martedì 29 settembre 2020

grip inc., 'power of inner strenght'


i grip inc. sono uno dei gruppi metal più sottovalutati nell storia del genere. maldestramente considerati da molti come “il side project di dave lombardo”, sono in realtà una fusione di caratteri molto forti la cui unione genera un suono che, seppur partendo dalla lezione degli slayer, è unico quasi tanto quanto quello dei numi tutelari.


i fautori di questo suono sono quattro: waldemar sorychta (chitarrista polacco e produttore di una camionata di gruppi metal negli anni), gus chambers (cantante inglese, veterano della scena punk, tristemente scomparso nel 2008), il già citato lombardo e il bassista americano jason viebrooks.

conosciutisi durante la tragicomica esperienza dei voodoocult (una vaccata da spinal tap messa in piedi dal mediocre cantante tedesco philip boa), lombardo e sorychta decidono di formare un gruppo per unire le loro idee, con lombardo a volersi svicolare dal ruolo di ex-slayer e sorychta a cercare un posto da musicista oltre che produttore.

il suono dei 4 dischi del gruppo è sempre perfetto, registrazioni limpide ma corpose, mix equilibrati che danno il giusto spazio a ogni strumento e mastering potente e cristallino, tutto mirato a valorizzare lo stupefacente insieme di questi musicisti. un insieme spesso fatto di contrasti: la fisicità di lombardo si contrappone alla chirurgica ingegneria di sorychta complementata dal basso mentre chambers urla, ringhia, narra, canta in maniera sempre aggressiva ma senza mai sfociare nello scream o growl, un approccio sicuramente più hardcore che metal.


poi la vittoria assoluta la ottengono con i pezzi. ‘power of inner strenght’ è il primo disco del progetto, registrato nel ’94 e uscito nel ’95; dei quattro album pubblicati è quello meno efficace ma solo perché ancora in parte acerbo: l’influenza degli slayer è palese in vari brani ma quando il gruppo ingrana la marcia giusta ne escono già dei pezzi incredibili.

ad esempio dopo la breve intro percussiva di ‘toque de muerto’ deflagra ‘savage seas’, un rincorrersi di riff tanto aggressivi quanto geometrici durante il quale lombardo è protagonista con un suono che finalmente gli rende giustizia. difficile non pensare agli slayer quanto parte ‘hostage to heaven’ tra il riff e le smitragliate di doppia cassa, eppure il break centrale dimostra che i grip inc. hanno molto altro da dire, dal groove micidiale alle invenzioni chitarristiche di sorychta. però è ‘monster among us’ a mostrare veramente la via per il futuro del gruppo, un mid-tempo rotolante in cui si avverte il contrasto tra la fisicità della batteria di lombardo e la voce di chambers con la pulizia scientifica delle chitarre, creando dinamiche sempre interessanti ed esplosive.

allo stesso modo è memorabile ‘cleanse the seed’, drammatica e intensa anticipa già le atmosfere che faranno grande ‘solidify’ con strati di chitarre aperti e sorretti dal tappeto ritmico di un lombardo incontenibile.

il carattere vocale di chambers marchia tutti i brani; non si può certo dire che sia un cantante dinamico e questo per alcuni può essere uno scoglio ma si potrebbe dire lo stesso di tom araya e di mille altri urlatori metal. però, come dicevo prima, chambers ha un approccio diverso dal classico metal e la sua aggressività rauca è parte fondamentale del suono del gruppo e in futuro prenderà anche altre sfumature, a volte melodiche, altre quasi teatrali nell’interpretazione molto intensa.


