo mi conferma che ‘whiplash’ non è un film di musica ma un film di interazioni umane. va bene, mettiamola così e vediamo cosa si riesce a salvare: l’insegnante è frustrato e cerca liberazione, c’è un’evoluzione di questo personaggio? no, alla fine sorride, questo è quanto. vuole sottintendere che da quel momento sarà una persona diversa nella vita perché ha trovato il suo charlie parker? sinceramente ne dubito e, se questa fosse effettivamente l’implicazione finale, renderebbe tutto una cagata ancora peggiore.
ma parliamo del protagonista, il nostro andrew neiman che vive mille disavventure per poter realizzare il suo sogno. si sbatte per mezzora di film per uscire con una, poi si rende conto che no, deve studiare e non ha tempo, quindi la molla in 5 secondi di scena di un’inutilità agghiacciante. a me non dà l’idea di uno studente motivato ma di una persona con forti problemi sociali incapace di gestire il proprio tempo e di curarsi di persone che non siano… se stesso. poi la fissazione con buddy rich. confermo, buddy è stato uno dei 5 più grandi batteristi mai esistiti ma da qui a non citarne mai nemmeno un altro ne passa: che in un film con protagonista un batterista jazz non vengano nemmeno nominati elvin jones, tony williams, max roach o jack dejohnette è quantomeno curioso.
soprassediamo sulla famiglia di andrew, chiaramente un espediente del film per tirare in lungo in quanto non spiega assolutamente niente in più di quanto non si potesse già intuire dalle altre scene, anzi infastidisce con una retorica irritante ed abusata, realistica ma anche noiosa e già ampiamente sfruttata nel cinema (un film bellissimo come “the boat that rocked” riesce ad affrontarla in modo molto più efficace facendo ridere).
c’è poi la pesantezza di fondo di tutto il film, una cortina grigia claustrofobica che toglie l’aria a tutta la storia e si incarna fondamentalmente in un punto: se non ti stai divertendo a fare musica, che cazzo fai musica a fare? se dev’essere un peso, una costrizione, una mezza schiavitù, considerando che di certo non hai un particolare dono, chi te lo fa fare? a pensarci bene di fatto questo punto rende inutile l’intero film. 
ed eccoci tornati al punto iniziale: ‘whiplash’ è un film inutile, pesante, diseducativo e scritto in maniera mediocre, un esercizio di stile senza stile, una sega mentale sulle seghe mentali. 
giusto per gradire, chiudo l’articolo con qualche citazione da un’intervista a peter erskine, uno dei migliori batteristi jazz degli ultimi 40 anni, in cui parla del film:

"I'm disappointed that any viewer of the film will not see the joy of music-making that's almost always a part of large-ensemble rehearsals and performances. Musicians make music because they LOVE music. None of that is really apparent in the film, in my opinion.”

"It's a movie, and the actor did a good job. The drummer(s) who did the pre-record did a very fine job. Teller is a good actor. He's a so-so drummer: his hands are a mess in terms of technique, holding the sticks, etc., and no true fan of Buddy Rich would ever set up his or her drums in the manner that Teller's character does in the film.”

"If the film takes place "now," any drummer playing like that at a competitive jazz festival --especially one in New York City -- would get a cymbal thrown at their feet by the ghost of Papa Jo Jones, or I'd do it for him.”

“The misrepresentation of the Jo Jones throwing the cymbal at Charlie Parker's feet anecdote may well lead people to thinking that Jo Jones did indeed […] try to decapitate Charlie Parker […]. Papa Jo eventually tossed a cymbal towards Charlie Parker's young FEET in a "gonging" motion to get him off the bandstand. Jazz masters could be tough, but the movie gets that story all wrong."


grazie peter, mi sento meno solo al mondo. torno in cantina a studiare, felice che non mi sanguinino le mani.

martedì 12 luglio 2016

schammasch, "triangle"


gli schammasch sono un quartetto svizzero che con ‘triangle’ è giunto al terzo disco. molto onestamente vi dico che manco li avevo mai sentiti nominare fino a qualche giorno fa per cui non ho molto idea di cosa sia successo prima di questo disco. per quel poco che ho sentito i quattro orologiai prima si dedicavano a un black più “ortodosso” con i classici momenti doom e cliché vari.
‘triangle’ invece è un disco triplo che però per la durata poteva essere anche doppio: il totale è infatti di poco più di 100 minuti, i tre dischi durano circa 34 minuti l’uno. perché allora questa scelta bizzarra? perché i tre dischi hanno nette differenze tra loro, pur rimandando ad un disegno generale coeso e ben organizzato.
è un concept album su… la morte. arrivano comunque dal black metal, che vi aspettate? i tre capitoli identificano tre fasi del trapasso: ‘the process of dying’ (non credo ci sia bisogno che ve lo spieghi), ‘metaflesh’ (il decadere della carne e il sorgere dello spirito come essere ultimo) e ‘the supernal clear light of the void’ (il buio, il vuoto, il nulla.).
musicalmente mi sono trovato ad ascoltare uno dei pochissimi dischi metal entusiasmanti degli ultimi anni. non che ci siano rivoluzioni o grossi scossoni al genere ma gli schammasch conoscono molto bene la loro materia e se la suonano e gestiscono in maniera egregia, passando da un primo disco più canonico, seppur decisamente ispirato, ad un secondo che mette in tavola decise sterzate di doom cosmico, chitarre liquide e psichedeliche, passaggi pseudo-folk e molti altri colori da scoprire fra le trame dei pezzi, pur restando su suoni polverosi e antichi tipici tanto dell’estetica black quanto di quella doom.
il terzo disco riesce a sorprendere ancora andando più in là: per raccontare il grande vuoto gli amici cioccolatai del black imbastiscono 34 minuti di dark-ambient-drone-folk che sta tra i death in june, i dead can dance e gli ulver (quali ulver? decidete voi). sebbene anche questa non sia certo una trovata geniale, contribuisce alla costruzione del disco in maniera funzionale e dinamica e porta a compimento quel disegno generale di cui si parlava prima: un inizio legato alla furia black per descrivere la morte, una parte centrale che unisce violenza e oasi meditative in cui lo spirito si stacca dal corpo e un finale dilatato e aperto all’infinito per mostrare quello spirito che vaga nel vuoto.
volendo fare un giochino un po’ scemo potremmo vedere i tre dischi come l’equivalente delle tre fasi black metal degli ulver: il primo disco si può affiancare a ‘nattens madrigal’, il secondo a ‘bergtatt' ed il terzo a ‘kveldssanger’, sebbene contenga molte più tracce degli ulver di 'lyckantropen themes’ o ‘shadows of the sun’. ci si ritrovano anche evidenti tracce di quel black sperimentale che da anni fa sfornare grandi dischi ai negura bunget, sicuramente i migliori di questa nuova ondata, e che in passato ci ha donato i grandi album dei taake.

quello che posso assicurarvi è che questo è senza dubbio il miglior disco metal che abbia sentito quest’anno e probabilmente anche lo scorso (quasi a pari mi viene in mente solo 'm' di myrkur l'anno scorso o il buono (ma non a questi livelli) ultimo degli oranssi pazuzu). pur non inventandosi niente gli schammasch realizzano un’opera compiuta, compatta, varia e dinamica con grande intelligenza e ottima padronanza dei mezzi. attendendo che li annuncino per il roadburn 2017, lascerò che 'triangle' invada la mia estate.