domenica 26 aprile 2020

rush, 'hold your fire'


‘hold your fire’ ha una contraddizione alla base: è un disco che parla di istinto senza avere assolutamente nulla di istintivo. parla di rabbia, istinto omicida e fuoco ma suona patinato, digitale e distante. questo di per sé non è un bene o un male, non fosse che a tratti suona quasi poco sincero.

se ‘power windows’ era prodotto e laccato, questo disco lo è ancora di più, con un arsenale impressionante di strumenti utilizzati (decine tra synth, controller e sequencer, 4 set di batteria acustici più pad simmons e sampler akai, oltre naturalmente a bassi e chitarre), ospiti (aimee mann, andy richards, una sezione di ottoni) e studi prestigiosi (tra cui ancora l’air studio di george martin).
ancora una volta il punto di forza principale è la qualità delle composizioni: ‘force ten’, ‘time stand still’, ‘open secrets’, ‘mission’ o ‘turn the page’ sono tutti pezzoni da best of, ognuno con le sue caratteristiche specifiche, cosa che dal disco successivo inizierà a farsi meno evidente.

siamo ancora in pieni ’80 come suono, le tastiere sono onnipresenti ma ora la chitarra è di nuovo in primo piano, finalmente l’equilibrio fra tradizione e innovazione si fa evidente, nonostante ormai la composizione dei rush sia distante anni luce dalla loro stessa tradizione (di pezzi lunghi non se ne vedranno mai più e per un nuovo strumentale bisogna aspettare ancora un paio di dischi). le melodie vocali di geddy sono zuccherose ma efficaci, graziano sia la splendida ‘open secrets’ dal suono lunare e aperto che ‘time stand still’, dove nel ritornello compare la voce angelica di aimee mann, prima donna partecipante a uno dei più grandi sausage fest della storia.
‘mission’ è una sorta di autobiografia/dichiarazione di intenti, una bella melodia aperta la regge fino al break centrale, unico momento in cui ombre progressive si affacciano sulla musica con addirittura una melodia ritmica doppiata da una marimba. pare che in un momento di follia peter collins abbia voluto provare a sovraincidere sul brano una banda di paese, per fortuna non ci è dato di sentire questa cosa ma si apprezza il coraggio del tentativo, la sezione di ottoni che sostiene il tappeto armonico è abbastanza. personalmente ho sempre preferito ‘turn the page’, un brano retto dal tono nasale del basso nevrotico di geddy che si contorce continuamente in un arrangiamento bellissimo con lifeson libero e dissonante a dare pennellate apertissime prima di farsi protagonista di un altro grandissimo solo dal suono bello maleducato.

‘tai shan’ è nata come un esperimento di composizione e forse sarebbe stato meglio se fosse rimasta dov’era, candidandosi di fatto per la top 5 dei pezzi più brutti della carriera dei rush: caramellosa e dalla spiritualità un po’ da negozio di souvenir, è l’incarnazione perfetta della contraddizione del disco, cerca profondità e contaminazione senza alzarsi da una poltrona in pelle. ‘high water’ chiude il disco ma non è certo memorabile.

‘hold your fire’ è un punto di arrivo, senza dubbio: le canzoni ora sono puramente canzoni, scevre da orpelli e con l’attenzione strumentale rivolta agli arrangiamenti e finalmente i rush arrivano alla tanto agognata sintesi tra vecchio e nuovo, analogico e digitale, arrivano alla miglior produzione mai avuto fino a qui… eppure tutta questa tranquillità influisce sui pezzi che, pur non sempre, risultano troppo distanti e artefatti. è un gran bel disco ma raramente lo troverete citato tra i preferiti di qualcuno e infatti subito dopo i rush torneranno in parte sui loro passi con ‘presto’.

giovedì 23 aprile 2020

shabaka and the ancestors, "we are sent here by history"


