venerdì 28 settembre 2018

elio e le storie tese, 'figgatta de blanc'


“mi devo far mal! 
mi devo far molto mal. 
sono un masochista.
mio padres, mi ha lasciato in eredità una bella farmacia: 
“l'aspirinas". ma io mi devo far mal, mi devo distruggere da solo! 
perchè mi devo soffrire da solo! madonna carrettera come soffro!”

squallor, ‘tromba'

è con questo spirito che ho deciso, in una trista mattina di settembre, di riascoltare per intero ‘figgatta de blanc’. ecco il risultato.

l’insulto ai fan è radicato nel dna di questo abominio, fin dall’inizio, quando vengono mischiate le sillabe della mitica introduzione di ‘elio samaga’; mmmm, che idea originale.
poi parte un pezzo funky, il più generico che possiate immaginare, con elio a cantare in un ridicolo e spompo falsetto e i cori a dire ‘fanghi’ su un pezzo funky. wow, che arguzia, che trovata ficcante. potevano in effetti ficcarsela da qualche parte. arriva quasi a dare fastidio il fintissimo riverbero appiccicato sulla batteria, così come l’inutilissima coda del pezzo in cui ‘l’amica della nonna è un trans’, non solo non fa ridere ma è anche un po’ gratuitamente offensiva, nonostante faccia riferimento a un personaggio ben conosciuto dei dischi passati.
‘she wants’ è anche peggio, su una base da porno anni ’90 rocco tanica canta filtrato dall’auto-tune in inglese maccheronico ‘she wants in the posterior’. faccio fatica ad insultare un pezzo del genere, è una cosa talmente inutile, disarmante, umiliante addirittura, un umorismo ancora una volta da scuole medie (perfettamente in linea con la tremenda copertina) che farebbe ridere solo un idiota. i suoni sono tremendi, c’è una genericità da cover band senza alcun mordente che rende tutto di un piattume desolante quanto la carenza di idee. ulteriore insulto, il riferimento in questo contesto alla storica 'peak of the mountain'. sto già pensando a cosa voglio ascoltare dopo e sono passati solo due pezzi.
se c’è una cosa che gli elio non hanno mai saputo fare è l’hard rock; sui primi dischi si arrangiavano, soprattutto grazie alla qualità dei pezzi, qui troviamo ‘parla come mangi’. ho già detto dell’approccio cover band del disco ma qui forse siamo ai punto più basso in assoluto, grinta da turnisti disinteressati, rock da band di papà alla festa di paese. no, scusate, probabilmente quei papà si divertono molto di più quanto abbia fatto il gruppo registrando questa oscenità. 


‘il mistero dei bulli’ è una canzone di cattivo gusto in ogni senso possibile: musicalmente è una semi-ballata sciacquina, vuota e molle con agghiaccianti richiami anni ’80 su cui elio canta un testo che generalizza in maniera molto poco matura sul tema del bullismo, distaccandosene in fretta per andare a dire stronzate sui popoli dell’antichità. arrivano a citare tarzan di vianello, tanta roba ragazzi, tanta roba. non sono neanche a metà e sto per addormentarmi.
‘china disco bar’ è un altro inutile pezzo funkettino, copia di tutti gli altri sul disco. particolarità? non fa ridere. gioca con stereotipi più o meno razzisti restando sulla sottile linea dell’insulto e ogni tanto superandola. meno male che arriva ‘il quinto ripensamento’, una cover di una cover (riprende ‘a fifth of beethoven’ di walter murphy nota per nota) con… delle parole sopra. non mi sento di chiamarlo un testo. inveisco contro ogni divinità, poi mi ricordo che ho scelto io di ascoltare il disco e inveisco contro di me.
‘bomba intelligente’ è praticamente un’altra cover, musica di paolo sentinelli, testo e voce di francesco di giacomo del banco del mutuo soccorso. è una ballata epica e teatrale, indubbiamente l’unico momento salvabile in mezzo a tanta merda ma non certo un capolavoro, è roba che di giacomo faceva già più di trent’anni fa ma funziona anche come tributo al compianto cantante per cui lasciamola passare. orrendi gli assolo di chitarra e violino distorto (mauro 'prezzemolo' pagani) alla fine del brano, di un cattivo gusto che rasenta il livello queen. vi ho mai detto quanto odio i queen? un giorno ve ne parlerò.

