domenica 25 aprile 2021

rush, 'feedback'


come a voler alleggerire l’atmosfera dopo il denso ‘vapor trails’, per il proprio trentennale i rush pubblicano un divertente ep di cover in cui recuperano le loro influenze giovanili per rendere tributo ad alcuni dei loro eroi: blue cheer, yardbirds, buffalo springfield, cream, who e love.

due settimane totali di registrazione per una manciata di canzoni storiche, otto performance ad altissima energia ed elettricità tra cui spiccano ‘summertime blues’, ‘for what it’s worth’, ‘the seeker’ e ‘crossroads’, registrata live in studio.


non c’è moltissimo da dire sul disco in se, è un divertente ep di mezz’ora scarsa in cui si sentono i rush suonare fuori dalle loro solite strutture strette e/o labirintiche, un approccio più da jam che diverte sia loro che noi. 

ma in realtà l’ep è poco più di una scusa, un’uscita transitoria per giustificare un tour mondiale chiamato R30 per il trentesimo anniversario dei rush che li porterà per la prima volta anche in italia, per la precisione al mazda palace di milano il 21 settembre 2004 (me lo ricordo abbastanza bene, alle otto e mezza di mattina ero fuori dal palazzetto.).

i live di R30 sono un’esplosione di rush all’ennesima potenza, con una scaletta che ripercorre trent’anni di capolavori, fiamme, video ancora più scemi, scenografie nonsense, un vero e proprio tripudio di tutto ciò che il gruppo è sempre stato che mandò in visibilio il numero ormai enorme di fan in tutto il mondo.


dopo 30 anni di carriera i tre canadesi dimostrano non solo di aver mantenuto il proprio pubblico ma di essere stati capaci di conquistarne continuamente di nuovo e a 40 anni dall'esordio fanno il tutto esaurito nei palazzetti e stadi di tutto il mondo, godendosi finalmente una gloria più che meritata e sudata.

 

domenica 18 aprile 2021

rush, 'vapor trails'

 

e poi, in un freddo giorno del gennaio 2001, un comunicato stampa: i rush si sono ritrovati per fare cose. non era esattamente così ma non era molto più dettagliato e ha lasciato tutti noi ad aspettare ulteriori sviluppi che non tardarono ad arrivare.

quello che è successo è semplice: neil un giorno di settembre nel 2000 ha alzato il telefono e ha chiamato gli altri, “ciao amici, sono vivo, che si fa?”. a quel punto i tre si ritrovano e parlano per settimane, poi timidamente iniziano ad improvvisare e quindi a comporre seriamente. a quel punto viene coinvolto paul northfield come produttore e iniziano le sessioni di registrazione. tutto semplice e lineare.


‘vapor trails’, al momento dell’uscita, ha due grossi difetti: il mastering e la durata. se la seconda può essere un problema soggettivo, il danno fatto dal mastering non lo è affatto, inficiando pesantemente sulla godibilità di un disco talmente sparato e compresso da distorcere continuamente e devastare la profondità dei brani, già minata da un mix che pare fosse sfuggito di mano alla band stessa. ce ne siamo accorti tutti e se n’è accorto anche il gruppo, al punto che nel 2013 verrà pubblicato ‘vapor trails remixed’, un completo restyling del disco, remixato da david bottrill e masterizzato da andy vandette. è a questa edizione che mi riferirò per tutta la recensione poiché quella originale, francamente, mi fa incazzare. non che il remix sia perfetto: la batteria è stata trattata con sample che ne rendono il suono artificioso e un po’ troppo plasticoso ma il miglioramento della spazialità e profondità complessivi rispetto all’osceno originale è miracoloso.


a parte tutto questo, siamo tutti stati presi a schiaffi dal signor peart quando abbiamo messo il cd nel lettore ed è partita ‘one little victory’ con una doppia cassa terremotante che introduce un riff gigantesco di chitarra. i rush si presentano entrando a gamba tesa con una canzone che resterà tra le preferite dei fan, una furia hard in cui i tre strumenti si rincorrono e si incastrano con una verve che supera quasi qualsiasi cosa abbiano registrato nei 10 anni precedenti. poi arrivano i rush più aperti con ‘ceiling unlimited’ ma è con ‘ghost rider’ che la mandibola cade a terra e gli occhi si inumidiscono di fronte a un brano perfetto in cui chitarre e basso si intrecciano continuamente per accompagnare lo splendido testo di neil.

