giovedì 18 novembre 2021

the knife, 'silent shout'


i miracoli, si sa, possono capitare. il problema talvolta sta nel saperli vedere e riconoscere, anche dove non ce li si aspetta.

karin e olof dreijer, cresciuti insieme nel nome della musica, hanno 25 e 20 anni quando nel 2001 pubblicano il primo disco, ‘the knife’, mostrando già una creatività fuori dagli schemi ma anche ingenuità nella costruzione dei brani che risultano un po’ come dei bozzetti preparativi. 

nonostante questo, le idee dei due fratelli, l’inventiva timbrica di olof e (soprattutto) l’inimitabile carattere della voce di karin mostrano come il duo sia una fucina di idee e potenziale ancora inespresso: va infatti molto meglio con ‘deep cuts’, una festa revival synth-pop, techno e big beat che spopola nelle piste di tutta europa, grazie soprattutto all’incredibile singolo ‘heartbeats’ che apriva il disco.

poi, il miracolo. nel 2006 i the knife escono con ’silent shout’ e tutto il mondo musicale si accorge di loro. non solo tutti ne parlano ma tutti ne parlano come un capolavoro destinato a marchiare un periodo musicale in cui il revival onanistico sembra aver preso il controllo del pianeta.


il miracolo di ‘silent shout’ è multiforme e si presenta con varie facce. la prima e più evidente sta nella capacità del duo di rielaborare completamente il materiale d’ispirazione: gli elementi non sono poi così cambiati, synth-pop, techno, texture ambient e noise, tutto questo però è ridotto a semplice input di partenza per essere rielaborato e fuso con il resto nell’estetica del gruppo che qui finalmente trova focus e sfogo.

il secondo punto da analizzare riguarda la crescita della musica elettronica dalla fine degli anni ’80 a oggi. fin dall’inizio la voce ha giocato un suo ruolo, con sample, manipolazioni e tracce create ad hoc; l’estetica che si è venuta a creare nei primi anni ’90 però è di fatto rimasta pressoché invariata, proponendo raramente un uso alternativo della voce e ancor più raramente un uso funzionale (e funzionante), si può pensare a certi daft punk che però non hanno mai caricato la voce di reali contenuti. in ‘silent shout’ la voce di karin diventa parte integrante delle texture, viene effettata con pitch-shfter, distorsione, exciter e modulazioni tra le più disparate, a volte per esaltare determinati tratti del suo timbro (‘na na na’, ‘the captain’), altre volte per renderlo mostruoso ed irriconoscibile (‘silent shout’) ma sempre con lo sguardo sull’insieme dei brani.


altri due punti fondamentali riguardano le canzoni stesse.

innanzitutto è da rimarcare come i dreijer riempiano di contenuti i propri pezzi e testi. di elettronica che parla di serate a ibiza, estati infinite, amori effimeri e the rhythm is magic ne abbiamo sentita tanta. anzi, ne abbiamo sentita veramente troppa. i testi di ‘silent shout’ vanno dalle oscurità ambigue della title-track (secondo alcune interpretazioni parla di un cambio di sesso, per altri è ispirata alla serie di fumetti ‘black hole’ in cui una malattia ha effetti diversi su varie persone in un gruppo di amici) alla toccante e desolante descrizione della devastazione psicologica da alzheimer (‘marble house’), dall’ambientalismo di ‘we share our mothers health’ alla violenza domestica di ‘one hit’ e ‘na na na’ al precario equilibrio di ‘like a pen’ tra sessualità e performance artistica, presentando un ventaglio di riflessioni, invettive silenziose e analisi sempre profonde e dal tocco sarcastico.

come ultimo punto ci tengo ad evidenziare come le canzoni abbiano sempre uno spiccato senso narrativo che evita abilmente la trappola dei “bozzetti sonori”: hanno sempre un inizio, uno svolgimento ed una fine ben chiari e la loro singola caratterizzazione porta il disco verso una forma decisamente più pop che elettronica, nonostante la musica dica il contrario.


se tutto questo non dovesse bastare, ci sono le canzoni.

‘silent shout’ da sola basterebbe per ricordare il disco, la perfezione messa in forma sintetica ed architettata minuziosamente in ogni dettaglio. lascia meravigliati la semplicità dell’idea: un basso ripetuto all’infinito, pochi elementi ritmici ma con una forza primitiva, un arpeggiatore inarrestabile in continua evoluzione e la desolante interpretazione vocale di karin, sfigurata ai limiti della mostruosità. un crescendo che lascia senza fiato e viene istantaneamente riconosciuto dal mondo come una delle migliori canzoni elettroniche mai composte.

sarebbe un errore pensare che il resto sia da meno: gli intrecci melo-ritmici di ‘neverland’ (la più vicina ai suoni di ‘deep cuts’), ‘we share our mothers health’ o ‘like a pen’ si concretizzano in danze aliene che vi impediranno fisicamente di stare fermi mentre karin muta timbro e intensità per ogni pezzo, il fascino nordico per la dilatazione fa di ‘the captain’, ‘na na na’ e ‘from off to on’ delle gemme lirico-ambientali che avvolgono e incantano (rappresentando perfettamente in ‘from off to on’ il torpore dell’alienazione da tv). l’intensità di ‘marble house’ poi è al limite del sostenibile, amplificata da un arrangiamento scurissimo e oppressivo che gioca anche con tocchi glitch attorno alla toccante melodia delle voci (ospite jay-jay johanson a cantare con karin).