“we are sent here by history” è un disco non solo superbo ma significativo. 
innanzitutto per shabaka hutchings perché segna, ad oggi, il suo capolavoro, punto di incontro tra la visceralità dei sons of kemet e la spiritualità dei the comet is coming, tenendo al centro la spiccata fisicità della sua musica, quel treno ritmico che fa sudare orrendamente.
se consideriamo poi che hutchings è uno tra i migliori esponenti di un “new jazz” che ormai si delinea con dei contorni piuttosto netti, di conseguenza ‘we are sent here by history’ è un disco significativo per la scena intera perché riunisce e dà una forma compiuta alla maggiorparte degli elementi che la contraddistinguono: radici africane in primo piano, ritmicità convulsa, solismo lirico, equilibrio dialogico tra jazz e altri suoni e una forte convinzione nei propri ideali. va inserito nel contesto dei lavori di matana roberts, del recente wadada leo smith, degli irreversible entanglements (stupendo il loro “who sent you?” di quest’anno) ma anche degli harriet tubman di “araminta”, tutta quella musica di matrice africana che oggi si sta facendo sempre più guerrigliera nel celebrare la comunità, lo stare insieme, il gruppo di umani come fonte di energia. 
tutto questo chiaramente senza dimenticare i riferimenti classici, che nello specifico possono essere coltrane, archie shepp, fela kuti, mulatu astatke o bheki mseleku (musicista sudafricano adorato da hutchings, da ascoltare il suo “celebration” del ’92) ma i profumi sparsi nella musica sono una moltitudine infinita. poco ornette coleman invece, lo sviluppo melodico di shabaka è di tipo nettamente diverso e la sua musica segue altre logiche, piuttosto a tratti si può sentire la luminosità di certo sun ra o la feroce foga di un album come “we insist!” di max roach.

dicevo che c’è un radicamento evidente nella tradizione, il disco (come l’esordio “wisdom of elders”) è registrato in sudafrica con musicisti locali e brani come “we will work (on redefining manhood)” sono figli tanto delle tradizioni nguni quanto dei tempi moderni, nel loro emergere come melting pot “totali”. 
l’organico del sestetto oltre a hutchings vede mthunzi mvubu al sax alto, slyabonga mthembu alle voci (autore di testi e titoli, cantati in zulu, xhosa e inglese), ariel zamonsky al contrabbasso, gontse makhene alle percussioni e tumi mogorosi alla batteria.

è un canto collettivo, sembra però che questa orgia celebrativa tiri le fila della nostra storia preparandosi a una fine imminente, guardando i primi segni di un’apocalisse salutata con la gioia di un gran finale.
è anche un disco che vive della più classica dualità del jazz, quell’alternanza individuo/gruppo che è una delle basi fondanti del genere; in questo vi si può ritrovare un’attitudine spiritual, come nel continuo botta e risposta tra un predicatore e i fedeli, ma anche la riprova di come il progetto sia saldamente nelle mani di hutchings il predicatore, il fulcro della creatività, la fucina di idee.
i ritmi sono basati su clave africane (ma non mancano chiaroscuri da cuba e dai caraibi) ed hanno un andamento ciclico che trascina nel rituale come un mantra, il basso fa da propulsore e non lascia via d’uscita mentre i fiati si incrociano in melodie stupende. è un disco che percorre la linea di confine tra jazz e africa, sbilanciandosi in pochi e precisi momenti ed abbracciando un suono dai toni universali.

la sacralità del finale con “teach me how to be vulnerable” è lasciata al sax di hutchings che, sorretto solo da accordi di piano in bilico fra ellington ed evans, sembra recitare alla maniera di coltrane in “psalm”, solenne chiusura di “a love supreme”. inutile stare a fare paragoni, non ha alcun senso, di certo “we are sent here by history” è un disco che si farà ricordare per molto tempo, un instant classic che metabolizza un secolo e passa di musica nera e lo presenta al futuro, se un futuro ci sarà. non fatevelo scappare per nessun motivo.

nota: fa molto piacere vedere come la storica impulse! pubblichi oggi dischi come questo, lontani dalla musealità della blue note o dalla placida (spesso catatonica) contemplazione ecm, riconfermandosi come l’etichetta lungimirante che pubblicò capolavori come “ascension”.


domenica 19 aprile 2020

rush, 'power windows'



