domenica 26 gennaio 2020

rush, 'rush'



1968: a willowdale, una cittadina nell’ontario, tre amici formarono un gruppo per scrivere canzoni ispirate ai loro idoli, led zeppelin su tutti. questi tre amici si chiamavano jeff jones (basso e voce), john rutsey (batteria) e alexandar zivojinovich, meglio conosciuto come alex lifeson (chitarra). dopo pochissimo tempo jones lascia e il suo posto viene affidato a un compagno di classe di lifeson, gary lee weinrib, conosciuto dai più come geddy lee e figlio di ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti (il nome geddy deriva da come la madre lo chiamava, col suo accento polacco).
con questa formazione il trio registra il suo primo 45, una cover di ‘not fade away’ con un mediocre pezzo originale come b-side che non porta quasi nulla al gruppo. diversa sorte avrà invece ‘rush’, il primo vero disco del trio, pubblicato nel ’74 tramite la loro stessa etichetta indipendente, la moon records, poi ripubblicato qualche mese dopo dalla major mercury. perché? semplice: donna halper, dj di cleveland, decide di passare per radio ‘working man’ e la canzone diventa un successo convincendo la mercury a mettere sotto contratto i giovani rush e cominciando un rapporto che durerà molti anni.

è lecito aspettarsi da ‘rush’ tutti gli elementi che renderanno famoso il trio canadese? no, proprio per nulla. a parte l’assenza di neil peart (questo è l’unico disco su cui non suona), il gruppo è ancora lontanissimo dai voli pindarici di ‘2112’, ‘la villa strangiato’ o ‘natural science’; come si diceva poco fa invece, l’influenza principale e palese è quella dei led zeppelin, lungo tutte le tracce che compongono l’album, a partire dall’esplosiva ‘finding my way’. uno dei pezzi migliori di tutto l’album, ‘finding my way’ deflagra con un riff che più rock di così non si può, utilizzato poi in maniera magistrale nel medley che apriva i concerti del trentennale nel 2004. la chitarra di lifeson inizia qui un processo di evoluzione che lo porterà molto lontano da questi suoni ma qui ancora è il rock degli anni ’70 a farla da padrone, con tanto di geddy che imita robert plant nei suoi ‘oooh yeah’ e ‘baby baby baby’. è un pezzo ben scritto e con una serie di riff e cambi ispirati ed efficaci, mentre non si può dire altrettanto di altre tracce del disco: la veloce ‘need some love’ ricoda più i deep purple, ‘take a friend’ i grand funk, ‘here again’ è una ballata bluesy mentre 'before and after’ è una ballata più classica (in cui un phaser sulla chitarra e una struttura più aperta lasciano intendere strade future, prima di un break rubato di forza da ‘over the hills and far away') ma ognuno di questi pezzi risente della poca esperienza dei membri del gruppo: non sono brutti pezzi ma sono molto ingenui e di certo non lasciano presagire molto di quello che i rush saranno capaci di fare.
‘working man’ è senza dubbio il capolavoro del disco, un hard rock muscolare e potentissimo con lo strillo graffiante di geddy a marcarlo a fuoco, un pezzo che resterà nelle scalette dei concerti per quasi tutta la carriera e che viene solitamente considerato come il primo lampo di genio dei rush. più che di genio parlerei di felice ispirazione, le influenze sono ancora molto marcate ma i riff sono tutti memorabili e il pezzo è obiettivamente una bomba.

poco dopo il disco, i rush iniziano a suonare sul serio dal vivo e john rutsey si chiama fuori: non ama la vita on the road e il diabete non gli permette una grande libertà per cui preferisce fare un passo indietro. si aprono le audizioni e viene scelto un ragazzo che arriva dalle campagne canadesi, un tipo serio e riservato che però sembra sapere il fatto suo quando si siede ai tamburi. si chiama neil ellwood peart e con il suo arrivo inizia davvero la meravigliosa storia dei rush.