arrivare a ‘inquisizione’ è sinceramente una fatica titanica (ti-tanica. visto? son bravo anch’io!), però attenzione perché troviamo la battuta più divertente di tutto il disco: ‘basta dire due cagate per la strada e viene a interrogarti torquemada’. ammetto che ho addirittura sorriso. per il resto è l’ennesimo funky-rock sciapo e sovrarrangiato che, come tutti gli altri brani del disco su questa linea, sembra più una vetrina per il basso di faso che altro. probabilmente tra questi pezzi ‘inquisizione' è il meno peggio, con una bella coda strumentale aiutata dagli inserti di fiati arrangiati da demo morselli. 'la santa inquisizione arriva dalla spagna, ma chi se l'aspettava?', grazie monthy python.
‘ritmo sbilenco’ è un altro di quei brani come ‘la canzone mononota’ in cui elio canta quello che il gruppo suona, un giochino vecchio e stantio, messo qui al servizio di incastri ritmici freddi, forzati e senza nessun reale significato, più un esercizio che altro. "critici famosi dei giornali di settore hanno scritto che canzoni come questa sono di genere progressive”; ah ok. interessante. se rivedrò i king crimson nella vita magari ci penserò durante il concerto. oppure no.
quando arrivo a ‘il rock della tangenziale’ la depressione mi chiude lo stomaco, non ce la faccio più, ho quattro concerti dei grateful dead che mi aspettano… e invece no, tengo duro. gli elio da parte loro si smollano sempre di più, siamo ai livelli di ‘pilipino rock’ se non ancora più in basso. se non bastasse, in ‘il rock della tangenziale’ c’è pure j ax. forse il momento più basso di tutto il disco: j ax che urla "faccio le corna e ti saluto un po’ perché io amo il rock ma anche perché ti devi muovere cornuto”. ora vomito.

rock 'n' rooooolll

‘cameroon’… boh. la versione scartata di ‘parco sempione’? ho ancora faso in faccia con un basso che sta diventando sempre più insopportabile, c’è un altro ‘testo’ che è più un insieme di parole che altro (le quali vanno ovviamente per i cazzi loro come metrica, quasi tutto il tempo). ah indovinate un po’? ci sono un sacco di percussioni. l’avreste mai detto in un pezzo del genere??? dai, mi mancano solo tre pezzi.
‘i delfini nuotano’. come ve la spiego? come me la spiego? boh. per la prima metà è un’orrenda ballata sul giro di 'piattaforma' con un testo singhiozzante che non si capisce bene se sia una presa per il culo delle canzoni contro al razzismo o un pessimo testo contro il razzismo. poi christian meyer ci rivela che il suo nome è pinolo (urca!) e inizia una parte delirante con strofe sovrapposte cantate dai vari componenti del gruppo e un siparietto finale in studio. manca la parte di dialoghi in cui hanno detto “oh ragazzi, ci serve almeno un altro pezzo, cosa facciamo?”.
no per favore, un altro funky rock no. e invece, ‘il primo giorno di scuola’. è una generica copia di tutti i pezzi di ‘pornograffiti’ degli extreme, il testo è triste e più generico possibile, a tratti si sentono delle inflessioni demenziali alla skiantos che rendono il tutto ancora più squallido. ce l’ho quasi fatta, ho anche sopportato christian meyer rock con un suono che scimmiotta gli aerosmith, voglio una medaglia.
si chiude, finalmente, con ‘vincere l’odio’, la vaccata da tre soldi che hanno presentato a sanremo nel 2016, una canzone idealmente composta solo da ritornelli, in realtà un collage di parti che non c’entrano un cazzo l’una con l’altra, una sequenza di stereotipi che, per quanto indubbiamente intenzionale, annoia e distrugge ogni speranza. hanno veramente citato i led zeppelin?


ce l’ho fatta, sono ancora vivo. non voglio pensare al passato, sono stufo, non voglio giustificare tutto questo con “eh però un tempo…”, non c’è alcun modo di giustificare questa merda se non per soldi. non è solo un disco brutto, è un disco che allontana i fan di vecchia data (mi chiedo se qualcuno sia rimasto al loro fianco dopo ‘l’album biango’) eclissando le doti compositive e creative del gruppo, inoltre a tratti cercando di sembrare politicamente scorretto finisce col suonare scorretto e basta. è un disco pressapochista che si accontenta di stralci di idee, li arrangia alla meglio e li dà in pasto al pubblico di x-factor, musica generica, innocua e trascurabile, da qualsiasi punto di vista la si guardi. se il precedente aborto discografico lasciava disarmati per la penuria di idee, qui si passa a un altro livello, l’incazzatura per i rimandi al passato e per l’ennesimo calderone di cliché pasticciati insieme.

