venerdì 28 giugno 2019

black midi, 'schlagenheim'


i black midi per me arrivano dal nulla, se ne escono come se niente fosse con quello che al momento è il più bel disco di questo 2019. sono in quattro, sono inglesi, hanno vent'anni e hanno un suono che vi aprirà la faccia.

è una sorta di indie-prog, prende gli incastri e i cambi repentini del prog e del math rock e li immerge in un suono indie inglese asciutto e live, cambiano umore continuamente tenendo come linea continua la voce sbiellata di geordie greep, uno che è squinternato come david yow ma ha un timbro da peter hammill e ogni tanto sbrocca in cascate di parole che ricordano parecchio david thomas. e suona pure la chitarra.
la batteria di morgan simpson è ipercinetica e dinamica, non lascia un secondo di tregua, l’attacco ritmico è impressionante così come la sincronia perfetta col basso di cameron picton, legato quasi telepaticamente alle pelli. il chitarrista si chiama matt kwasniewski-kelvin e si lancia in bordate di suono epiche e gigantesche (con buon uso di effettistica ma non eccessiva) per poi abbatterle subito e tornare a secchissimi riff dispari che si dislocano sulla ritmica creando texture cangianti in continua mutazione.
nonostante i continui cambi di umore, è musica assolutamente rock, in tutto e per tutto: le influenze esterne sono talmente incastonate nel suono da non essere realmente rintracciabili, a modo suo ‘schlagenheim’ è una perla di purezza rock, per quanto preso a martellate.
in ‘near dt, mi’ potreste sentire eco di drive like jehu e fugazi, gli arpeggi iniziali di ‘western’, apice del disco, hanno un retrogusto di slint ma la ripartenza è puro math alla three trapped tigers e quando poi si apre, sarà la voce, sarà ‘sto buco d’aazoto, potrebbe apparire il fantasma dei talk talk; ‘of schlagenheim’ introduce passaggi jazzati apertissimi da cui escono con una ripresa alla mars volta e urla da mike patton, il delirio finale di ‘ducter’ è liberatorio e conclude un disco dalla creatività esplosiva ma anche sorprendentemente controllata, considerando l’età media del gruppo.
si rifugge la forma canzone in ogni modo, si fa a pezzi il rock come succedeva nei primi ’90 ma qui il risultato è legato ai suoni dei 2000, la produzione non è mai eccessiva, il mix impastato ma nitido al punto giusto, il master ottimo.

non pensate di ascoltarlo per rilassarvi, è musica che sta addosso, ansiogena e scura ma anche profonda e ben congegnata, oltre che suonata egregiamente; sì insomma, vi darà delle soddisfazioni ma magari dovrete sbatterci un po’ la faccia.
più o meno come i tropical fuck storm l’anno scorso, questi quattro arrivano e si impongono artisticamente sulla concorrenza con una miscela originale e abbastanza unica, una personale declinazione di un suono complesso da creare e ancor più da gestire ma i black midi riescono nell’intento e si lasciano pure ampi margini di miglioramento, se tutto va bene ne vedremo ancora di belle da questi qui.

martedì 25 giugno 2019

prince, 'originals'


ed eccoci a quello che sembra stia diventando un appuntamento annuale con una nuova uscita postuma di prince. me ne sto lamentando? lungi da me. avrei preferito che avessero pubblicato altro al posto di questo? sì.
questa è veramente l’unica critica che mi sento di fare ad un’uscita formalmente splendida, ben pensata e impacchettata. purtroppo io, fanatico e nerd violento del nanetto, continuo ad aspettare un ‘camille’, ‘crystal ball’ o, ancora meglio, ‘roadhouse garden’ coi revolution... tant’è, facciamo i conti con quello che ci danno, che poco non è.

