lunedì 25 aprile 2022

roadburn 2022, tilburg, 21-24.04.22

abbiamo dovuto aspettare tre anni da aprile 2019 per poter rivedere i palchi del roadburn a tilburg, tre anni in cui sono passate pandemie, guerre, rivolte e tutto quello che è successo negli ultimi due anni. valeva la pena aspettare? cazzo sì. il roadburn 2022 è stato uno dei più belli che abbia visto, per ragioni che vanno anche oltre la mera musica.


non che la musica sia mancata eh. partiamo proprio da qui: la proposta di questa edizione è stata tra le più variegate che abbia visto, zompando allegramente dal grindcore alla dark wave passando per stoner, black, cantautorato e forti pennellate di classica, oltre a un club secondario sul cui palco suonavano quasi solo jazz. 

i vertici assoluti per me sono stati sicuramente i due pazzeschi concerti dei liturgy, una band con una coesione d’insieme come se ne vedono veramente poche, gente che gioca col tempo dei pezzi mentre suona su una traccia di metronomo con un ensemble da camera, non esattamente giochetti da prima elementare. nel primo concerto hanno suonato tutto ‘haqq’ più un paio di pezzi di ‘aesthetica’; tolte le manipolazioni elettroniche e le tastiere, i pezzi rivelano ancora meglio la loro stupefacente solidità compositiva, riuscendo a creare uno spazio gigantesco ed epico con strumentazione da quartetto rock. nel secondo show è stato suonato tutto ‘the origin of alimonies’, opera ibrida che gioca con black metal e classica con un’intelligenza che raramente si è vista in questo campo. i suoni del main stage sono sempre stati perfetti e in questo caso di importanza fondamentale per il bilanciamento degli arrangiamenti, un concerto semplicemente perfetto.


altri apici sono stati i tre (su quattro) concerti dei full of hell che sono riuscito a vedere, nei quali hanno suonato per intero ‘trumpeting ecstasy’, ‘weeping choir’ e ‘garden of burning apparitions’, quest’ultimo con spiritual poison fisso sul palco ad aggiungere orrori digitali mentre per due pezzi di ‘weeping choir’ è salita lingua ignota, poi protagonista di uno show che personalmente ho trovato zoppicante. fermo restando la sua bravura incredibile come cantante, un intero concerto su basi karaoke quando sei a un certo livello fa un po’ tristezza, soprattutto quando con un paio di strumenti sul palco potresti decisamente alzare il livello dello spettacolo. invece kristin hayter punta tutto sulla sua persona ma perde la violenta fisicità del primo tour in favore di una teatralità che non le si addice proprio, specialmente su un grosso palco come questo.

deludente anche il nuovo show degli ulver che fa cadere la mascella per uno spettacolo di proiezioni fantastico ma poi spesso annoia con jam annacquate (prese dal mediocre/brutto ‘hexahedron’) che sembrano lì solo per allungare il brodo.


molto bella l’idea di avere un palco senza programmazione in cui venivano annunciati solo show a sorpresa; è stato così che dal nulla al roadburn sono ricomparsi i thou prima e gli gnod poi, più una serie di esibizioni più o meno valide, tra cui quella infuocata del nostrano arottenbit.

altre figate in ordine sparso: le divide and dissolve che politicizzano il pubblico e poi lo frustano con folate di distorsione su loop di clarinetto, gli holy family (del batterista dei guapo) in un rituale mistico tra psichedelia etnica, folk e kraut, i cloud rat che prima stupiscono con un concerto synth-pop etereo, poi puniscono con una svomitata di grind marcissimo e animalesco, i wiegedood che mettono a ferro e fuoco il main stage, i francesi slift che riportano ai vecchi roadburn fatti di psichedelia settantiana e jam… ce n’era di roba.

non sono mancate purtroppo anche le ciofeche. il podio vede al primo posto l’agghiacciante ‘the cartographer’ di jo quail, una vaccata orchestrale tra avanguardia da baretto e colonna sonora disney dei poveri che ci ha fatto scappare sghignazzando, poi le martellate sulle palle di quella gatta morta di emma ruth rundle da sola al piano. ripeto, da sola al piano. su quel palco ci abbiamo visto diamanda galas nel 2016, non credo serva dire altro.

per finire la collaborazione commissionata ai vile creature con i bismuth si rivela un passo più lungo della gamba, per usare un enorme eufemismo: i vile creature fanno la loro ignorantata che di solito gli viene benino ma gli altri due aggiungono un’aura che vorrebbe essere ricercata ma risulta presuntuosa quanto dozzinale, un fallimento completo.


quello che è stato bellissimo è stata l’atmosfera. dopo tre anni avevamo tutti una voglia fottuta di essere a tilburg e la cosa si poteva respirare. inoltre questa edizione ha spinto molto sugli aspetti sociali della musica e la presenza di liturgy, lingua ignota, divide and dissolve e altri ha richiamato una gran quantità di pubblico anche dalla comunità lgbt, andando ad amplificare ulteriormente la bellissima socialità già tipica del festival.

(scena emblematica: giro per il festival con una maglietta rosa shocking dei napalm death, si avvicina una coppia di ragazzi gay e uno mi dice che è la maglietta più bella che abbia visto al festival. il suo compagno aveva una girly tagliata all’ombelico delle spice girls.)


che dire, un successo. non solo finalmente siamo tornati al roadburn ma il festival è riuscito a superarsi, mostrando lati inediti e continuando ad allargare l’orizzonte di inclusione e fratellanza che lo ha sempre caratterizzato. applausi ai gruppi, ai fonici, agli organizzatori, cento di questi roadburn.