‘power windows’ rappresenta una linea di passaggio per i rush, da vari punti di vista.
il primo punto importante è sicuramente il cambio di produttore e l’arrivo di peter collins, inglese dalle idee moderne che prende il suono rush e lo porta per mano nel pieno degli anni ’80.
il secondo aspetto è comunque legato alla produzione: da qui in poi i dischi dei tre suoneranno moderni e pieni, senza più svisoni tipo ‘signals’; con ‘power windows’ il suono dei rush diventa ufficialmente adulto, per qualcuno fino troppo laccato e pulito ma tant’è.
poi, la voce di geddy finalmente si abbassa di un paio di toni, trovando un range più adatto alla musica e meno stridulo, concedendosi anche raddoppi e qualche controcanto, dando così molta più profondità alle melodie.
neil non resta a guardare i cambiamenti e intraprende un percorso di evoluzione nel suonare la batteria che lo porterà, qualche anno dopo, a studiare con il guru freddie gruber per scoprire nuove tecniche. qui il suo stile si fa molto più ricco a livello timbrico, i pad simmons irrompono tra i tamburi e portano campioni di ogni tipo di percussione dal mondo; oltre a questo, i suoi arrangiamenti si fanno ancora più composti ed eleganti, mirando a vere e proprie linee melodiche percussive che arricchiscono ogni momenti delle canzoni.
lifeson non resta a guardare, per contrastare la tonnellata di synth il suo suono si ripulisce da un sacco di effetti e torna a schitarrare in modo più abrasivo, creando un ulteriore strato sonoro da esplorare.

insomma, i rush si impegnano seriamente per prendere una strada nuova e ci riescono in pieno: se ‘signals’ o ‘grace’ erano spiazzanti per i vecchi fan, ‘power windows’ è uno shock. le tastiere sono ovunque (suonate a tratti anche da andy richards degli strawbs) e danno un impronta algida e maestosa ai brani, la melodia la fa da padrona ovunque e arrivano addirittura arrangiamenti per orchestra e coro in ‘manhattan project’ e ‘marathon’. è il disco “super prodotto” dei rush, per dirla con le parole di neil, un’opera in cui ogni singolo dettaglio è studiato fino allo sfinimento, pur senza sfociare nella paranoia che aveva regnato durante le sessioni di ‘grace’. anzi, pare che per registrare ‘power windows’ i tre s siano divertiti parecchio, finendo a registrare parti anche negli air studios di sir george martin a montserrat. sì, i soldi non mancavano.

il risultato è, ancora una volta, stupefacente. se lo shock sonoro può colpire in faccia (e ‘big money’ non fa certo molto per ammorbidirlo), quello che è evidente è come la qualità delle composizioni non sia calata di un microgrammo. la composizione lascia ancora spazio per momenti di classicissimo rush sound (‘manhattan project’ e ‘marathon’ nonostante l’orchestra suonano rush al 200%) ma va poi a spingere verso nuovi territori come nell’iniziale ‘big money’, dominata dai synth solcati dal bel riff di lifeson, o come nel capolavoro che chiude il disco, ‘mystic rhythms’,  una delle migliori prove di neil peart come batterista su cui lifeson infila accordi e arpeggi uno più bello dell’altro e geddy canta una delle sue melodie migliori, con un ritornello che è magia pura. anche ‘territories’ osa, con una cassa in quattro che non concede tregua e addirittura una modulazione super-pop per l’ultimo ritornello.

i testi di peart questa volta sono tutti incentrati sui giochi di potere, siano essi derivanti dai soldi (‘big money’), dalle emozioni (‘emotion detector’), dai confini del mondo (‘territories’) o da situazioni più complesse e delicate (‘manhattan project’ guarda allo sviluppo dell’atomica per rendersi conto di come gli scienziati fossero solo esseri umani mentre ‘mystic rhythms’ si interroga sulle forze naturali che regolano gli eventi e i nostri sentimenti). sono ancora più maturi e a fuoco e restituiscono un’immagine speculare rispetto a quelli di ‘grace’: se di là avevamo paura, dolore e paranoia, qui c’è un’osservazione quasi asettica, è uno sguardo pseudo-scientifico che cerca di non sbilanciarsi mai, lasciando svariati spunti di riflessione per il lettore.