14 pezzi concepiti per altri artisti, quasi tutti suoi protetti: the time, sheila e, vanity, apollonia, the family... i nomi sono quelli, ciò che rende interessante la compilation è che dà modo di vedere come prince alterava il suo modo di scrivere quando non lo faceva per se stesso. inoltre il tutto è stato messo in un ordine non casuale per cui all’ascolto non suona più disomogeneo di ‘graffiti bridge’ o roba di fine ’90. i pezzi sono stati tutti nuovamente mixati da niko bolas che ha svolto un ottimo lavoro (tranne ‘love... thy will be done’, nel mix originale di michael koppelman del ’91) mentre ‘nothing compares 2 u’ è presente nel mix di tony maserati del 2018, unico brano della collezione già edito.

volendo fare un pochino il cagacazzi potrei dire che potevano fare una copertina migliore e che due righe nel booklet potevano farle scrivere a qualcuno, ci sono giusto i crediti e qualche foto di sfondo, tristezza ragazzi.

(sono stato un po’ indeciso se fare una recensione normale o darci di nerdismo duro. indovinate cosa ho scelto.)

sex shooter
si parte con uno dei pezzi migliori, non bellissimo nella versione edita da apollonia nell’84 (con tanto di video orrendo QUI) ma decisamente rinvigorita dalla verve di prince e dal nuovo mix. la canzone era stata pensata e registrata nell’83 per un secondo disco delle vanity 6 ma, al collasso di quel progetto, è stata data ad apollonia nel periodo di ‘purple rain’ (compare infatti nel film come siparietto per la protagonista femminile. curiosità inutile, il nome d’arte apollonia le è stato dato da prince in tributo al personaggio de ‘il padrino’ di cui era grande fan.). è un inconfondibile pezzo dance di quel periodo (nelle ere princeiane, che sono 4 e mezzo) con un riff che pare uscito da ‘1999’ e il classico suono della linn (quasi onnipresente in questo disco) a tirare il groove mentre attorno tonnellate di synth creano l’arrangiamento.

jungle love
‘jungle love’ è un pezzo fighissimo che era già tale nella versione dei the time (su ‘ice cream castle’ dell’84 ma anche questa in ‘purple rain’, è uno dei pezzi che i time suonano nel first avenue) e qui lo è ancora di più. il perché è ovviamente la lead di prince: bravo morris day, gli si vuole bene eh, ma... 
gli interventi esterni sono la chitarra di jesse johnson (chitarrista appunto dei time) e i cori di day, johnson e jill jones. registrato nell’83, è un altro pezzo dance orgiastico con musica di johnson e testo e melodie vocali di prince (come jamie starr). questa versione per qualche motivo mi ricorda il tiro monoaccordo di ‘the dance electric’, sebbene qui la struttura sia molto più definita.

manic monday
successo per le bangles (numero 2 nella classifica billboard nell’85-86), ‘manic monday’ è uno dei pezzi pop stralunati e naif del periodo intorno a ‘purple rain’, un pezzo che sarebbe potuto stare su ‘around the world in a day’ (ma anche su ’sign o’ the times’). originariamente era stato scritto per il progetto apollonia 6 ma è stato poi lasciato fuori dal disco e donato alle bangles nell’aprile dell’85 che ne hanno registrato una loro versione (il credito prince se l’è preso con lo pseudonimo ‘christopher’, che sarebbe stato poi il nome del suo personaggio in ‘under the cherry moon’).
l’arrangiamento è arricchito dalle voci di jill jones e brenda bennett, questa è la prima versione registrata nel febbraio 84, breve e perfettamente architettata.

noon rendezvous
terzo pezzo su ‘the glamorous life’, disco d’esordio di sheila e del 1984, ‘noon rendezvous’ è qui una ballata per piano e voce (arricchita da percussioni effettate) mentre nella versione pubblicata il piano veniva sostituito dai synth digitali (e ovviamente veniva cantata da sheila). non c’è nessunissimo dubbio sul fatto che questa versione eclissi completamente quella di sheila, il piano è molto più adatto all’arrangiamento e le capacità interpretative di prince sono anni luce avanti rispetto ai limiti vocali della batterista. 

make-up
questo è un pezzo strano. 1981, scritto per l’esordio delle vanity 6 (in realtà scritto per un progetto chiamato ’the hookers’ mai concretizzato) ed effettivamente pubblicato su quel disco nell’82, ‘make-up’ è uno strano ponte che unisce ‘dirty mind’ al ‘black album’: l’ambientazione digitale gelida è del primo ma l’uso della voce e la violenza (più o meno) implicita anticipano di vari anni il suono secco e brutale del secondo.
la versione delle vanity 6 ammorbidiva i toni acidi dei synth e perdeva molto della pericolosità che questo originale mantiene, risultando molto più efficace nonché incredibilmente avanti sui tempi.

