martedì 19 ottobre 2021

novembre, 'novembrine waltz'

nel 2001 il metal andava forte. in quello specifico anno è uscita una quantità di dischi spettacolari che ancora oggi stupisce: ‘blackwater park’, ‘last fair deal gone down’, ‘the dreadful hours’, ’a sun that never sets’, ‘the sham mirrors’, ‘light of day, day of darkness’, ‘mutter’, ‘poets and madmen’, ‘the director’s cut’, ‘iowa’, ‘kollapse’ ’jane doe’, ‘a fine day to exit’ (se vogliamo metterlo nel metal…) e potrei continuare ma mi fermo qui. il punto di questo elenco è che ‘novembrine waltz’ non sfigura in alcun modo in questa lista internazionale, se poi ci aggiungiamo che la concorrenza in italia in quel momento erano i rhapsody… lasciamo perdere, dai.

dopo le bordate doom/death di classica, i novembre cercano un nuovo equilibrio e nel farlo riescono in un miracolo musicale. ‘novembrine waltz’ non è solo uno dei migliori album metal che l’italia abbia mai prodotto, è un disco che potrebbe insegnare tanto anche in giro per il mondo in termini di creatività e coraggio.


carmelo orlando, chitarrista, cantante e produttore del disco, resta l’autore principale della musica e dei testi, con contributi di massimiliano pagliuso che ha lasciato il gruppo ma ha registrato parte delle chitarre e scritto ‘come pierrot’; giuseppe orlando resta saldo alla batteria, fabio sanges alle tastiere e ann-mari edvardsen dei the third and the mortal compare alla voce nella cover di ‘cloudbusting’ di kate bush.

il disco è registrato ancora una volta da giuseppe ai suoi outer sound studios di roma, poi mix in francia e mastering finale in germania per un risultato potente, cristallino e avvolgente.


opeth e katatonia restano un punto fisso tra le ispirazioni e qui l’influenza (soprattutto dei secondi) si fa più presente che nei dischi precedenti: smussando le asperità doom/death e dimenticando quasi completamente il black, i novembre si danno a un progressive metal elaborato, rifinito ed elegante in cui le strutture dei pezzi si fanno più complesse e il gusto melodico dei due orlando complementa alla perfezione le bordate metal.

praticamente carmelo ha creato un campo di gioco in cui vale tutto ed è riuscito a dargli coesione e coerenza tramite una composizione attenta e meticolosa che fagocita e rielabora dal death metal alla classica con molte infiltrazioni di tradizione italiana, come vedremo a breve.


‘distances’ è un’ottima opener ma, a conti fatti, non è tra i migliori pezzi del disco, pur facendosi notare per uno special in cui i my dying bride incontrano il lago dei cigni in maniera commovente. i veri miracoli iniziano con ‘everasia’, 8 minuti e mezzo in cui un metal molto aperto (lo shoegaze è una grande passione di carmelo) si fa ora più duro, ora più arioso, fino a un geniale stacco in cui ‘funiculì funiculà’ diventa metal per raccontare di viaggi in terre lontane, sia in inglese che in italiano. i contrappunti ritmici di giuseppe sono molto più precisi e sempre più fantasiosi, sebbene il suo strumento sia quello che più di tutti riconduce la musica a un linguaggio metal, mentre le chitarre si stratificano a creare melodie bellissime, sostenute dal basso (un po’ segnaposto invero) di demian cristiani.

non sono assolutamente da meno né ‘come pierrot’ né ‘child of the twilight’: la prima (scritta da pagliuso) incanta con un 6/8 ondeggiante, tocchi di pianoforte e splendide chitarre che si fanno puro death metal decadente in uno special da manuale mentre la seconda si apre con una malinconica radura acustica, si finge progressive rock (anticipando certe cose di ‘materia’) per poi buttarsi a capofitto in un’accelerazione letale che travolge sia a livello fisico che emotivo. di nuovo i testi di entrambi i brani usano anche versi e strofe in italiano, a voler rimarcare la volontà del gruppo di portare questa musica nel loro territorio.