disco coraggioso, maniacale, sovrarrangiato… diverso. come già detto, questo è uno spartiacque, qui veramente i rush cambiano pelle e iniziano il percorso che li porterà nel decennio successivo. ora però siamo in pieni anni ’80 e, piaccia o meno, lee, lifeson e peart decidono di tuffarcisi di testa, spazzando via lo stesso ridicolo tentativo compiuto da un gruppo ormai di serie b come i genesis.
i gusti son gusti ma ‘power windows’ è un disco pazzesco, la riprova che un gruppo con cervello e coraggio con l’idea giusta può fare quello che vuole. probabilmente l'ultimo capolavoro dei rush.

domenica 12 aprile 2020

rush, 'grace under pressure'


parte della colpa per la mancata riuscita di ‘signals’ viene condivisa anche da terry brown, ormai storico produttore dei rush. il rapporto tra le due parti sembra non funzionare più come una volta per cui i tre decidono, dopo nove anni di collaborazione, di cambiare produttore. viene scelto steve lillywhite (u2 e simple minds) il quale però decide di tirarsi indietro due settimane prima che il gruppo entri in studio. panico, colloqui, viene scelto peter henderson, già con mccartney e i supertramp; a questo punto però buona parte del materiale è già stata scritta, lui stesso ammette di non aver potuto fare molto durante le sessioni di registrazione. 
a questo si aggiunge il fatto che geddy tende a prendere il controllo della situazione per non farla crollare e si comporta lui stesso da produttore, creando tensione con un lifeson ancora ingrugnito per il suo offuscamento in ‘signals’. la tensione arriva a un tale punto che in certi giorni i due non si parlano e si scambiano solo foglietti di carta lasciati sul mixer.

nonostante tutto questo, ‘grace under pressure’ si contende con ‘power windows’ la palma di miglior disco del periodo ’80 dei rush, ognuno dei due con i suoi enormi pregi e pochi difetti.
nel caso di ‘grace’, il valore principale che lo distingue da gran parte del resto della discografia è la sua profonda emotività: è un disco scuro, cupo, con un senso di collasso imminente che lo attraversa, in parallelo ovviamente alle tensioni internazionali del 1984. i testi di peart sono tesi, mostrano scene tragiche (‘red sector a’ è distopica ma i racconti vengono dall’esperienza nei lager dei nonni di geddy), tensioni allo stremo (‘distant early warning’, ‘between the wheels’) o malinconici e poetici tributi (‘afterimage’, dedicata a robbie whelan, tecnico del le studio mancato l’ano precedente in un incidente in macchina).
di conseguenza la musica segue questo mood, facendosi ancora più opprimente di ‘signals’, per quanto il suono sia di nuovo equilibrato e aperto. da notare come l’influenza dei police sia già mutata ed assimilata in brani come ‘the body electric’ ma soprattutto nel nuovo stile batteristico di peart, il quale ha fatto suoi certi insegnamenti di copeland e li sviluppa in un linguaggio assolutamente unico, cerebrale e composto quanto melodico e coinvolgente (ad ogni concerto dei rush si possono vedere decine di fan in prima fila imitare le sue memorabili rullate).

le canzoni sono tutti classici, regolarmente accolte da ovazioni della folla nonostante il gruppo si allontani definitivamente dalle tortuose composizioni del passato. ‘distant early warning’ contiene già il dna del disco intero con i suoi sottili cambi di tempo, la sua atmosfera tesa e vagamente aliena resa in modo superbo dagli accordi di lifeson, di nuovo davanti nel mix, intrecciati ai pad sintetici. ‘afterimage’ interpreta il malinconico testo di peart con melodie quasi rassegnate e chitarre apertissime, contrapposte al tiro veloce e aggressivo della ritmica. ‘red sector a’ ha un tiro micidiale, retto da una prestazione maiuscola di peart, nonostante questo gli accordi di synth la rendono una delle canzoni più scure e cupe che i rush abbiano mai registrato. curioso notare come sia in questo pezzo che il ‘afterimage’ si trovi una parentesi centrale quasi psichedelica nella sua dilatazione, con lifeson a contorcersi con la distorsione nel vuoto.
non ci sono pezzi brutti in ‘grace under pressure’, ci sono solo pezzi più belli di altri; l’ultimo di questi è il finale, ‘between the wheels’, una riflessione sul vivere l’attimo, sull’apatia moderna e sulla capacità/incapacità di reazione di fronte agli eventi che si snoda in un brano giocato sui continui levare, sottolineati ora dai synth, ora dalla batteria e con un lifeson straripante accordi, arpeggi e un solo meraviglioso.