‘power of inner strenght’ non è il miglior disco dei grip inc. ma come punto di partenza spacca già culi a ripetizione con un’idea sonora molto precisa che si farà ancora più focalizzata ed efficace coi dischi successivi, oltre a farsi ricordare per la prestazione animalesca di tutti i partecipanti. 




giovedì 24 settembre 2020

grip inc., 'solidify'


al terzo disco, i grip inc. centrano in pieno il loro personale capolavoro: ‘solidify’ porta al culmine il suono del gruppo grazie a un’evidente stato di ispirazione in fase compositiva unito ad un’altra prestazione maiuscola di tutti i componenti.


l’aggressione si fa più psicologica ma non meno fisica, i tempi medi rallentano ma la batteria di lombardo garantisce sempre una botta allo stomaco. sono soprattutto le chitarre di sorychta ad essere protagoniste: non c’è un riff sbagliato, ogni incastro è perfettamente studiato per mantenere il groove costante, anche nei momenti più veloci (la selvaggia ‘amped’ è un esempio perfetto di ferocia controllata), il suono è pieno, articolato, dinamico e stratificato, con il tono tagliente ma corposo che abbiamo imparato ad amare nei primi due album reso ancora più efficace da una produzione perfetta.

le coordinate sonore generali non variano tantissimo da ‘nemesis’: per quanto ci si trovi meno velocità e parossismo, il groove-metal dei grip inc. ha trovato la sua dimensione e ora la esplora a fondo.


come dicevo, i pezzi sono tutti belli e non ci sono cali di tensione. ci sono però dei picchi, una manciata di canzoni che spiccano su tutte: ‘amped’ è velocità e aggressione ma le chitarre geometriche la rendono subdola e rotolante mentre chambers si distrugge l’ugola; ‘griefless’ invece è dinamica e cadenzata, pesantissima nel suo riff principale ma tremendamente groovy e drammatica nel crescendo che accompagna l’assolo, mentre chambers mostra una dinamicità fin qui inedita; ‘vindicate’ potrebbe essere usata come biglietto da visita per il gruppo, un 5/4 roccioso con lombardo a trascinarsi tutti e una vena industriale e paranoica che la attraversa (notare i synth bassissimi negli ultimi ritornelli, un espediente che per tecnica fa venire in mente il piano di ‘rock ’n’ roll’ degli zeppelin). ma come non citare l’entrata a gamba tesa di ‘isolation’, le geometrie oblique di ‘foresight’ o la tensione melodica teatrale di ‘human?’, per non parlare dell’incredibile finale del disco con i controtempi mozzafiato di ‘verrater’ e la creatività sciolta dello strumentale ‘bug juice’ in cui trova posto anche un solo di batteria. 


‘solidify’ è un disco compatto, ispirato e riuscito dall’inizio alla fine, la dimostrazione di come nel 2000 si potesse fare metal creativo e fantasioso ma con un impatto fisico ed emotivo sempre travolgente, è il momento più alto nella carriera di un gruppo tragicamente sottovalutato. se vi piace il metal e non avete mai sentito ‘solidify’ correte subito ai ripari, non ve ne pentirete.



grip inc., 'nemesis'

 


il secondo disco dei grip inc. definisce ufficialmente forma, suono e contenuti del gruppo ed è uno dei loro due album imprescindibili assieme a ‘solidify’.

riff e arrangiamenti si fanno ancora più tight e groovy ma aprono ulteriormente le possibilità sonore, dal minuto e mezzo di legnate impietose di ‘portait of henry’ agli spazi della strofa di ‘empress’ e ‘descending darkness’ per arrivare al metal bolero della incredibile ‘scream at the sky’. 


la prestazione dei singoli musicisti è superiore a quella del primo disco da tutti i punti di vista, suono, inventiva, precisione e groove. la voce di chambers si fa più dinamica e cresce di intensità nell’interpretazione dei suoi testi neri e nichilisti, le chitarre di sorychta hanno un timbro perfetto e si prodigano in mille invenzioni ritmiche, melodiche e armoniche, le stratificazioni danno una grandissima profondità al suono (l’epica ‘code of silence’ posta in chiusura è un ottimo esempio di tutto questo); lombardo è alla sua miglior prestazione su disco fin qui: se il suo suono resta inamovibile, dave dà prova di un’inaspettata duttilità ritmica e sfoggia un groove inarrestabile per tutto il disco, dalle classiche sdoppiocassate ai mid-tempo ai momenti atmosferici la sua batteria è protagonista tanto quanto chitarre e voce. il basso, come nel 99% dei dischi metal, fa il suo lavoro dietro a sorychta riempiendo lo spettro sonoro ma senza mai farsi notare più di tanto.


