venerdì 31 luglio 2020

imperial triumphant, 'alphaville'



il quarto disco dei newyorkesi imperial triumphant era un caso discografico già sulla carta: un gruppo che si è imposto sulla scena metal con maschere stilosissime e un suono che fagocitava ogni tipo di influenza presenta un disco prodotto da nientemeno che trey spruance (mr.bungle, faith no more, etc) e con ospiti come tomas haake e un barbershop quartet vocale.


‘alphaville’ supera di gran lunga le premesse, diciamolo subito. nonostante il suono cangiante e le ospitate illustri, il focus è sempre sulla musica e sull’orrendo viaggio in cui trascina, un’oscurità epica e grandiosa ma anche metropolitana e claustrofobica come la bellissima copertina.

iniziamo dalla parte tecnica: il mix è perfetto e non solo valorizza le incredibili parti di ogni strumento ma crea un magma sonoro magico ed avvolgente, aiutato da un mastering a regola d’arte che spinge l’impatto senza perdere in dinamica. riassunto, questo disco suona da paura.

kenny grohowski è un batterista pazzesco, del resto arriva da john zorn, non poteva essere altrimenti (sentitelo su ‘inferno’ con john medeski all’hammond); il basso di steve blanco fa ben più che accompagnare (o scomparire, come in troppo metal), è un continuo contrappunto fantasioso e dal suono devastante che lotta con le chitarre di ezrin, cattedrali di dissonanze e contorsioni ritmiche che vi faranno cadere la mascella. se c’è un appunto da fare è alla voce, decisamente troppo monocorde e non particolarmente potente, forse una maggiore dinamicità (e aggressività) avrebbe contribuito a migliorare ulteriormente il tutto ma tant’è, funziona e non è brutta.


un punto di forza del gruppo è il saper comporre labirinti sonori complicatissimi mantenendo però un filo logico molto evidente e senza mai perdersi in tecnicismi onanistici, come tanto piace a molti gruppi metal. c'è più un filo conduttore che li lega agli orthrelm come stile che non con il metal contemporaneo; del resto alla produzione collabora anche colin marston che ha lavorato proprio col gruppo americano, oltre che con i fenomenali pyrrhon, coi krallice, con jarboe, i kayo dot e altri terroristi metallici assortiti.

perché di metal si parla, non di altro. certo, è molto lontano dagli iron maiden ma è un suono che parte dal death e dal black per farne un uso depravato che potrebbe farvi venire in mente i migliori today is the day. a me li ha fatti venire in mente in vari momenti ma in altrettanti momenti ho pensato anche ai king crimson (soprattutto durante ‘excelsior’ e ‘city swine’) e tutti sappiamo quanto a steve austin piacciano i king crimson, per cui è tutto un po’ un girotondo di gente che si odia ma poi in fondo si vuole bene. e comunque trey spruance non sta lì per nulla, in alcuni passaggi l'ombra dei mr.bungle più metallari, cattivi e violenti fa capolino tra le bordate di note.

lo si può chiamare progressive metal volendo ma ovviamente se pensate a dream theater o pain of salvation siete completamente fuori strada, qui tutto è estremizzato, velocità, armonie, aggressione, siamo proprio da un'altra parte.


gli arrangiamenti sono quello che porta tutto questo a un livello superiore: il piano nel finale di ‘city swine’, l’intro vocale di ‘atomic age’ e l’incredibile apertura ‘in accelerazione’, la stupenda intro per piano e trombone di ‘transmission to mercury’, la sua parte black con coro e trombone, le trovate percussive sparse per i brani, tutti pezzi di un’immagine più ampia che si svela completamente solo sul finire dell’album, quando il viaggio sta per compiersi e sarete totalmente rapiti dal suono.

sarebbe stato facile cadere nell’errore del disco sfilacciato, discontinuo e “troppo” ma gli imperial triumphant riescono ad evitare la caduta con grande stile e sfornano uno dei dischi metal più originali, intelligenti e artistici degli ultimi anni, nonché uno dei più solidi per ispirazione e riuscita.


assolutamente da non perdere.



domenica 12 luglio 2020

pain of salvation, 'scarsick'


dopo l’uscita di ‘be’, gli eventi in casa pain of salvation prendono una strana piega quando kristoffer gildenlöw lascia il gruppo dopo essersi trasferito in olanda. può non sembrare molto ma per un gruppo come loro, basato sull’alchimia tra i componenti, è come perdere un fratello. beh, tecnicamente per qualcuno è proprio perdere un fratello.

e quindi il gruppo va in studio senza bassista e daniel si occupa delle parti di basso di ‘scarsick’, anticipato dallo scanzonato singolo ‘america’ che lascia tutti un po’ perplessi. questa perplessità arriva a livelli molto alti quando il disco esce e tutti troviamo nella costina interna la scritta “the perfect lement part 2: he”. a questo punto sono passati 7 anni dal primo capitolo ma l’aver perso un membro fondamentale non ferma gildenlöw dal fare questa mossa pretestuosa e non particolarmente felice. ammetto che personalmente tendo a dimenticarmi di questo fatto e lo ascolto semplicemente come ‘scarsick’, anche perché il disco ha ben poco della carica emotiva di ‘element’.