100 mph
questa è stata pubblicata dai mazarati di brownmark nell’86 ma registrata originariamente nell’84. non ci sono ospiti e rispetto alla versione mazarati prince mantiene un tono più dark/epico che ricorda per certi versi il suono di ‘we can fuck’. gli interventi di chitarra sono bellissimi (un po’ rari lungo il disco) e il suono del pezzo è perfettamente inseribile nel periodo di ‘purple rain’.
ah dimenticavo, la versione dei mazarati è comunque suonata da prince, è solo un mix diverso.

you’re my love
questa ballad è stata pubblicata nell’86 da kenny rogers in una versione vomitevole con orrende tastiere digitali, un rullante che dura 6 secondi a colpo e l’interpretazione da gattone metropolitano di rogers. fossi in voi la eviterei.
questa versione invece è morbidamente suonata dal solo prince (come joey coco) in versione quasi minimal, basso-chitarra-batteria-voce e qualche tastiera, ha il fascino della black music morbida ma torbida, quel tipo di suono che verrà esplorato in pezzi come ‘money don’t matter 2nite’. ne esiste anche una versione con arrangiamento orchestrale di clare fischer, ad oggi ancora inedita. non è tra i migliori del disco ma è una piacevole riscoperta.

holly rock
‘holly rock’ è stata suonata un sacco di volte live, nel tour di ‘parade’ era quasi fissa in scaletta. pubblicata nella colonna sonora di ‘krush groove’ e come singolo da sheila e nell’86, è un pezzo festaiolo e caciaro divertentissimo in cui convergono james brown, i synth, le percussioni latin e momenti rock. il fatto è che un pezzo così si presta ad essere maltrattato dal vivo e infatti finiva sempre in grande festa mentre nella versione in studio ha un po’ il freno tirato, è comunque uno dei pezzi più coinvolgenti del disco coi suoi quasi 7 minuti di groove inarrestabile a struttura aperta e suoni pazzi, oltre a un bell’assolo di sax di eddie minnfield. sheila suona batteria e percussioni e fa i cori.

baby you’re a trip
1982, probabilmente non intesa per nessun progetto inizialmente ma finita poi nel primo disco di jill jones del 1987, la quale qui fa solo i cori (la “sua” versione comunque sostituiva solo la lead, era interamente suonata da prince). è una bellissima ballata dal sapore gospel ma con un tiro funk ed un arrangiamento povero di strumenti ma ricchissimo di idee e splendidi commenti di chitarra, riesce a mantenere misura e buon gusto ed offre una delle migliori prestazioni vocali di tutta la collezione, davvero una gemma riscoperta.

the glamorous life
uno dei brani più famosi della carriera di sheila e, ‘the glamorous life’ dava anche il titolo al suo primo disco solista. è un brano funk-dance in cui i synth fanno decisamente la loro parte ma troviamo inserti di sax (larry williams) e violoncello (david coleman, fratello di lisa) a contrastare il tessuto digitale. rispetto alla versione pubblicata qui non troviamo la batteria e la voce di sheila ma solo prince a suonare tutto.
anche questa è stata più volte recuperata dal vivo, sempre ben accolta dai fan.

gigolos get lonely too
scritta da prince per i time e registrata nell’82 insieme a morris day (batteria e cori) e jesse johnson (chitarra e cori), è una ballata soul non lontana da ‘baby you’re a trip’, il tipo di canzone che anni dopo verrà saccheggiata da lenny kravitz in ogni modo possibile. 
il cambio di tempo sul secondo ritornello è una finezza notevole ma ancora una volta è la voce di prince a rubare la scena, in molti di questi demo sembra divertirsi liberamente e provare cose che in futuro diverranno parte del suo suono.