c’è più focus sulla composizione e sui singoli brani, molti meno momenti generici e molte più canzoni inattaccabili: ‘pathetic liar’, le già citate ’portait of henry’ e ‘scream at the sky’ o l’indimenticabile, intensissimo singolo ‘rusty nail’ sono vere e proprie lezioni di metallo che frullano quasi vent’anni di storia del genere in un suono originale, fresco e difficilmente imitabile. lo strumentale ‘descending darkness’ non è da meno, con le sue influenze industrial-rumoristiche crea un atmosfera molto cinematografica sfruttando la potenza della batteria di lombardo. da citare anche la pesantissima ‘the summoning’, che si apre in un inaspettato ritornello con pad ariosi e impalpabili e la voce di chambers a sussurrare, e l’incredibile ‘code of silence’ che chiude il disco con una struttura quasi prog in cui cambi di tempo e atmosfera si susseguono travolgendo l’ascoltatore.


‘nemesis’ è un manuale di metal moderno e originale fatto da musicisti dal grande carattere, non troverete lo stesso suono altrove. la maturazione compositiva lo pone almeno una spanna sopra all’esordio, un paio di anni dopo i grip inc. riusciranno a fare ancora di meglio ma intanto questo è un disco da consumare.



martedì 22 settembre 2020

napalm death, 'throes of joy in the jaws of defeatism'


i napalm death sono un caso musicale unico. con la loro nascita hanno praticamente creato il suono grindcore più di 35 anni fa insieme ai carcass, poi la formazione si è sparpagliata, non è rimasto più nessuno degli originali ed è arrivato il gustoso death di ‘harmony corruption’ con l'ingresso di barney greenway; poi le derive groove-industrial dai toni post-punk dei sottovalutati dischi anni ’90 come ‘diatribes’ o ‘fear, emptiness, despair’ per poi tornare a pestare come dannati negli ultimi 20 anni. la media qualitativa dei loro dischi è sempre alta ma ogni tanto se ne escono con un album che spicca e si fa ricordare più degli altri; è successo con l’animalesco ‘order of the leech’ nel 2002, è successo con il superlativo ‘utilitarian’ del 2012 che inseriva un’evidente vena hardcore nei pezzi e succede oggi con ‘throes of joy in the jaws of defeatism’ che va a pescare proprio dai citati anni ’90 del gruppo con sonorità che talvolta si avvicinano all’industrial, parti di synth che compaiono ogni tanto e una carriolata del classico groove di cemento del gruppo. questo non vuole certo dire che l’aggressività venga meno, il disco è infarcito di blast e parti a velocità smodata, non vi preoccupate.


bellissime le parti di chitarra, creative e con un suono urticante, un’altra prova eccellente di mitch harris che si riconferma come uno dei migliori chitarristi estremi in circolazione; il basso di embury è tanto animale quanto perfettamente controllato nei toni e nella distorsione mentre herrera è la solita macchina da guerra. barney non ci si spiega come possa ancora avere quel ruggito feroce, la sua voce è pura rabbia sputata in faccia con una violenza ai limiti dell’umano.


i pezzi “normali” sfoggiano un catalogo di riff pazzeschi, da ‘fuck the factoid’ (un’apertura apocalittica) a ‘zero gravitas chamber’, ‘backlash just because’ o la violentissima title-track sono tutti manuali di come fare musica che ti uccide la faccia (per dirla coi manowar) con riff imbizzarriti e urla col sangue agli occhi che continuano la polemica sociale iniziata con ‘scum’ tanto tanto tempo fa.