è importante notare come non ci sia traccia di tastiere o synth per tutto l’album, è il disco (hard) rock di un trio che pesta sugli strumenti come non faceva da tanto tanto tempo, se mai l’aveva fatto così intensamente. anche le stupende melodie e aperture di ‘the stars look down’ sono alternate a sfuriate di chitarra che toccano anche il metal, creando un gioco di contrasti che è veramente l’anima di ‘vapor trails’.


si diceva che anche la durata è un difetto del disco: 67 minuti sono decisamente troppi per tutta questa spinta, se si fosse scesi a 45-50 il disco sarebbe stato ancora meglio. non che ci sia roba brutta eh, quando mai, però di pezzi come ‘how it is’, ‘nocturne’ o ‘out of the cradle’ se ne sarebbe anche potuto fare a meno, non sono nulla più delle canzoni meno interessanti di ‘test for echo’. di contro rispetto al disco precedente ‘vapor trails’ ha svariati picchi: abbiamo detto di ‘victory’, ‘ghost’ e ‘stars’ ma non ancora della travolgente ‘earthshine’ con le sue chitarre mostruose e riff giganteschi o del capolavoro del disco, ‘vapor trail’, la versione ulteriormente migliorata di ‘test for echo’, quel prototipo di “canzone dei rush” di cui parlava geddy. ancora una volta sono i contrasti a renderla viva, contrasti dinamici, timbrici e armonici su cui geddy canta melodie avvolgenti, una canzone da pelle d’oca. ‘secret touch’ non è tanto da meno, con controtempi che intervengono dritti sulle ginocchia e un ritornello magico in cui geddy sfrutta la sua scoperta delle armonie e sovraincisioni vocali sfruttata su ‘my favourite headache’.

c’è tempo per un colpo di coda con ‘sweet miracle’, un pezzo più morbido marchiato dall’intensa interpretazione vocale di geddy che con gli anni ha perso in altezza ma guadagnato incredibilmente in carattere ed emotività.


i tre pezzi finali purtroppo non reggono il confronto e risultano un po’ come un’appendice che nulla aggiunge al disco.

a parte questo, i rush non solo tornano alla vita ma tornano ad una forma (almeno nella scrittura) che non si sentiva dagli anni ’80: ‘vapor trails’ è un disco compatto, intenso, divertente, complesso, tutto quello che si poteva volere da un gruppo che stava per compiere 30 anni. facendo finta che non sia mai uscito con quell’abominio di mix/master originale, è una rinascita che ha del miracoloso, come ampiamente dimostrato dal tour che seguì e testimoniato dallo stellare live ‘rush in rio’ che per la prima volta rompe la sacra sequenza per dare ai fan 3 ore e passa di pippe a due mani, se posso essere fine. è un tour che recupera di tutto, da ‘natural science’ e ‘la villa strangiato’ a ‘new world man’ passando per il meglio degli anni ’90 e una deliziosa ‘the pass’ ripescata da ‘presto’. un successo mondiale che culmina in quella data ormai leggendaria a rio de janeiro il 23 novembre del 2002.


i rush erano tornati e nessuno poteva fermarli.

sabato 17 aprile 2021

geddy lee, 'my favourite headache'

 

mentre neil lotta con i suoi fantasmi in giro per il continente, a geddy capita un’opportunità. proprio durante il tour di ‘test for echo’ si era incontrato con il suo amico musicista, polistrumentista, compositore e produttore ben mink, violinista degli fm e collaboratore di lunga data di kd lang. i due avevano jammato insieme e si erano ripromessi di provare un giorno a fare qualcosa insieme. quel giorno sembrava arrivato e mink fu ospite di geddy nel suo studio casalingo per un paio di settimane, durante le quali composero insieme ‘my favourite headache’.


se alex nel suo disco si era dato a un suono strano, aggressivo e sgraziato, geddy invece confeziona una collezione di canzoni molto più pop-rock di quanto i rush avrebbero mai fatto. la sua attenzione è sulle melodie, oltre che ovviamente sul basso. ‘my favourite headache’, uscito il 14 novembre del 2000, ha permesso a geddy di sperimentare con le armonie vocali ed aprirsi un mondo di sonorità che non mancheranno di farsi sentire negli ultimi rush: controcanti, vocalizzi in sottofondo, tracce raddoppiate, gli strumenti utilizzati sono tanti e rappresentano una delle cose migliori del disco visto che danno modo al bassista di evolvere in modo evidente anche il suo modo di cantare.

mink si occupa delle chitarre (suonate anche da geddy) e degli archi mentre per le batterie viene reclutato matt cameron dei pearl jam/soundgarden, un batterista rock molto più diretto e meno cervellotico dell’architetto peart.