love... thy will be done
unico pezzo proveniente dagli anni ’90, precisamente dal ’91, indovinate un po’?... è il momento meno interessante di tutto il disco. è una ballata che ha come unico punto a favore i giochi vocali che in quel momento riempivano ‘diamonds & pearls’, ha un arrangiamento scarno e spazioso ma anche una melodia che gira su se stessa e non dice molto. diciamo che è un intermezzo, via. scritta per matrika e finita sul suo secondo disco, ‘martika’s kitchen’ del 1991.

dear michaelangelo
'dear michaelangelo’ è un altro pezzo piuttosto inutile, finito sul secondo disco di sheila e (qui presente a percussioni e cori) ‘romance 1600’ dell’85. è un pezzo abbastanza colorato e con un bel tiro ma ancora una volta manca una vera melodia vincente che lo renda memorabile. il testo parla di una donna che rinuncia al suicidio per amore di michelangelo (sì sì, quello della cappella) pur sapendo che lui è gay e giura che nella vita dormirà solo con lui o con altri uomini gay. ha perfettamente senso.

wouldn’t you love to love me
questa canzone è stata cercata in lungo e in largo dai collezionisti mondiali, è una delle perle del primo periodo di prince, un pezzo funk rock in linea soprattutto con il secondo disco ‘prince’ con un ritornello contagioso e qualche bellissimo urletto in giro. la qualità audio è ovviamente inferiore al resto della collezione, pur non trattandosi del demo originale del ’76 né di quello del ’78 ma della registrazione del giugno ’81. pubblicata da taja sevelle sul primo omonimo disco dell’87 in versione super anni ’80, pompata e riverberata, la ritroviamo qui in veste decisamente più organica e trascinante, un altro gran momento.

nothing compares 2 u
facciamo un attimo ordine: cover a parte, esistono due versioni di questo pezzo edite da prince di cui questa è la più vecchia ma la seconda ad essere pubblicata. questo è il primo “demo” registrato da prince nell’84 e dato ai the family per l’omonimo (bellissimo) disco. quindi la versione dei the family è la prima pubblicata, poi c’è stata la cover di sinead o’connor, poi prince l’ha ri-registrata nel ’91 e pubblicata nel best of del ’93. se non lo sapete, vi dico anche che quando prince e o’connor si sono incontrati, questa è stata cacciata malamente dal principino per aver usato parolacce nel suo parlare. cattivella di un’irlandese.
detto ciò, a me di questa versione piace molto il suono e l’interpretazione vocale ma non vado pazzo per l’arrangiamento, trovo veramente pesante quella figura un po’ epica in mezzo ai versi nelle strofe che è stata invece tolta nella versione del ’91. resta un gran bel pezzo che vede qui anche la partecipazione di susannah melvoin ai cori ed eric leeds al sax.


in fin dei conti nulla da dire, il materiale è tanto e ottimo e c’è da essere solo felici di averlo ricevuto, la tracklist riesce a suonare abbastanza organica ed è un piacere sparare il volume in macchina per cui viva viva. siamo forse un gradino sotto al ‘piano & a microphone’ dell’anno scorso ma solo per la capacità immersiva di quell’uscita, il materiale di ‘originals’ va ascoltato e conosciuto da qualsiasi fan di prince sulla terra. 
certo, continuo ad aspettare uscite ben più succose.


lunedì 24 giugno 2019

santana, 'africa speaks'


non dovremmo più stupirci di certe cose. voglio dire, carlos santana... checcazzo, ha scritto la storia del rock, ha scritto alcuni dei dischi più belli di sempre (‘abraxas’ o ‘caravanserai’ da soli bastano per entrare nella leggenda), anche se poi ha pubblicato un po’ troppa merda ha saputo rialzarsi intelligentemente con ‘supernatural’ e la sua parata di ospiti, ha perfino resuscitato quasi tutta la line-up originale per quel ‘santana iv’ di qualche anno fa che alla fine ha deluso un po’ tutti. di cosa dovremmo stupirci quindi? del fatto che il vecchio baffo con ‘africa speaks’ rialza la testa e mette a segno il suo disco migliore almeno dai tempi di ‘supernatural’ stesso.