quello per cui però il disco si fa davvero ricordare sono i momenti più bizzarri: ‘joie de ne pas vivre’ è un gioiellino (già dal titolo) di noise-core guidato dal basso con la chitarra a produrre effetti alienati di sfondo e la seguente ‘invigorating clutch’ introduce strati quasi ambientali su un pezzo che si potrebbe definire dilatato per i napalm death. ‘amoral’ è uno dei pezzi migliori del disco, un momento in cui l’influenza dei killing joke si fa protagonista e si trovano addirittura delle melodie vocali mischiate al ringhio di barney, forse però è la conclusiva ‘a bellyful of salt and spleen’ a meritare la palma di miglior pezzo del disco, un incubo industriale in cui sembra che justin broadrick sia per un attimo tornato nel gruppo a portare una ventata di godflesh con dissonanze sferraglianti, batteria monolitica, rumori distorti e una voce alienata quasi ieratica (come la famosa voce dei king bong, per chi sa). 


non manca qualche momento un po’ generico ma in generale il disco non cala mai e intrattiene per 40 minuti abbondanti con una sfumatura dei napalm death non del tutto inedita ma sicuramente ispirata che convince ancora una volta dopo 35 anni di storia con una coerenza che ben pochi possono rivaleggiare, non solo nel metal. bello, bello, bello e bello, bravi cazzo. come sempre? no, un po’ di più.




lunedì 7 settembre 2020

motorpsycho, 'the all is one'


nel 2019 i tre norvegesi hanno registrato una quantità di materiale enorme, in varie forme, in vari studi, per vari progetti. parte di queste registrazioni erano per il bel disco del cantautore ole paus, in cui i motorpsycho insieme a reine fiske accompagnavano il poeta con bellissimi bozzetti progressive squisitamente retrò. ecco ora giungere un’altra ora e mezza di musica da quel periodo, registrata in due diverse sessioni, una in francia e una in norvegia. dalle sessioni francesi (ancora con fiske) arrivano i pezzi che aprono e chiudono il disco, tra i più diretti e melodici che il gruppo abbia pubblicato da almeno dieci anni, mentre da quelle norvegesi arriva il clou del discorso, la suite ’n.o.x.’ di 42 minuti, in compagnia di lars horntveth dei jaga jazzist (tastiere e lap steel) e ola kvernberg agli archi.


l’unica grossa critica che ho da fare al disco è l’orrenda divisione delle tracce: la suite viene troncata alla fine del primo cd per riprendere nel secondo, se nell’edizione digitale questo è un problema minore, in quella fisica risulta essere una enorme stronzata. inoltre la scelta di mettere altri 20 minuti di musica dopo una suite di 42 fa sì che l’ascolto di questi ultimi sia appesantito e non ne valorizza le qualità. personalmente avrei apprezzato molto di più la divisione netta in due cd tra pezzi e suite, se non una pubblicazione della sola ’n.o.x.’ che sarebbe risultata in un disco più che memorabile. tant’è, facciamo i conti con quello che abbiamo.


i pezzi “normali” sono motorpsycho che di più non si può: basso potente e fantasioso, batteria dal tiro micidiale (tomas järmyr sembra finalmente più inserito e presente nelle trame del gruppo), chitarre sature che riempiono tutto, delicati momenti acustici, tutto coronato da armonie di voce quasi prese di peso dagli yes. i riferimenti sono quelli degli ultimi 10-15 anni, da (appunto) gli yes ai king crimson ma con forti dosi dei crosby, stills & nash più elettrici e un gusto strutturale negli arrangiamenti che ricorda gli amati grateful dead. ‘the all is one’ e ‘like chrome’ funzionano alla grande ma non stupiscono, ‘the same old rock’ incanta per dinamiche e melodie e lo stesso si può dire di ‘magpie’ o ‘dreams of fancy’, non ci sono pezzi brutti, ma…