discorso a parte dovuto per altri due brani fuori scala come ‘forest families’ e ‘one hit’. la prima si riavvicina timbricamente alla title-track con un arpeggiatore impazzito che quasi da solo trascina la parte strumentale mentre karin, in una delle sue interpretazioni più “pulite”, racconta una storia complessa fatta di contrasti tra città e boschi, tra bambini e adulti, tra maschi e femmine senza mai cadere nella retorica e mettendo in fila una serie di melodie indimenticabili. ‘one hit’ invece colpisce duro e si prende gioco dell’ascoltatore casuale che si lascerà sicuramente trasportare dal divertentissimo ritmo in terzine e dalla grottesca interpretazione vocale, ritrovandosi a cantare a squarciagola ‘how how how how, hoo hoo hoo hoo’ senza rendersi conto che il testo è un agghiacciante riflessione sulla violenza famigliare contro le donne dai toni velenosamente sarcastici, un contrasto forzato che per concetto ricorda i migliori depeche mode.

‘still light’ chiude il disco nel nome della rarefazione, con un testo che può raccontare di un risveglio da coma, di un tentativo di suicidio o della desolazione dell’inverno nordico, lasciando ancora una volta un messaggio fatto di contrasti e contraddizioni, di veglia e sonno, di gelo e calore umano.


sono tanti i motivi per cui ‘silent shout’ è un miracolo e criticamente si possono dissezionare a uno a uno, cercando il genio nel particolare ma rischiando di perdersi il punto più grosso di tutti: questo disco riesce ad emozionare e coinvolgere come ben poca elettronica sa fare ed ogni volta che vorrete affondarci i denti un po’ più in profondità, troverete sempre qualcosa che vi soddisferà, qualcosa che non avevate mai notato prima, un suono nuovo, una nuova luce sui testi. più o meno come succede con tutti i grandi dischi della storia, categoria alla quale ‘silent shout’ appartiene senza alcun dubbio.

lunedì 8 novembre 2021

low, 'hey what'

tornano i low a 3 anni di distanza da un disco che ha spezzato le gambe un po’ a tutti, quel ‘double negative’ che è stato incensato a ragione dalla critica tutta ma che per molti è stato ostico da digerire, con la sua costante tendenza ad un’atonalità aliena fatta di frammenti di suono sparsi nel vuoto.

la devastazione sonora (attivamente distruttiva) di quel disco lascia ora il posto alla contemplazione di fantasmi e riverberi di un passato che va ben oltre quello della band stessa, come testimoniato dalle inflessioni country/west coast che ogni tanto animano le armonie vocali.

i low prendono le idee del disco precedente e le riportano sulla terra in una versione più umana; semplificata, potrebbe dire qualche lingua velenosa, ma si sbaglierebbe: ‘hey what’ non è un disco semplice, neanche nei suoi momenti più immediati, è piuttosto un ritorno alla visceralità delle emozioni e ad una consequenzialità un poco più canonica della musica. 


prendiamo come esempio ‘white horses’, posta in apertura: il pezzo sfoggia melodie perfette, esaltate dall’intreccio tra le due voci, su un tappeto digitale fatto di distorsioni che avvolgono completamente l’ascoltatore in un’esperienza che va ben oltre il mero livello uditivo. c’è un continuo ondeggiare di suoni per tutto il disco, suoni distorti, alieni, ora inquietanti, ora avvolgenti, arrangiamenti minimali che sembrano provenire dal futuro ma che le voci riportano spesso e volentieri ad un passato fatto di country, americana e west coast, come in ‘disappearing’, un brano mozzafiato che sembra attingere da una certa epica di neil young. il gioco con timbri, compressioni e stratificazioni è stupefacente e arriva dritto all’anima, al contrario dell’algida cerebralità (che non è un insulto) di ‘double negative’.

‘hey’ è un altro piccolo miracolo, un pezzo in cui in un tappeto ambientale sintetico si possono sentire la rarefazione dei talk talk, il gelo di certa elettronica o jazz nordici e pure qualche ombra di kate bush, specialmente nel gusto melodico dal fondo 80s. che dire poi di ‘days like these’, la melodia da sola potrebbe reggere il pezzo, in più c’è un arrangiamento fatto di saturazioni animali, suoni che sono un pugno allo stomaco e addirittura una chitarra solitaria che sembra quasi una parodia, sempre rigorosamente senza alcun tipo di percussioni. 

discorso simile per ‘more’ che in soli due minuti riesce a riassumere un po’ tutto l’album, prima di versarsi in ‘the price you pay’, colpo di coda finale, inzuppato in un emozionalità mai melensa o scontata, cresce fino a diventare quasi un pezzo rock (con una vena depeche mode), con addirittura l’unica batteria di tutto il disco a dare ulteriore profondità all’ultimo crescendo che vi strapperà definitivamente l’anima.


se bisogna puntare il dito su un difetto, posso dirvi che il packaging non è certo dei più lussuosi: un digipack gatefold con il cd in una busta con titoli e credits, senza testi o altre immagini, decisamente un po’ poco per un disco così profondo e ricercato.

se non si fosse capito, siamo di fronte a un altro disco pazzesco. i low riescono ad imparare da se stessi e a riportare le idee di ‘double negative’ ad un livello più umano, aiutati in questo da un’ispirazione evidentemente ancora a livelli altissimi che permette al duo di scrivere melodie memorabili su cui basare i brani. 

che possano continuare per sempre.