mentre ‘victor’ è stato più un divertissement di lifeson, ‘my favourite headache’ è un disco vero e proprio che nei suoi momenti migliori propone pezzi che a livello qualitativo non avrebbero stonato in un disco dei rush. due canzoni in particolare spiccano, la title-track e ‘working at perfekt’. una apre il disco con un’energia contagiosa e vbrante, con il basso bello davanti a guidare i giochi e qualche riff che pare uscito dalle dita di alex; ‘working at perfekt’ invece è un pezzo più drammatico in cui è la composizione a brillare, aiutata dalle belle chitarre di mink che sostengono un gran lavoro melodico di geddy.

il groove di cameron è molto diverso da quello di neil e lascia più spazio al basso per orpellare le frasi liberamente, confermandosi una scelta più che azzeccata per il tono più pop-rock del disco: la sua alchimia con geddy alla ritmica è un piacere da ascoltare per tutto il tempo.


i pezzi finiscono abbastanza in fretta su una media buona ma con un tono fin troppo disimpegnato che finisce per far distrarre l’ascoltatore, non ci sono particolari melodie che si appiccichino in testa ma è comunque un ascolto gradevole, fosse anche per l’evidente divertimento di geddy e per la sua prestazione maiuscola al basso (‘moving to bohemia’ è retta dal suo strumento da solo praticamente). ‘home on the strange’ e ‘the present tense’ sono due bei pezzi rock con un groove che vi farà muovere il culo ma non mancano momenti molto meno convincenti come le due ballad ‘the angel’s share’ e ‘slipping’, appesantite ulteriormente da arrangiamenti eccessivi. per fortuna con ‘grace to grace’ il disco si chiude con una bella energia con ancora il basso protagonista.


decisamente più riuscito di ‘victor’, ‘my favourite headache’ mostra geddy in gran forma, soprattutto con molta voglia di andare avanti ed evolvere il suo modo di fare musica. se anche non tutti i pezzi sono riusciti benissimo poco importa, i suoi effetti si faranno decisamente sentire quando i rush torneranno in studio.


domenica 11 aprile 2021

rush, 'different stages'



il 10 agosto 1997, un mese dopo la fine del tour di ‘test for echo’, neil peart inizia a venire preso a calci in faccia dalla vita quando un poliziotto si presenta a casa sua per informarle lui e la moglie della morte di selena, loro unica figlia, in un incidente stradale. nell’anno successivo neil fa di tutto per aiutare la moglie che si ammala di cancro e muore nel giugno ’98. a quel punto peart è distrutto, sale sulla sua moto e parte, dicendo ai suoi due compagni di considerarlo come ritirato. come se non bastasse, durante il viaggio muore anche il cane del batterista e uno dei suoi migliori amici viene incarcerato negli stati uniti per possesso di droga. la moto viaggerà a nord fino in alaska prima di puntare al messico e arrivare fino in belize, un viaggio ovviamente pieno di riflessioni e pensieri che saranno raccontati nel libro ‘ghost rider’.


per mantenere vivo l’interesse nei confronti del gruppo, vengono pubblicati prima due best of (i due volumi ‘retrospective’), poi si decide di frugare negli archivi live per vedere se si trova qualcosa di interessante.

‘different stages’ è l’ultimo live dei rush a combaciare con la sequenza (puramente casuale, secondo la band) “4 dischi in studio-1 live”. è anche un documento fondamentale perché non solo ritrae la band durante il trionfale tour di ‘test for echo’ in due cd ma ne aggiunge un terzo contenente un concerto del febbraio ’78 a londra, durante il tour di ‘a farewell to kings’.


il grosso del live principale è la registrazione del concerto tenutosi a tinley park nell’illinois il 14 giugno del ’97. che altro vi devo dire, è un live dei rush, non l’avete ancora comprato? la scaletta mette in fila il meglio della produzione novantiana: ‘dreamline’, ‘bravado’, ‘driven’, animate’, ‘test for echo’, ‘show don’t tell’, ci sono tutte, inclusa una versione fulminante di ‘leave that thing alone’. non mancano ovviamente un po’ di classiconi, ‘limelight’, ‘the trees’, ‘natural science’, ‘yyz’ e pure, sorpresa e clamore, un’esecuzione dell’intera suite ’2112’.

se bisogna trovargli un difetto si potrebbe dire che il mix è fin troppo laccato e perfettino per un live, un po’ di ruvidezza in più non avrebbe guastato ma tant’è, nulla di grave.


il live del ’78 è semplicemente una bomba, con i tre ancora giuovini a snocciolare capolavori, da ‘xanadu’ a ‘cygnus x-1’, alternati alle svisate hard di ‘bastille day’, ‘anthem’ o ‘working man’, con un piglio goduriosamente grezzo  e rocchenrol. un’aggiunta non solo interessante come documento ma anche decisamente godibile, con gran gioia di tutti i fan che ormai temevano di non poter mai più vedere i rush o sentire nuova musica.