ma ’n.o.x.’ è a un altro livello. è un capolavoro di equilibrio strumentale che nel suo svolgersi in cinque parti accumula e rilascia tensione in continuo, passando da ostinato dispari quasi jazz-rock serrati e cavalcanti a oasi di psichedelia oscura, giocando con arrangiamenti di archi (contiene un assolo di violino che vi farà cadere la mascella) e con i deliziosi interventi di lap steel in una struttura tortuosa ma fluida e lineare, con passaggi che vanno dal liquido a stop ’n’ go pazzeschi. sembra di sentire una versione espansa di ‘big black dog’, sia per suoni che per ispirazione, con un mix da brividi a tenere insieme la baracca (questo anche nei pezzi “francesi”). 

non si inventano niente di nuovo, ci sono tracce dell’epicità di ‘death defying unicorn’, del prog di ‘here be monsters’ e della caotica psichedelia di ‘heavy metal fruit’, semplicemente la composizione del brano è ispirata e il tutto risulta come una delle migliori prove in studio dello straripante talento dei motorpsycho.


facendo una media, purtroppo il valore dell’opera totale è abbassato dal troppo materiale e dalla sua maldestra organizzazione; questo però non deve assolutamente fermarvi dall’ascoltare ’n.o.x.’ perché è uno dei momenti più alti nella lunga storia dei motorpsycho. in generale comunque ‘the all is one’ è il miglior lavoro del gruppo da un po’ di anni, superando il pur buon ‘the tower’ e il deludente ‘the crucible’.

se solo non ci fosse una cazzo di pandemia, dal vivo ne vedremmo delle belle.

giovedì 3 settembre 2020

pain of salvation, 'panther'

a tre anni dalla rinascita con ‘in the passing light of day’, tornano i pain of salvation con ‘panther’, decimo disco in studio.

la turbolenta dipartita di ragnar zolberg, con conseguente rientro in pompa magna di johan hallgren, ha lasciato tutti un po’ perplessi: dopo il disco del 2017 sembrava che il gruppo avesse finalmente trovato una nuova compattezza, invece a metà del tour ci si ritrova con l’islandese cacciato malamente (pare) da gildenlöw e hallgren che deve sostituirlo alla chitarra e cori. più di recente è giunta la notizia della defezione di gustaf hielm, scombussolando ulteriormente l’immagine del gruppo.

tutto questo sembra non aver influito più di tanto sul nuovo disco: daniel scrive da solo musica e testi e suona tutti gli strumenti tranne un solo di chitarra di hallgren e la batteria (anzi, in ‘unfuture’ suona pure quella). spirito di gruppo, portami via.


‘light of day’ (o 'remedy lane 2') ci ha restituito una band in gran forma ma funzionava un po’ da bigino dei pain of salvation, riassumeva la carriera senza tentare grandi salti; ‘panther’ arriva in faccia con una valanga di synth digitali acidi e arroganti, mostrando la voglia di gildenlöw di portare la sua creatura in territori nuovi e questo è uno dei meriti più grandi di un album che funziona al suo massimo proprio quando osa e sperimenta. nonostante ciò, non avrete mai dubbi su chi abbia scritto la musica: il suono pain of salvation è marchiato a fuoco su ogni melodia e arrangiamento, in particolare le atmosfere di ‘one hour by the concrete lake’ tornano a più riprese in brani come ‘unfuture’, ‘keen to a fault’ o ‘species’.


togliamoci i dolori di mezzo. la pecca maggiore del disco sta nella chiusura, con due brani (‘species’ e ‘icon’) che per suono e approccio sembrano provenire da un altro album, oltre a non essere particolarmente ispirati per quanto non brutti. sembra di sentire una scia di ‘light of day’, i pain of salvation che giocano a fare se stessi, eliminando i synth e andando a scalfire la coesione del disco. la prima è una ballad dai toni folk che pare arrivare dalle sessioni di ‘road salt’ mentre la seconda è la lunga (13 minuti) chiusura drammatica, ha degli ottimi momenti ma non regge il paragone con chiusure passate come ‘the perfect element’, ‘beyond the pale’ o ‘enter rain’ e finisce col sembrare una ‘passing light of day’ sbiadita.

