lunedì 31 ottobre 2016

nanodischi: l'isola deserta



di recente qualcuno mi ha fatto notare che parlo spesso di capolavori e mi ha chiesto quali siano i 10 dischi che mi porterei sulla proverbiale isola deserta. ne è scaturito un ragionamento che è durato circa una settimana la cui conclusione è che questi 10 dischi cambierebbero almeno una volta all’anno a seconda del giorno ma, facendo una media, potrei arrivare a queste dieci opere, senza ordine particolare.



king crimson - in the court of the crimson king

senza ordine particolare ma questo è il primo. ero in seconda media, papà ha detto “se trovi questo cd prendilo” e io l’ho preso. in faccia, l’ho preso. al primo ascolto di ‘21th century schizoid man’ il mio cervellino dodicenne è esploso e da allora non si è più ricomposto. dopo quasi vent’anni d’amore, ancora oggi riesco a scoprire ad ogni ascolto particolari nuovi, sfumature, più vado in profondità con lo studio più mi accorgo di quanto questo disco sia semplicemente perfetto, da ogni punto di vista lo si guardi. oltre all'essere la prima opera di un genere compiuto (progressive) è anche la migliore in quel genere, qualcosa di cui ben pochi dischi si possono vantare.



herbie hancock - maiden voyage

replico poi con una “new” entry, ‘maiden voyage’ è arrivato sull’isola non più di tre anni fa ma non ha mai avuto la minima intenzione di andarsene. l’apporoccio aperto di hancock all’armonia e composizione, i suoi voicing sul piano, la poesia del timbro di freddie hubbard e la forza fisica del suono di george coleman. ovviamente c’è poi LA sezione ritmica, tony williams e ron carter, che si produce in una vera lezione di apertura mentale, spingendo l’interazione a livelli impensabili senza mai far calare il tiro liquido che traina l’intero album. poi se devo finire su un'isola deserta almeno un disco che parli di mare direi che ci vuole, no?


genesis - foxtrot

sarà un po’ scontato ma a me ‘foxtrot’ fa sentire a casa. in generale il suono genesis (i genesis esistevano con peter gabriel, quello che è successo dopo non mi riguarda) riesce sempre ad emozionarmi ma le canzoni di ‘foxtrot’ hanno una marcia in più, qui tutto giunge al compimento promesso da ‘nursery cryme’. ‘supper’s ready’ è ovviamente l’apice ma il disco non ha punti deboli e mi va di ricordare una perla che troppo spesso passa inosservata, ovvero ‘can-utility and the coastliner’, dall’incedere tra il sognante e il drammatico trainato da hackett e collins.



rush - exit: stage left

più passa il tempo e più faccio fatica a trovare un mio artista o gruppo “preferito” ma dovessi trovarne uno per forza, probabilmente direi i rush. musicalmente, liricamente e umanamente i rush sono sempre stati davanti a chiunque altro, la loro forza è semplicemente il loro modo di essere. ‘exit: stage left’ è come li ho conosciuti ed è, a parte il personale fattore emotivo, uno dei picchi nella loro discografia: un live che riassume le prime due fasi del gruppo, ogni pezzo qui presente è nella sua versione migliore.



prince - sign o’ the times

qui devo scavare ancora di più perché questo l’ho scoperto che di anni ne avevo undici, credo. che dire, lui era un genio che rimpiangeremo per sempre, il disco è uno dei suoi capolavori, potevo benissimo scegliere ‘purple rain’ o ‘parade’ ma questo è doppio, dura di più e c’è più prince, mi sembra una motivazione validissima per sceglierlo. poi, a pensarci bene, probabilmente qui il suono prince è al suo massimo compimento, in equilibrio fra weirdness, genio ed erotomania.