se cercate i rush più leggeri non li troverete qui e probabilmente questo disco non è un buon punto di partenza per scoprirli. eppure, tra gli album in studio, è sicuramente fra i primi tre per qualità, compattezza, creatività e incisività. sì, è un cazzo di capolavoro.

domenica 5 aprile 2020

rush, 'signals'



tutto cambia, i rush ci hanno già abituato a questo. i fan si aspettavano un evoluzione da ‘moving pictures’ e l’hanno avuta; è andata come volevano? manco per il cazzo.
due fattori hanno portato alle canzoni di ‘signals’, altri due al suo suono aspramente criticato. 
partiamo dalle canzoni: primo, la linea arriva da ‘permanent waves’, da quella voglia di staccarsi dalle lunghe suite e concentrarsi di più sul formato canzone; secondo, la composizione cambia drasticamente quando geddy inizia ad interessarsi sul serio dei synth, scrivendo molte delle canzoni sui nuovi strumenti.
i due fattori ‘sonori’ invece sono ciò che ha sbilanciato il disco e l’ha portato ad essere il più debole lì in mezzo: come prima cosa c’è stata la difficoltà da parte di terry brown di inserirsi nel nuovo suono dei rush, le troppe tastiere lo spiazzarono al punto che questo fu il suo ultimo disco col gruppo. come secondo fattore ci fu invece un errore grossolano da parte proprio della band che lasciò che geddy scrivesse con le tastiere e le registrasse prima delle chitarre, riempiendo ogni momento e togliendo tutto lo spazio ad alex che si ritrovò frustrato a cercare arrangiamenti che funzionassero. 
inoltre, dopo le produzioni soniche spettacolari di ‘waves’ e ‘pictures’ era lecito aspettarsi un altro passo avanti mentre invece il mix di ‘signals’ è confuso e un po’ fangoso, annega le chitarre nei synth e perde in potenza e ariosità, penalizzando le canzoni.

ovviamente non stiamo parlando di una schifezza, è un disco ben più che sufficiente, fosse anche solo per l’evidente ricerca di evoluzione da parte dei tre. oltre a questo ci sono almeno due canzoni tra le più belle del repertorio del gruppo, ‘subdivisions’ e ‘the analog kid’, che comunque in futuro potranno risplendere dal vivo in versioni di gran lunga superiori a queste.
‘subdivisions’ si occupa di isolamento, mobbing e bullismo, è oscura e disperata, trainata dai suoni digitali delle tastiere di geddy e da un arrangiamento di batteria pazzesco che fagocita bill bruford e stewart copeland e presenta un nuovo neil peart, meno funambolo ma molto più accorto e coscienzioso nella costruzione delle sue parti. il ritornello crea un pattern melodico-ritmico a cui il gruppo tornerà spesso durante gli anni ’80.
‘the analog kid’ è uno dei pochi momenti in cui lifeson emerge un po’ di più, grazie soprattutto al vertiginoso riff che apre la canzone. il testo è molto interessante se posto di fianco a quello di ‘digital man’: nella prima abbiamo un ragazzo che si innamora e viene travolto dalle emozioni, nella seconda un uomo freddo e calcolatore, un’analisi comparativa tra segnali (da cui il titolo del disco) analogici e digitali che interessa tutto l’album e ne rappresenta forse il lato più riuscito, visto che la stessa lotta sul piano musicale viene dominata involontariamente dal versante digitale. a parte tutto questo, ‘the analog kid’ ha un ritornello che prende allo stomaco, con un’apertura epica che verrà esplorata su ‘hold your fire’.