per fortuna il resto è tutto solido, di livello molto alto e con notevoli picchi: l’aggressione cyber-digital-prog di ‘accelerator’ e ‘panther’ è esaltante, ‘unfuture’ è scura e asfissiante come ’the big machine’ mentre lo spleen metropolitano di ‘restless boy’ è magnetico nonostante un ritornello fin troppo meccanico (un’alternanza di quintine e settimine che più prog non si può). ‘wait’ incastra bellissime melodie su un ostinato di piano di due misure in 11/16 e 13/16, per quanto sulla carta possa sembrare una sboronata, il risultato funziona molto bene; un po’ meno ‘keen to a fault’ che sembra citare i king crimson nella bella strofa per poi risultare un po’ facilotta nel ritornello. 


le strutture sono piuttosto lineari e semplici: nonostante i tempi dispari ci si trova spesso di fronte a strofa-bridge-ritornello, un po’ come fecero anche i rush quando scoprirono i synth. c’è più importanza ai singoli brani che a una narrazione orizzontale, portando il disco più vicino ad episodi come ‘scarsick’ o ‘road salt’.

è il suono generale a farsi ricordare, una versione digitalizzata e distopica del progressive del gruppo, senza dimenticare le classiche contorsioni ritmiche e l’emotività che è ormai marchio di fabbrica.

la “finzione di gruppo” funziona bene, gli arrangiamenti sono così stratificati e ripieni di synth ed effetti che la mancanza di una reale band non pesa particolarmente, non essendoci quasi mai un focus preciso su questo o quello strumento. comunque ottima la prova alla batteria di leo magrit.

tutto viene comunque messo in ombra dalla voce di gildenlöw. gli ultrasuoni di un tempo sono andati ma la voce è maturata e con essa una padronanza tecnica che ha del sovrumano: il controllo timbrico, le minime inflessioni, il falsetto, tutti strumenti per una carica interpretativa con cui ben pochi possono competere nel panorama progressive (e non solo), è la voce a trainare i pezzi, l’elemento umano contro i synth digitali, un po’ come nel concept.


ecco, il concept. non c’è una narrazione come in altri episodi passati, è più l’analisi sociale di un mondo che gildenlöw divide in ‘cani’ (i burocrati, gli ‘efficienti’, quelli che obbediscono senza porsi domande) e ‘pantere’ (i creativi, i diversi, gli esclusi) in maniera non scevra da una certa arroganza, un po’ come succedeva in ‘be’. comunque nell’argomento c’è da scavare e i testi lo fanno bene, presentando una serie di situazioni diverse in cui lo scontro fra i due mondi porta a riflettere sulle differenze e sulle proprie posizioni. resta un po’ di perplessità di fronte a versi come ‘heal our time, please heal mankind’, cantati con enfasi da musical che quasi manco michael jackson. il booklet si chiude con un “to be continued…” per cui pare che le pantere torneranno in futuro.


per chiudere, ‘panther’ è un gran disco, per certi versi anche meglio dell’ormai illustre predecessore, almeno nel suo cercare modi per dare nuova carica al suono del gruppo/progetto (mi si permetta una lieve riluttanza nell'uso del termine "gruppo" per questo album). molti alti e pochi bassi fanno un album che potrà fare schifo a qualcuno ma sicuramente emozionerà molti altri, più o meno come fanno tutti i disconi. non è così frequente che un gruppo/progetto/artistasolista, dopo 25 anni di carriera, ne sia ancora capace e ne abbia ancora voglia.

attendiamo il bis.