toto - iv

ecco un disco che, per quanto ricordo, conosco praticamente da quando sono nato. non mi viene in mente un periodo della vita in cui non ascoltassi ‘iv’, dalle elementari a oggi. qualsiasi dei primi 4 dischi dei toto sarebbe andato bene per questa lista ma ‘iv’ ha quel qualcosa in più, vuoi i suoni perfetti, la stratificazione impressionante di livelli sonori, lo stato di forma assoluto di ognuno dei membri o forse semplicemente le canzoni, da ‘rosanna’ ad ‘africa’ è una parata di gemme immortali.



queensryche - operation: mindcrime

sono quasi stato tentato di lasciare fuori ‘mindcrime’ dalla lsita ma sarebbe stato un gesto politico: oggi questo gruppo non esiste più e al suo posto c’è una pagliacciata da quattro soldi, i ryche senza tate fanno ridere, tate senza i ryche… lasciamo perdere che è meglio. torniamo piuttosto nelle vicende di nikki, sister mary e il dr.x, animate da un metal intelligente, profondo e ispirato che ha lasciato un profondo solco nella storia del genere. lo si può anche chiamare prog-metal volendo ma la trovo una definizione fuorviante, meglio semplicemente ‘queensryche’. hanno massacrato presente e futuro, per fortuna non riusciranno a toglierci questa pietra miliare.



today is the day - sadness will prevail

come lasciare fuori il “buon” steve austin? ‘sadness’ è un’opera d’arte nera, soffocante, agghiacciante, lacerante, cattiva. tutto ciò che è estremo è contenuto qui dentro, due ore e mezza di atrocità, urla, rumore, grind, death, psichedelia marcescente e coltelli nella carne. probabilmente il disco più estremo che abbia mai sentito, mi cambiò la vita quando uscì e ancora oggi mi rapisce ad ogni ascolto. l’ascolto della sola ‘never answer the phone’ può farvi capire di cosa sto parlando: 



led zeppelin - remasters

come per i toto, qualunque dei primi 4 dischi del gruppo poteva andare bene. vi dirò di più, qualunque dei primi 5 dischi, più le bbc sessions, invece sono così stronzo che ho scelto un best of. perché? perché è l’unica uscita ufficiale degli zeppelin che abbia più o meno tutto in un album solo, non ci sono altre opere che contengano sia ‘black dog’ che ‘kashmir’, ‘immigrant song’ e ‘achilles last stand’ e se devo avere un solo disco dei led zeppelin con me voglio che ci sia su più roba possibile.




crosby, stills, nash & young - 4-way street


non poteva mancare ovviamente una rappresentanza dei quattro hippie fattoni. questo compensa anche il fatto che non ho più spazio per mettere un neil young qualsiasi (’tonight’s the night’, ‘gold rush’ o ‘live rust’). l’indecisione è stata anche fra questo live e il grandioso cofanetto ‘csn’ del ’91 ma qui c’è più neil. devo dire qualcosa di quello che è uno dei 4-5 migliori live di sempre? no. qui c’è la miglior versione di ‘the lee shore’, c’è il cantautorato terreno di stills, gli svolazzi di crosby (una ‘triad’ da lacrime), le morbide melodie di nash e lo scazzo di young, prima che tutti e 4 esplodano nel secondo disco elettrico. 

mercoledì 26 ottobre 2016

david crosby, 'lighthouse'



un faro è una luce. nella sua semplicità, è un qualcosa di filosoficamente complicato e profondo, qualcosa in grado di guidare l’esistenza di un individuo al riparo da una tempesta, e david crosby di tempeste ne ha viste tante. ha vissuto la prima insieme ai byrds, poi ci son stati 46 anni di tempeste con stills e nash, per non parlare di quelle con young, poi la morte di christine hinton, l’alcol, la droga; a unire tutti questi punti dal ’68 a oggi sono sempre state due cose: la musica e il mare. il mare come casa, come riparo, come fuga, il mare come amico, il mare in ‘wooden ships’, in ‘shadow captain’, il porticciolo in ‘guinnevere’, il mare libero ed assoluto di ‘lee shore’. oceano e musica per crosby sono stati la salvezza ed ora che il mayan, la sua storica barca, è stato venduto a una cifra esorbitante, rimane la musica.