è importante notare un paio di cose generali sul disco:
-non è un disco di gruppo, si sente lontano chilometri, sono idee individuali probabilmente scambiate via email e poi messe insieme alla meglio;
-è un disco svogliato in cui mancano completamente verve, originalità e voglia di fare;
-è un disco che può far ridere solo i bambini delle medie. se avete più di 13 anni e avete riso per questo disco, fatevi delle domande.
-se ogni tanto elio avesse scritto qualche testo in metrica nessuno gli avrebbe sparato, diteglielo per favore perché il suo sforare le metriche ormai ha veramente triturato i coglioni, non fa ridere e sembra invece mostrare una svogliatezza totale nello scrivere i testi.
c’è un modo solo per apprezzare questo disco: dimenticate tutto quello che sapete sulla musica, sullo scrivere belle canzoni, sugli arrangiamenti, sul buon gusto e sulle idee originali. se ci riuscite allora apprezzerete ‘figgatta de blanc’, se no vi troverete irrimediabilmente davanti alla vera natura del disco: merda.

ora riascolto ‘eat the phikis’? no, non ne ho nessuna voglia, metto i napalm death.


ps: 
“ma allora perché lo ascolti?”
perché gli volevo bene davvero tanto, erano un gruppo fantastico e detesto quello che sono diventati.
“e hai per forza bisogno di farlo sapere a tutti?”
sì, è la mia forma di protesta.
“a cosa serve ora che si sono sciolti?”
assolutamente a niente, sono felice che finalmente l’abbiano fatto, è la cosa migliore che hanno fatto negli ultimi 10 anni. ora attendo della musica decente, sono fiducioso che possa arrivare.

martedì 25 settembre 2018

prince, 'piano & a microphone 1983'


non ci sono tante storie da raccontare su questa prima vera uscita postuma: nel 1983, dopo '1999' e prima di 'purple rain', un giorno prince entra nel suo studio casalingo, chiede a don batts di far partire il nastro e registra 35 minuti di musica in solitudine, lui, il piano e, appunto, un microfono (il titolo del disco riprende quello dell'ultimo tour di prince nel 2016).
ci sono brani che verranno sviluppati e riaffioreranno negli anni (‘strange relationship’, ‘purple rain’, ’17 days’), brani che non vedranno mai la luce (‘mary don’t you weep’, ‘wednesday’ o ‘cold coffee & cocaine’) e anche una cover di joni mitchell (‘a case of you’), artista amatissima dal nano. il tutto è suonato di fila, senza pause, resituendo l’idea di un artista che si sta divertendo liberamente mentre intanto mette giù idee per canzoni future.

in ogni momento dell’album emerge violentemente il retaggio afroamericano di prince: il suo suono di piano e il suo approccio allo strumento sono percussivi e quasi sempre poliritmici, riportando la mente a duke ellington se non addirittura alle origini del piano afroamericano con rag e stride piano. la tecnica sui tasti è più che invidiabile: prince non suona il piano come sostituto della chitarra, è invece capace di virare la propria sensibilità verso le potenzialità dello strumento e lo usa magistralmente per sottolineare ogni passaggio (avete presente ‘how come u don’t call me anymore’?), regalandoci versioni molto diverse delle varie canzoni rispetto agli originali poi pubblicati.
altrettanto incredibile è la sua versatilità vocale, anche in una versione così casalinga; questo era il periodo in cui nei dischi finalmente anche il suo tono naturale iniziava a prendersi grossi spazi (nei primi tre dischi c'è solo falsetto) e qui lo sentiamo già perfettamente a suo agio nell'alternare i due registri, oltre a una serie di colorismi vocali molto espressivi che attraversano i brani.

