venerdì 5 ottobre 2018

no-man, 'schoolyard ghosts'


sono passati 10 anni dall’uscita di ‘schoolyard ghosts’ e da allora il progetto è praticamente scomparso nel nulla. certo, dopo il disco ci sono stati i primi concerti della carriera trentennale della band da cui è stato tratto il (mediocre) dvd ‘mixtaped’ ma di musica nuova non se n’è più sentita e questo è un peccato per tanti motivi. uno a caso? probabilmente un disco nuovo dei no-man sarebbe stato infinitamente più interessante di quelle accozzaglie di cliché chiamate ‘hand cannot erase’ e ‘to the bone’.

‘schoolyard ghosts’ invece anche dopo dieci anni di ascolti continua a rapire e a rappresentare uno degli episodi più ispirati e riusciti di tutta la carriera di steven wilson, sta al top insieme a ‘grace for drowning’, ‘flowermouth’, ‘coma divine’ e ‘lightblub sun’ perché riesce a mettere in musica sensazioni molto precise e lo fa tramite un lavoro di scrittura e arrangiamento davvero creativo ed efficace.
se non avete mai sentito i no-man vi basterà ascoltare il primo brano, ‘all sweet things’, e avrete le coordinate sonore dell’intero progetto: atmosfera malinconica, suoni radi e lontani, un’eterna sensazione di sospensione e l’incredibile voce di tim bowness che fluttua nel vuoto, sussurrando di scenari desolati, città deserte nel cuore della notte e camerette buie con finestre sul mondo.
a livello emozionale è un disco molto molto denso che trova picchi (abissi?) profondi e toccanti in composizioni commoventi quali ‘truenorth’, ‘song of the surf’ o ‘mixtaped’.
‘all sweet things’ mette bene in chiaro la cura messa nel registrare e mixare l’album: il piano morbido e dal riverbero largo e infinito contrasta la voce asciutta sussurrata, una chitarra elettrica lontana disegna scenari abbandonati, un po’ alla maniera dell’art rock moderno di gruppi come explosions in the sky o godspeed you black emperor, le chitarre acustiche entrano a dare concretezza al suono e il mellotron si alterna agli archi nel dare tocchi epici e brillanti alle canzoni (per la cronaca, su ’truenorth' troviamo la london session orchestra arrangiata dal veterano dave stewart, al tempo negli uriel, khan, hatfield and the north e altro canterbury).
l’elettronica che nei primi dischi la faceva da padrona qui viene utilizzata come strumento nella tessitura sonora dei pezzi: distorsioni, glitch, manipolazioni del suono, sono tutti colori usati sapientemente lungo l’intera durata del disco.

sorprende invece un pezzo come ‘pigeon drummer’, emotivamente denso e carico di una tensione continua, squarciata da esplosioni di distorsione con la propulsione selvaggia dei tamburi di pat mastelotto (king crimson), un esperimento riuscito che riesce a non stonare in mezzo a tanto vuoto, grazie anche a ‘truenorth’ che lo segue e, almeno all’inizio, svuota completamente il suono, prima di svilupparsi per 13 minuti lungo tappeti sonori tanto affascinanti quanto gelidi e toccanti (strepitosi gli inserti di flauto di theo travis).
nonostante sia un disco estremamente elaborato, arrangiato e pensato, ‘schoolyard ghosts’ riesce a non suonare mai manieristico, mantenendo un flusso costante grazie anche all’incredibile caratterizzazione atmosferica che grazia i brani: se ‘truenorth’ rimane perennemente sospesa, ‘wherever there is light’ è deliziosamente luminosa e rilasciata mentre la seguente ‘song of the surf’ è uno dei momenti più scuri e toccanti del disco, con una melodia triste e rassegnata che sa di spleen suburbano e intimo dolore.
se forse dei tre minuti e mezzo di ‘streaming’ si poteva fare a meno (nulla di grave, intendiamoci, solo un po’ retorica ed interlocutoria), non si può certo dire lo stesso dell’emozionante finale proposto da ‘mixtaped’, una melodia meravigliosa sostenuta da pochi suoni (tra cui il tocco cristallino di un ispirato gavin harrison), feedback e droni in crescendo, uno slowcore intenso al servizio della toccante interpretazione di bowness e un finale che vi lascerà col fiato sospeso.

al contrario di molte produzioni wilsoniane, ‘schoolyard ghosts’ non è un disco solista, è uno sforzo di gruppo in cui ogni ospite porta qualcosa ai pezzi senza mai snaturarne l’essenza.  
è musica per le giornate plumbee, suoni da assimilare sdraiati sul letto mentre la mente vaga per gli infiniti spazi tratteggiati dagli strumenti; è un disco esplicito e “semplice” all’ascolto che però non fa nulla per nascondere la profondità da cui nasce e in cui si tuffa continuamente. non ha niente che vi possa dare fastidio ma quando finirà sentirete un peso sullo stomaco e non è detto che vorrete togliervelo. magari invece premerete di nuovo il tasto play e lascerete che questo sublime torpore duri un’altra oretta.

‘you’d kill for that feeling once again,

afloat on the ocean, beyond the pain.'