domenica 4 aprile 2021

rush, 'test for echo'

 

abbiamo detto di ciò che hanno fatto alex e geddy durante la pausa dai rush, ora guardiamo un attimo neil.

dopo aver partecipato al tributo a buddy rich, a peart resta in mente l’idea di produrre un disco tributo allo storico batterista e questo è il momento migliore per farlo. tra gli amici che chiama per realizzarlo c’è steve smith, storico batterista dei journey, che ora esibisce una tecnica e fluidità tali da impressionare neil che chiede dove abbia affinato tale stile. la risposta è una sola parola: “freddie”.

smith si riferisce a freddie gruber, veterano batterista di new york i cui insegnamenti hanno cambiato la vita ad una lunghissima serie di musicisti (nota personale, me incluso anche se non direttamente). peart si chiude per una settimana con gruber e ne esce cambiato: tutta la filosofia gruberiana si basa sui movimenti, sul flusso, sullo spazio tra i colpi e sul controllo totale di rimbalzi e gravità. è una linea che arriva direttamente dal jazz (buddy rich, elvin jones, tony williams) ma che è perfettamente adattabile ad ogni stile musicale, come dimostreranno lo stesso peart e smith o jojo meyer anni dopo. inoltre peart cambia impugnatura, passando dal matched grip che ha sempre usato al traditional grip di stampo jazz, una vera rivoluzione per un batterista.


detto ciò, i rush si ritrovano sul finire del ’95 per tastare il terreno e provare a buttare giù dei demo che prontamente arrivano. a quel punto registrano le batterie ai bearsville studios di woodstock per poi fare bassi e chitarre ai reaction di toronto e per l’intera durata delle registrazioni si abbatte su di loro una bufera di neve.

il disco viene poi magistralmente mixato da andy wallace che mantiene la naturalezza dei suoni dandogli una spinta deliziosamente anni ’90, è uno dei dischi dei rush che suonano meglio in assoluto, aiutato anche da un ottimo mastering che da qui in avanti invece mancherà sempre ai dischi in studio.


quello che purtroppo però manca a ‘test for echo’ sono i pezzi: due gemme e qualche buon pezzo sono troppo poco per quasi un’ora di album. se aggiungete che le suddette gemme sono i primi due pezzi del disco capite perché ‘test for echo’ non sia il miglior disco dei rush, nonostante esploda al quinto posto di billboard all’uscita.

geddy ha detto che ‘test for echo’ è il prototipo di canzone dei rush ed è difficile dargli torto: intensa e drammatica ma divertente e dinamica, è una canzone perfetta nei suoi crescendo, nella ricerca timbrica e di arrangiamento degli strumenti, clamorosa. quasi altrettanto lo è ‘driven’, un pezzo durissimo retto da un tarantolato riff a tre bassi in cui i tre pestano su strutture metriche imprevedibili prima di aprirsi in un ritornello magnetico, altro centro pieno.

da qui in poi i pezzi si seguono senza intoppi né guizzi, con ‘half the world’, ‘the color of right’ o ‘virtuality’ che allargano gli spazi e le idee di ‘counterparts’ con un piglio meno opprimente

‘time and motion’ torna alla durezza dissonante, è forse il pezzo migliore dopo i primi due e presenta delle interessanti idee di chitarra e voce che torneranno anni dopo in ‘vapor trails’. ‘resist’ è una buona ballad ma farà miglior figura in versione acustica nel tour R30 del 2004 e ‘limbo’ è uno strumentale stranamente suggestivo e spaziale, gradevole ma nulla da tramandare ai posteri.

in tutto il disco si nota come alex abbia fatto tesoro dell’esperienza ‘victor’ nel prendere decisamente più saldamente la sua parte di redini: le chitarre sono protagoniste per buona parte del disco con riff, assoli, sovraincisioni di acustiche e pure una mandola su ‘half the world’. non che gli altri due siano da meno ma questo è probabilmente il disco “più lifeson” della loro discografia.


manca anche una compattezza tematica, i testi di peart non sono mai brutti ma questa volta risultano un po’ generici e poco coesi, non riuscendo ad aggiungere valore ad un disco che oggi potremmo definire il meno riuscito della lunga carriera dei rush. a parte i due pezzoni iniziali, le buone idee contenute verranno sviluppate decisamente meglio nei dischi successivi che, almeno per qualità compositiva, supereranno tutti quelli degli anni ’90. 

il tour che ne seguirà invece sarà un successone e fornirà le basi per il monumentale triplo live ‘different stage’. poco dopo i rush si dovranno prendere un’altra pausa ma questa volta i motivi saranno molto più seri.