sabato 4 novembre 2017

ulver, 'the assassination of julius caesar'


sono passati un po’ di mesi dall’ultima uscita in casa ulver, chiedo scusa se arrivo solo ora alla recensione ma ho scelto di aspettare apposta, ho fatto girare il disco da aprile a oggi decine e decine di volte per assimilarlo al meglio e nel frattempo ho visto due volte il relativo tour in cui il gruppo lo ha eseguito per intero.
io penso che nella carriera degli ulver ad oggi ci siano stati 3 dischi fondamentali: ‘bergtatt’, ‘perdition city’ e ‘shadows of the sun’, il primo come apice del periodo black metal, il secondo come perfetta rappresentazione dell’estetica elettronica del periodo di mezzo ed il terzo come opera matura dalla poeticità ipnotica e terrena; oggi possiamo dire che si è aggiunto un quarto momento topico alla discografia, ‘the assassination of julius caesar’.

l’attività live e l’esperimento ‘atgclvlsscap’ hanno evidentemente dato i loro frutti nella fase di composizione, i pezzi sono tutti adatti ad essere riproposti dal vivo con piccole modifiche e gli spettacolari concerti con tanto di laser show l’hanno dimostrato. ‘julius caesar’, musicalmente, è la rielaborazione del synth-pop e new wave nel linguaggio degli ulver; è un ibrido dance-pop in cui garm sfoggia una volta per tutte il suo talento melodico, azzeccando un ritornello dietro l’altro per i 40 minuti di durata del disco. synth in primo piano insieme alla batteria martellante, poche chitarre, usate in maniera immersiva negli strati sonori degli arrangiamenti, percussioni a riempire e questo è quanto. quello che trascina il disco in alto sono proprio le canzoni, la loro capacità di distinguersi perfettamente anche in un disco così coeso e compatto, ognuna con le sue precise sfumature di suono, ognuna con la profonda e commovente voce di garm a narrarci delle sventure dell’umanità.

questo mi sembra un buon momento per introdurre l’altra metà della medaglia: il livello lirico. i testi attraversano la storia dell’umanità, analizzando momenti critici e tirando una linea da una tragedia all’altra, mostrando come gli errori e le crisi siano cicliche attraverso un uso creativo ed intelligente di citazioni. sono testi molto colti e profondi, non particolarmente aperti ad interpretazioni ma sicuramente stimolanti ed acuti. ‘nemoralia’ riesce ad unire l’incendio di roma con la principessa diana in un tripudio di suoni sintetici, ‘rolling stone’ racconta della fondazione di roma e di gesù cristo con cassa in quattro, percussioni ribollenti e ritornello soul, ‘1969’ inscena un peculiare synth-pop psichedelico per citare dai beatles ai rolling stones a charles manson ad anton lavey… e poi walter benjamin, l’angelo di klee, dunkerque, papa wojtyla, rosemary’s baby e l’epico ritornello deliziosamente tamarro dedicato a santa teresa d’avila.
c’è estrema serietà d’intenti ma un’inedita leggerezza nel mezzo a bilanciare, ci sono classe ed eleganza ma anche momenti tamarri e synth acidi a contrastare, tutto è in perfetto equilibrio in un modo assolutamente nuovo nel catalogo dei norvegesi. 
in cabina di produzione troviamo addirittura martin glover, alias youth dei killing joke; il suono generale è pieno e grosso e riesce a rendere vivi i synth che animano le canzoni.

non è un cambiamento radicale ma l’ennesima metamorfosi, il nucleo sonoro del gruppo è evidentissimo e inconfondibile lungo tutte le tracce. non credo proprio che questo momento si ripeterà, gli ulver sono un gruppo troppo integro per tentare la fortuna (o anche solo per ripetersi); inoltre la durata ridotta del disco suggerisce un voler tenere l’esperienza ristretta per garantirne la massima funzionalità (un disco più lungo avrebbe forse annoiato). 

godiamoci quindi questo ennesimo miracolo da parte di un gruppo che non ne vuole sapere di adagiarsi sugli allori, sempre pronto a mettersi in gioco per progredire.

ps: 'sic transit gloria mundi' è un ep uscito a 6 mesi di distanza dal disco; l'ep raccoglie due scarti (è il caso di dirlo) dell'album e una cover piuttosto inutile di 'the power of love' dei frankie goes to hollywood. è una delle poche uscite trascurabili della discografia dei norvegesi, gli scarti sono tali per motivi evidenti (ripetono soluzioni del disco senza però averne la contagiosa melodicità)e la cover scompare se paragonata a quella di 'thieves in the temple' di prince realizzata dal gruppo un po' di anni fa.