quindi il resto è un pacco? ovviamente no, parliamo dei rush, roba propriamente brutta non ne trovate. in compenso troverete un sacco di influenza dei police in pezzi come ‘chemistry’, ‘digital man’ o ’the weapon', nelle ritmiche (spesso si sentono profumi reggae), negli arrangiamenti e soprattutto nelle scelte di suoni e di voicing di lifeson, molto vicini agli esperimenti di summers. 
in generale è un suono molto più scuro e “triste” rispetto ai dischi precedenti, c’è un senso di minaccia che incombe per tutto il disco, con annessi discorsi su guerra fredda, terrore e rivoluzione digitale. quello che viene  mancare è un altro picco musicale: dopo i primi due pezzi la qualità si assesta su un buon livello ma non se ne discosta mai davvero, a parte forse per l’ottima ‘losing it’, molto atmosferica e riuscita nell’accostamento tra un arrangiamento fitto e dinamico e linee di voce sospese che fluttuano sopra al mare di suoni.

non è un brutto disco ‘signals’ ma, come detto, un paio di errori ne hanno minato la riuscita, lasciandolo con poco mordente e un vago senso di incompiutezza qua e là. resta comunque un album godibile, ben suonato e con almeno un paio di pezzi formidabili.

mercoledì 1 aprile 2020

nine inch nails, 'ghosts v: together', 'ghosts vi: locusts'


per me è una gioia immensa poter parlare di nuovo dei nine inch nails senza doverli insultare, davvero. ho amato visceralmente trent reznor da quando ho scoperto la sua musica a 15 anni e da allora certi suoi dischi per me sono rimasti come fari nel buio; purtroppo poi è arrivata roba che ho preferito dimenticare, facciamo che non è mai successo: tra il 2006 e il 2016 il gruppo si è preso una pausa e non ha pubblicato niente.
beh, quasi niente: ‘ghosts i-iv’ a me è sempre piaciuto, pur nella sua frammentarietà l’ho sempre trovato un gradevolissimo raccoglitore di suoni bizzarri, atmosfere sbilenche e atmosfere assolutamente nin, per quanto fossero più quadretti sonori che composizioni.

due nuovi ‘ghosts’ non potevano che accendere il mio entusiasmo quindi e sono estremamente contento che questo entusiasmo si sia rivelato giustificato: ‘together’ è magnifico, soddisfa, sorprende e avvolge mentre ‘locusts’, più ruffiano e prevedibile, è una goduria per i sensi, tutto quello che ci si aspetta da un disco strumentale dei nin. messi insieme sono un viaggio intenso e totalizzante che vi lascerà pieni e soddisfatti.

‘together’ (8 brani, 70 minuti) stupisce da vari punti di vista. innanzitutto è incredibile vedere come reznor, dopo 30 e passa anni di carriera, ancora abbia voglia e riesca ad evolvere le sue tecniche e idee: è evidente come le molte esperienze nel mondo delle colonne sonore abbiano influito sul suo modo di strutturare le composizioni, dando un tocco cinematico a moltissimo del materiale recente; eppure ‘together’ non è una colonna sonora e si sente. l’idea di ogni brano è in primo piano e c’è una maggiore dinamicità, oltre a una maggiore attenzione a melodie ed armonie, per quanto dilatate. è musica che discende direttamente da brani come ‘a warm place’, ambientale e larga ma strutturata e in grado di farsi ricordare.
c’è poi un cambio di riferimenti: se i primi ‘ghosts’ si nutrivano di anni ’80 e viravano spesso sul tamarro (semmai ora troviamo qualche eco del david sylvian più etereo, nel basso di ‘hope we can again’, ad esempio), qui le parole d’ordine sono calma, dignità e classe e i riferimenti semmai si spostano indietro di un decennio, brian eno ma anche tangerine dream e vangelis. eppure. eppure se per caso doveste sentirci risonanze non così vaghe di roba modern classical dalle parti di nils frahm non mi sentirei di darvi torto, perché se è vero che questo tipo di musica arriva da molto tempo fa, la forma di estetismo timbrico (virtuosismo, sì) esibito da reznor è molto più moderno, così come questa contestualizzazione delle sue classiche sonorità pianistiche. per dire, non è musica da museo, è attuale e viva.
e stupisce poi, restando in tema, l’omogeneità timbrica del tutto: abituati alla valanga di suoni stratificati spesso impiegata dai nin, è bello trovarsi davanti a un disco che si basa su pochi suoni perfettamente calibrati, abbastanza dinamici da non annoiare e sempre intriganti. interessante notare come non si scada mai nel minimalismo spiccio, evitando figure ostinate o linee ossessive e lasciando che siano i vuoti ad esprimersi.
se poi vi aspettaste un’altra collezione di frammenti, rimarrete piacevolmente stupiti anche dall’unitarietà dell’opera, le cui parti suonano molto più come movimenti di una suite che come frammenti.
difficile infatti estrarre brani da segnalare, di sicuro è dura non restare ammaliati dall’equilibrio desolato ma consolante di ‘together’ mentre fa quasi sorridere lo spuntare di un synth tremendamente vangelis in ‘with faith’, sostenuta da uno dei classici suoni melodico/percussivi dei nin; rapiscono le dissonanze e risoluzioni di ‘apart’ e stupisce la comparsa di chitarre nel finale con ‘still right here’, il pezzo più “movimentato” del disco, con addirittura un beat aggressivo che spunta dalla nebbia ribaltando il feeling del brano per una manciata di secondi prima della dissoluzione finale. un album perfetto dall’inizio alla fine, fotografia placida e rassegnata di una post-apocalisse che in questi giorni sembra di vedere dalla finestra.