ci sarebbe forse da stupirsi per la bellezza di questo disco. un po’ perché il precedente ‘croz’ lasciava l’amaro in bocca, altalenando pezzi bellissimi a pezzi veramente brutti, un po’ perché qualsiasi suo disco dopo il capolavoro (assoluto, indiscutibile, eterno) ‘if i could only remember my name’ ha sempre avuto dei difetti, dalla scrittura non sempre a fuoco ad esecuzioni molto manieristiche. 
ora che il baffo è completamente bianco dopo 75 anni david torna con un disco quasi interamente acustico, senza percussioni e che suona incredibilmente moderno.
se è vero che l’estetica della sua musica non si è certo rivoluzionata, l’intervento di michael league, leader, bassista e produttore degli straripanti snarky puppy, dona un tocco cristallino e moderno all’album, dando verve a composizioni a due o quattro mani che già funzionano dalla prima all’ultima. sua inoltre l'idea di 'sfidare' david a registrare il disco in un paio di settimane, ottenendo così un effetto spontaneo e intenso.
i testi sono come sempre curatissimi e mai banali nel parlare di tutto quello che anima da sempre le parole di crosby: emozioni, musica e vita vissuta, ora che di invettive politiche non sembra più avere molta voglia. liricamente e musicalmente c’è un abbandono di quella coralità multiforme che animava ‘if i could only remember my name’, dalla moltitudine di ospiti ai proclami di massa di ‘what are their names’, per un ritorno alla dimensione individuale; chiusura o intima ricerca? molto probabilmente un po’ di entrambe.
la strumentazione come dicevo è ridotta all’osso e gira attorno alla voce e alla chitarra di david, l’intelligenza di league è proprio qui: attorno aggiunge seconde chitarre (12 corde, hammertone, pochissime elettriche), il basso subdolo e armonie vocali come se piovesse, talvolta un pochino plasticose ma va bene così. cory henry (snarky puppy e una marea di collaborazioni tra cui michael mcdonald e springsteen) colora di hammond qualche pezzo, facendosi notare per l’elettricità che infonde in ‘what makes it so’ mentre bill laurance (sempre snarky puppy) aggiunge delicati appoggi di piano in due brani. di base però sono proprio le canzoni a vincere, le aperture ariose di ‘drive out to the desert’, le tracce fortemente csn di ‘look in their eyes’, la fragile ma profonda emotività di 'the us below’, le fotografie di ‘paint a picture’, la grinta di ’the city’, ogni momento è un quadretto a sé e ognuno funziona sia da solo che nell’insieme, 40 minuti di disco che trovano apice nella finale ‘by the light of common day’: il faro ritorna, david parla dell’ispirazione, di come la cercasse nella droga prima di rendersi conto di averla dentro di sé senza bisogno di rovinarsi la vita. le parole sono sincere e autentiche e si snodano sulla bellissima musica scritta da becca stevens (anche ai cori), cantante americana già collaboratrice di brad mehldau e degli stessi snarky puppy.


stupisce ‘lighthouse’ per la sua profondità e per la sua bellezza anche se forse, dopo 50 anni di carriera, non dovremmo più stupirci del fatto che crosby sappia scrivere grande musica. stupisce più che ritorni così in forma dopo anni un po’ in letargo, così come stupisce la collaborazione con league e la modernità di questo disco. in tutto questo però è esattamente come ti aspetti un disco acustico di david crosby: aperto, armonie ricercate, accordature aperte e la voce di un vecchio che tra crack, ero, coca, canne, prigione e malattie sessuali è un miracolo che stia in piedi, figurarsi che scriva buona musica, la suoni bene e la canti da dio.