49 canzoni registrate in 10 giorni, quasi tutte in singole take poi sapientemente selezionate e prodotte dal mago rick rubin e ridotte a 11 per un totale di 65 minuti di musica. sì, un po’ troppi alla fine ma nulla di tremendo.
una novità interessante è la partecipazione della cantante spagnola buika come lead per tutto il disco, niente parata di ospiti e un ritrovato senso di fluidità nell’ascolto, oltre a dare spazio ad una cantante incredibile dal timbro particolare marcato da un’emotività profonda e spirituale. 
il punto focale del disco è, ovviamente, la musica africana, i suoi poliritmi, i suoi rituali, i meccanismi di botta e risposta, un incedere tribale bello aggressivo e lanciato (finalmente cindy blackman riesce a convincere con una prestazione notevole).
l’inizio è emblematico, ‘africa speak’ parte con percussioni dilatate che lentamente vanno a creare un tappeto ritmico su cui si svolge il pezzo in crescendo, con un sublime lavoro di arrangiamento. anche la chitarra riacquista tono e vigore, con un suono moderno e un po’ più blues del solito (anche nei fraseggi), meno ovattato e meno distorto ma senza perdere un grammo del suo inconfondibile carattere. ‘batonga’ è un’orgia di suoni e colori solcata dall’hammond di david mathews, ‘oye este mi canto’ culla nel ritmo dondolante prima di un cambio repentino che inietta il rock e lancia carlos in un assolo strappamutande, ‘yo me lo merezco’ cresce continuamente sfiorando territori gospel in un finale da brividi per poi lasciare il posto a ‘blue skies’, un jazz-bossa-afro-blues fumoso e coinvolgente che esplode in un solo blues rock da manuale (unico momento in cui avrei voluto un batterista diverso) prima di sciogliersi in una deliziosa coda lunare.
l’influenza africana per una volta non è dichiarata tanto per, il gruppo sfrutta i suoi vari meccanismi, le clave ritmiche si distanziano quasi sempre da quelle classiche cubane/sudamericane abusate dal gruppo in passato e prendono invece l’andamento in 6/8 largo ma aggressivo tipico del continente nero, le voci sono usate in maniera diversa dal solito, meno festose e più rituali e anche le parti funk (la strepitosa ‘paraìsos quemados’ in cui si sente l’influenza del miles davis dei primi ‘70) suonano molto più afro che americane.

c’è qualche pezzo meno interessante, ‘breaking down the door’ cerca la forma canzone ma non ha la verve del resto del disco, ‘les invisibles’ si fregia della partecipazione di steve hillage (gong, khan, etc) come compositore, è un hard funk che mantiene l’aggressività ma non convince del tutto, ‘luna hechicera’ ha un piglio decisamente più rock ma è un pochino stucchevole, nulla di tragico ma nella seconda metà il disco si siede un pochino. ci si riprende con la bella ‘bembele’, un pezzo soffuso e notturno dal groove cazzutissimo su cui carlos può fraseggiare leggero e ispirato mentre nel finale torna prepotente l’africa con l’esplosiva ‘candombe cumbele’, dominata dall’intreccio di percussioni e dai cori ma ancora solcata dall’ispiratissima chitarra di carlos.

il basso di benny rietveld è spesso in primo piano con pedali dal groove micidiale e un suono tondo e pieno ma quello che emerge più di tutto è un insieme (registrato live in studio) coeso, compatto e impastato in un mix semplice ed efficace, per una volta non rovinato da un master sovracompresso ma bello arioso; risultato? finalmente si sente il suono di un gruppo che suona insieme e non la sovrapposizione di tracce digitali.
lungi dall’essere un disco perfetto, ‘africa speaks’ si impone almeno come il miglior disco da ‘supernatural’; rispetto a quel colossal però rinuncia alla super produzione e al motocarro di ospiti, preferendo una dimensione live che dona maggior vita alla musica. va inoltre apprezzato come il concept africano si rifletta profondamente nella musica e aiuti a mantenere un’evidente unità d’intenzione per tutto l’album che non cerca mai il singolo d’effetto (di fatto si discosta quasi sempre dalla forma canzone) ma crea un flusso sonoro che rapisce come ai bei tempi.
bravo carlos, daje.