è emozionante sentirlo parlare all’inizio di ’17 days’, tanto quanto sentirlo tirare su col naso durante qualche pezzo, forse non è la cosa più fine del mondo ma è talmente raro sentire prince in una versione così “in pantofole” che ogni momento del genere è toccante e fa sorridere qualunque fan.
non si pensi che siccome ‘piano & a microphone’ è un disco per piano e voce allora sia composto di sole ballate, ci sono molti momenti in cui il groove prende il sopravvento e la foga del pianista fa salire la voglia di ballare e partecipare alla festa, sono più o meno gli stessi momenti in cui prince si diverte a fare il verso a james brown (l’inizio di ‘cold coffee & cocaine’ è emblematico in questo senso) e si oppongono alle vere ballate, come la toccante ‘wednesday’ o ‘international lover’, quest’ultima anche superiore alla sua versione di ‘1999’. cito ancora ‘cold coffee & cocaine’ perché in questo pezzo tirato e libero si possono sentire i germi di quello che saranno brani deliranti come ‘bob george’.


guardiamo in faccia la realtà, questa è un’uscita per i fan, una riesumazione dalla vault che ha però un grande valore in quanto mostra un artista rilassato e senza maschere, neanche il tour ‘piano & a microphone’ del 2016 che pure ci si avvicinava moltissimo; qui però non c’è palco, non c’è pubblico, c’è solo prince davanti al suo piano con un microfono, un’esperienza profonda e commovente per qualsiasi fan del genio di minneapolis, per gli altri può essere un’opportunità per scoprire un lato normalmente nascosto di prince.

sabato 8 settembre 2018

sting, '...nothing like the sun'


dopo la fine dei police, sting si è impegnato per imporsi come artista ‘serio’ e non solo come macchina da singoli, come successo ad esempio a phil collins. non che i successi da classifica gli siano mancati, già il primo disco sfoggiava ‘if you love somebody’ e ‘love is the seventh wave’ e almeno un pezzo di ‘nothing like the sun’ diventerà un evergreen mondiale, parlo ovviamente di ‘englishman in new york’.
nonostante questo, ‘nothing like the sun’ è un disco estremamente serio che però sa prendersi i suoi momenti di relax, oasi divertenti in mezzo a un'elevata densità, evitando abilmente di essere pesante.

la band che accompagna il biondo ha classe da vendere: manu katché alla batteria, kenny kirkland alle tastiere, branford marsalis al sax, lo stesso sting al basso e una cascata di ospiti: gil evans, eric clapton, andy summers, mark knopfler… non esattamente un gruppetto di ragazzini e questo si riflette nella complessità degli arrangiamenti e di alcune parti strumentali.
un disco serio, si diceva, dedicato da sting alla madre morta da poco ma anche alle mogli dei desaparecidos cileni (‘they dance alone’), alle influenze di gioventù (la cover di ‘little wing’), a uno zio (‘rock steady’) e perfino ai matti di tutto il mondo (‘sister moon’). serio nel titolo, una citazione di un sonetto di shakespeare che pare essere stata la risposta di sting alla domanda di un barbone, ‘how beautiful is the moon?’.

‘the lazarus heart’ è un inizio emblematico: l’arrangiamento è fitto e stratificato, la batteria è incastrata con percussioni varie, le chitarre in mano ad andy summers creano svolazzi effettistici suggestivi ed avvolgenti, sopra a questo un tema semplice ed orecchiabile che lascia il posto alla voce enfatica di sting. il feeling jazzato che pervade l’intero album qui si concretizza in un break durante l’assolo in cui l’intera band prende una modulazione metrica spettacolare che crea l’illusione di un cambio di tempo che in realtà non c’è.
‘be still my beating heart’ è uno dei brani migliori del disco, una successione di melodie morbide ed ispirate, dal tono cupo e un po’ disperato, spezzato solo da un’apertura in maggiore nello special centrale.
‘englishman in new york’ è il miracolo del disco, un brano che è diventato simbolo per sting (e per il 1987 tutto, grazie anche al bel video) e che vede le due parti musicali del disco (quella pop e quella jazz) mischiarsi su una ritmica in levare che tanto sa di reggae e di stewart copeland, prima di un solo di sax puramente jazz che si sfrangia in un break di batteria aggressivo ed inaspettato.
da citare anche le due ballate, ‘they dance alone’ e ‘fragile’, entrambe molto sentite e profonde (la seconda ha aperto il suo concerto la sera dell’11 settembre 2001), la prima forse un po’ stucchevole ma niente di grave. del resto non stiamo parlando del disco perfetto, ci sono anche brani minori, belli ma non certo imprescindibili: ‘we’ll be together’ è una hit un po’ sempliciotta ma divertente, ‘rock steady’ passa un po’ innocua e ‘straight to my heart’, con un bell’arrangiamento di percussioni fitte in 7/8 che la rendono interessante anche se non memorabile.
strepitosa è invece la cover di ‘little wing’ arrangiata da gil evans, una versione molto personale che aggiunge epicità ad uno dei classici tra i classici del rock e si inserisce perfettamente nella tracklist, subito dopo la perla ‘sister moon’, una ballata jazz che prosegue la linea di ‘moon over bourbon street’ dal disco precedente ma con ancora più classe e una mano compositiva nettamente più esperta e convinta, che serve su un piatto d’argento la possibilità a marsalis di esporre il suo lato notturno e languido.

