sabato 8 dicembre 2018

tropical fuck storm, 'a laughing death in meatspace'


esordio strepitoso dei tropical fuck storm con questo ‘a laughing death in meatspace’, un disco che si appiccica addosso e rappresenta molto bene alcuni sentimenti dei nostri giorni.
il quartetto australiano è capitanato da gareth liddiard, già nei drones, a chitarre e voce, fiona kitschin (anche lei nei drones) al basso e cori, lauren hammel (high tension) alla batteria e cori ed erica dunn (harmony) alla chitarra, tastiere e cori.

la qualità principale del suono del gruppo è un flow malaticcio e caracollante, ritmiche martellanti spinte da un basso lercio e distorto sotto alle chitarre che passano da linee blues mutate a sfoghi noise esplosivi e urticanti mentre le tastiere si inseriscono di nascosto con linee di archi sintetici e suoni sbiellati.
non so se sia semplicemente l’accento australiano di gareth liddiard a ricordarmi nick cave, non credo proprio: l’interpretazione di ‘soft power’ è abbastanza esplicita nel citare i fiumi di parole del cantastorie australiano con la cadenza delle parole, con lo strascinare le lettere e dare alla voce un tono grottesco, inquietante ma anche sardonico, in più momenti sembra di assistere ad un’opera di aggiornamento del suono dei birthday party. non bisogna però fermarsi a questo, perché il suono dei tropical fuck storm è complesso e con molte sfaccettature: ci sono botta e risposta vocali che ricordano tanto i talking heads quanto i più recenti goat (soprattutto per i cori femminili), sprazzi di blues malaticcio e scomposto con dissonanze che passano anche dai sonic youth ed inaspettate oasi melodiche, tutto fuso in un suono piuttosto lo-fi, originale e caratteristico.

un disco velenoso che non ha mai bisogno di essere ‘hardcore’ in superficie (ma essendolo nel profondo), melodico in un modo tutto suo, sbilenco e graziato da un’urgenza espressiva che lo percorre come elettricità per tutta la sua durata. 
il titolo dell’album si riferisce a due cose: ‘meatspace’ è come gli ingegneri della silicon valley chiamano il mondo reale, opposto a quello virtuale, mentre la "morte per risata” si riferisce a un’usanza indigena della papua nuova guinea che vedeva uomini, donne e bambini cibarsi delle carni e del cervello dei loro morti, scatenando così il morbo di creutzfeldt-jakob che divora la materia cerebrale e porta molti di loro a perdere del tutto il controllo e morire, spesso proprio ridendo. 
queste storie fanno capire l’intento del disco, storie come ‘the future of history’, basata sulla partita a scacchi tra gary kasparov e il supercomputer deep blue che non solo si interroga sull’eterno dilemma delle intelligenze artificiali ma lo fa da un punto di vista post-tutto, non è l’angoscia a trascinare le parole ma il sarcasmo più amaro (“staked his prowess on his claim to life and he wasn’t about to lose it to a traffic light” o “the turkeys vote for christmas/gaslighted by the telephone that put steve jobs in business”), come testimoniano alcune interviste a liddiard (https://www.punknews.org/article/68149/interviews-gareth-liddiard-of-tropical-fuck-storm); c’è un’amarezza desolante nelle sue parole che sicuramente molti di noi condividono.

i testi sono tutti scritti in uno stile molto colloquiale e moderno e hanno stupendi guizzi fatti di sigle, giochi di parole e battute sarcastiche (“fyi a pov don’t make an ngo”, il riferimento a trump “here come the oompa loompa with nukes/riding hiw fly blown drone, like there ain’t no one home" o la già citata ‘the future of history’); sembra spesso di trovarsi di fronte ad un flusso quasi incoerente che invece, una volta analizzato, rivela le ragioni sottese a tutto il disco: disillusione, frustrazione e apatia che collidono ed esplodono nel suono marcio, ubriaco e violento delle canzoni.


è un disco che riesce a intrattenere efficacemente parlando quasi esclusivamente di cose orribili con un suono putrescente, drogato e verdognolo e sarà senza ombra di dubbio fisso tra i miei ascolti per parecchio tempo.