‘locusts’, 15 brani, 83 minuti. le linee di piano sono più reznor di reznor stesso, i suoni e alcuni arrangiamenti arrivano direttamente da ‘the fragile’ e c’è be poco che vi stupirà. ciononostante è un bel disco, il livello delle composizioni è mediamente alto per intenzione, realizzazione e riuscita e il viaggio è di quelli da ricordare. mettiamola così, se ‘together’ è una landa desolata nella nebbia in cui poche ombre si incontrano, ‘locusts’ è nettamente più scuro e paranoico ma anche abitato da molti più esserini che si muovono nell’ombra. c’è più ricchezza di strumentazione (spunta più volte lo swarmatron che fece la fortuna di ‘social network’, quasi assente in ‘together’. del resto si chiama swarmatron e il disco ‘locusts’…) e una maggiore dinamicità strutturale con brani generalmente più brevi e cambi più frequenti. i suoni sono più concreti e vicini, anche se nella parte centrale del disco la musica tende ad allontanarsi; ci sono molte più dissonanze ed interferenze e una saturazione più muscolare dei timbri. i primi tre brani sono incentrati su un pianoforte scuro ed ossessivo che svetta sull’ondeggiare dei synth dissonanti creando un loop continuo di tensione con apice nella bella ‘the worriment waltz’, ornata anche con brevi e distanti fraseggi di tromba prima di chiudersi con uno sciame di locuste sintetiche. se ’run like hell’ potrebbe tranquillamente essere una outtake di ‘the fragile’, unico brano ad avere (addirittura) una batteria vera e propria che, in un’esplosione di pochi secondi, rimarca la forte ritmicità del brano, i brani successivi tendono a confondersi in una dark ambient un po’ generica e fin troppo vicina a colonne sonore come 'watchmen' o ‘the girl with the dragon tattoo’, con l’influenza di coil e throbbing gristle a risaltare in più momenti. 
bisogna aspettare ‘turn this off please’ per una risalita, brano da 13 minuti, articolato su un crescendo di densità e tensione magistrale, non lontano dagli affascinanti strumentali di ‘bad witch’, prima di un finale intenso e struggente.

se ‘locusts’ fosse uscito da solo probabilmente mi sarebbe piaciuto anche di più, purtroppo per lui il confronto con ‘together’ non regge molto e, per quanto comunque assai bello, resta meno interessante del quinto, splendido capitolo.
insomma, questa coppia di ‘ghosts’ spazza via la prima raccolta da vari punti di vista (e io sono uno che difende anche i primi) e si rivela un’altra ottima uscita a nome nine inch nails dopo la rinascita con la bellissima trilogia di ep, la conferma del buono stato di ispirazione di un artista di cui si era davvero sentita la mancanza. daje trent, bravo, bis.