‘sooner or later we learn to throw the past away’, canta sting in ‘history will teach us nothing’; con ‘nothing like the sun’ sembra veramente che il biondo abbia voluto definitivamente chiudere i conti con il suo passato nei police ma al contempo abbia riabbracciato in pieno il suo amore adolescenziale per il jazz, ora in maniera matura e competente, perdendo quel velo naif che pervadeva ‘the dream of the blue turtles’ e (quasi) tutti i riferimenti alla vecchia band. se questo sia un bene o un male decidetelo voi.
un disco serio ed impegnato che però non si nega momenti di svago e risulta quindi sempre gradevole ed accattivante nonostante l’elevata ricerca sonora che gli sta alla base. dopo questo disco la parte jazz andrà sempre più indebolendosi, lasciando posto al talento pop da ritornello in album come il pur bello ‘ten summoner’s tales’, prima di tornare con un ultimo colpo di coda nello spendido live (e tour) ‘all this time’.


martedì 4 settembre 2018

alice in chains, 'rainier fog'



la “nuova” (ha quasi 10 anni) formazione degli alice in chains vive di contraddizioni, è incarnata dalle sue stesse contraddizioni. prima fra tutte il voler continuare con un nome che molti associano (più o meno ingiustamente) al solo layne staley che, sì, marcava a fuoco ogni pezzo con la sua voce magica ed irripetibile ma non contribuiva quanto si pensa al lato compositivo, ad appannaggio quasi esclusivo di mr. cantrell, il vero signor alice in chains, se proprio dovesse essercene uno.
dal vivo la contraddizione si amplia, il gruppo funziona evidentemente meglio sui pezzi nuovi, sono i dischi che hanno scritto e suonato insieme, eppure il pubblico esplode solo quando vengono snocciolate le varie ‘rooster’, ‘again’, ‘down in a hole’, ovvero quando william duvall si fa da parte e lascia fare il karaoke alla gente, scelta che lascia il tempo che trova ma la plebe impazzisce e allora diamogli quello che vogliono.
‘rainier fog’, terzo disco dopo la rinascita, è di per sé una contraddizione: a livello qualitativo dei pezzi è probabilmente il migliore dei tre, non ha quasi nessun punto morto, se non fosse che ricalca pedissequamente suono, forme e soluzioni dei due dischi precedenti. diciamoci la verità, nessuno si è stupito quando è uscita ‘the one you know’, tantomeno ‘so far under’ o ‘fly’ e, se siete fan del gruppo, non c’è niente qui dentro che vi stupirà, è tutto esattamente come ve lo aspettereste, quindi è fighissimo. contraddizione servita.
ci sono i macigni alla ‘stone’, si chiamano ‘the one you know’, ‘red giant’, ‘drone’ e ‘so far under’, ci sono le power ballad di sempre, ‘fly’, la splendida ‘maybe’ e la conclusiva ‘all i am’ (il pezzo meno interessante dell’album); pezzi tirati? eccovi ‘rainier fog’ e ‘never fade’, dal ritornello scritto apposta per le arene. 
sul serio, non c’è altro da dire, se vi piace il suono degli alice in chains degli ultimi 10 anni consumerete questo disco come avete fatto con ‘black gives way to blue’ e ‘the devil put dinosaurs here’, mettetelo in macchina, tirate giù il finestrino ed alzate il volume.