buona la cover di ‘cloudbusting’ di kate bush ma non aggiunge nulla a un originale imbattibile mentre ‘flower’ fa il paio con ‘distances’, un gran bel pezzo che però si trova in un disco di gioielli, come ad esempio la successiva ‘valentine (almost an instrumental)’, il cui titolo parla da solo: due brevi strofe acustiche sono incastrate in un flusso di sette minuti e mezzo in cui la forma canzone sparisce e ci si ritrova ad assistere a deliziosi quadretti autunnali in cui le chitarre passano da arpeggi aperti a riff serrati mentre la batteria fa il buono e cattivo tempo, una grande quantità di idee ma perfettamente coese e consequenziali, lontane da un collage di parti.

la doppietta finale è maestosa. ‘venezia dismal’ si tinge di psichedelia e si mantiene lontana da strutture standard ma quando mostra i denti rispolvera anche echi black, sempre con un’intensità che porta la mente al grigiore di un autunno nordico; infine ‘conservatory resonance’ chiude i giochi tornando al doom di ‘classica’ con la maestosità dei my dying bride, mettendo in scena un valzer-metal che si muove per variazioni distorte fino a sciogliersi nella pioggia, mentre nell’aria riecheggia il ‘va pensiero’.


carmelo mostra una netta maturazione sia come chitarrista che come cantante e altrettanto fa giuseppe come batterista, sebbene a tratti risulti ancora un po’ troppo metal per certi arrangiamenti che forse avrebbero richiesto un pelo in più di finezza rispetto alla doppia cassa a elicottero ma tant’è. 

‘novembrine waltz’ è indubbiamente uno dei migliori album metal che l’italia abbia mai prodotto, riesce a leggere un momento molto preciso della storia del genere (nel 2001 uscivano anche ‘blackwater park’ e ‘last fair deal gone down’ e i tre gruppi partiranno per un tour che toccherà anche il transilvania live di milano con un indimenticabile concerto nella nebbia meneghina) e a fonderlo con il linguaggio locale, sia a livello musicale che lirico, creando di fatto un episodio unico e irripetibile.

i dischi prima sono bellissimi, quelli dopo sono sempre validi ma ‘novembrine waltz’ è un disco indimenticabile capace di portare l’ascoltatore in giro per un mondo autunnale e coloratissimo, un capitolo irrinunciabile della storia del metal italiano.




lunedì 18 ottobre 2021

franco cerri, 1926-2021


lezione di musica di insieme, classe di 8 allievi e un solo insegnante: franco cerri.

vuole farci suonare un pezzo ma prima vuole farcelo sentire per cui ha portato un cd e chiede al sottoscritto di metterlo nello stereo della classe. premo play, franco mi guarda, “non è questa, prova la seconda”, vado avanti, non è neanche quella, arriviamo alla fine del cd e la canzone non c’è. cerri mi guarda e dopo un attimo di pausa mi dice “allora devo aver sbagliato cd. sono proprio un povero stronzo!”. aveva 91 anni.


è una cazzata ma per me riflette perfettamente il franco cerri che ho conosciuto, stimato e ammirato, quello che a 85 anni ancora saliva sul treno da solo, chitarra in spalla, per andare a fare i concerti, una delle persone più umili, disponibili e umane che abbia mai avuto il piacere di conoscere, ancora prima che uno dei più grandi chitarristi che questo paese abbia mai avuto. 

il musicista era come l’uomo: mai sopra le righe, sempre al servizio della canzone, sempre pronto a prendere una melodia immortale e farla sua con arrangiamenti sobri e una classe che noi che veramente siamo dei poveri stronzi ci sogniamo la notte.

insegnava un linguaggio semplice (che non vuol dire facile) fatto di suono e di stile, non andavi nella sua classe per fare il funambolo: in mezzo a brani fatti di assoli a turno metteva sempre pezzi di un paio di minuti con una semplice melodia cantata dalla sua chitarra, “perché gli assoli stufano dopo un po’”. ogni volta che in classe prendeva in mano la chitarra all’improvviso non volava una mosca e tutti gli occhi erano puntati alle sue mani. in mezzo a gente che si fa chiamare “maestro” senza alcun diritto, quando qualcuno l’ha chiamato così l’ho sentito rispondere “ma io mi chiamo franco, non sono maestro di niente”.


riposo meritato ma fa veramente male sapere che al mondo non c’è più una persona così speciale.

grazie.