è un disco che reagisce alle esagerazioni di ‘be’ ritrovando una dimensione molto più rock e fisica, per quanto non manchino momenti eclettici come la curiosa ‘disco queen’, che alterna momenti di schitarrate a un riff e ritornello che fanno il verso ai bee gees. 
l’inizio è ottimo, la title-track posta in apertura salta in faccia con un riff secco e grezzo, il suono è pieno e poco riverberato ma le take e il mix sono molto meglio che in passato. è uno dei loro dischi che suonano meglio in assoluto e quando arriva il celestiale ritornello corale l’apertura lascia a bocca aperta. non ci si stupisce più di tanto dell’uso del rap da parte di daniel, se non fosse che questa volta lo fa in maniera sfacciata in ‘spitfall’, critica e presa in giro dei vari rapper miliardari che parlano di strada e disagio dalle loro ville mastodontiche. funziona, e anche molto bene, grazie anche all’ennesimo ritornello memorabile che spezza le durissime parti rappate. delude invece ‘cribcaged’, ballata autoreferenziale il cui testo stufa in fretta col suo polemizzare su tutti i simboli del capitalismo occidentale.
la seconda metà del disco ha un paio di pezzi un po’ generici come ‘mrs. modern mother mary’ e ‘idiocracy’ che insistono su ritmiche dispari spezzate ma fanno poco per farsi ricordare. molto meglio ‘kingdom of loss’, un classico crescendo da pain of salvation che apre in una bella melodia dai toni orientali, ma anche ‘flame to the moth’, che recupera l’aggressività di inizio disco. menzione a parte per la stupenda ‘enter rain’ che chiude l’album, non a livello di ‘the perfect element’ o ‘beyond the pale’ ma sono altri 10 minuti emozionanti che mostrano una vena epica che tornerà in futuro.

‘scarsick’ è piacione e non si fa fatica ad apprezzarlo; purtroppo il tempo ha rivelato che non ha la stessa profondità e stratificazione dei capolavori che lo precedono, si aggroviglia un po’ su se stesso e non sempre riesce a decollare. quando lo fa ne escono ancora dei pezzi fantastici, altrove perde in personalità e incisività, un problema che da qui affliggerà mr.gildenlöw per un po’ di anni, mentre i pain of salvation diventano la daniel gildenlöw band. ma questa è un’altra storia.

sabato 11 luglio 2020

pain of salvation, 'be'


‘be’ è il classico disco che si ama o si odia. a parte questo, è il primo disco dei pain of salvation che davvero pecca di arroganza, se qualcuno dovesse dire che piscia fuori dal vaso sarebbe difficile dargli torto. 
eppure.

eppure ‘be’ quando funziona è una figata colossale.
innanzitutto, cos’è? è un concept filosofico-metafisico sulle ragioni dell’esistenza di dio e dell’umanità. è abbastanza? sai mai, magari vi aspettavate di più. se non dovesse bastare, potete sapere che è accompagnato da un dvd che riporta l’esibizione live con tanto di produzione, costumi, orchestra e scenografia. non basta? c’è un booklet di 50 pagine che arriva a parlarvi dei fottuti tardigradi.
è tanto, in ogni senso immaginabile, e talvolta le sue ali sono tarpate da un’eccessiva enfasi spirituale che rasenta il new age. eppure è graziato da una costruzione melodica che ha del miracoloso. i suoi momenti migliori (‘imago’, ‘pluvius aestivus’, ‘dea pecuniae’, o ‘iter impius’) volano su melodie incredibili sorrette da arrangiamenti che prendono dal folk, dalla classica, dal funk, dal metal, in pratica non si fanno problemi a scomodare qualsiasi tipo di suono si adatti al loro messaggio. ha più del musical di broadway che del disco (men che meno metal, non sono i savatage), con tanto di personaggi, tutti interpretati da un gildenlöw al top della sua forma canora (e del suo ego, si pensò all’epoca. ci sbagliavamo. oh, come ci sbagliavamo.).

se l’introduzione di ‘deus nova’ è piuttosto canonica, ‘imago’ è un tripudio di melodie una più bella dell’altra, con un’arrangiamento che unisce la rock band a orchestra e mandola prima di riversarsi nel gioiello immaginifico che è ‘pluvius aestivus’, brano per piano e orchestra che introduce vari temi che torneranno nel corso del disco, un momento in cui il valore della musica giustifica l’eccesso di enfasi spirituale. la successiva ‘lilium cruentus’ è un buon paradigma per alcuni brani del disco che, pur non essendo brutti, risultano interlocutori e più asserviti alla storia che ad un’effettiva riuscita musicale. non sono brutte canzoni, assolutamente, eppure non sono a livello dei picchi e rallentano un po’ il ritmo del disco. ad ogni modo, ‘lilium cruentus’ riporta decisamente davanti alcuni suoni e melodie di ‘one hour by the concrete lake’ che torneranno prepotentemente in futuro.
‘dea pecuniae’ è una mini-suite che presenta il personaggio tremendamente stereotipato e piatto di mr.money ma lo fa in maniera molto efficace, con un mix di rock, funk, gospel, tempi dispari e arrangiamenti orchestrali; per quanto questo sembri la ricetta per una pacchianata orrenda, alla fine la somma delle parti funziona e il pezzo è memorabile, anche per la straripante interpretazione vocale di daniel.
‘vocari dei’ è un esperimento: la band all’epoca ha aperto un numero telefonico che i fan potevano chiamare per lasciare i loro messaggi “a dio”. esperimento riuscito? meh, è uno di quei momenti in cui il gruppo sembra crederci un po’ troppo e si scade in un’emozionalità scontata e monodimensionale, un po’ come il personaggio di mr.money.
‘diffidentia’ sta in quel gruppo di pezzi con ‘lilium cruentus’, molto ‘one hour’, un taglio decisamente più metal ma anche meno sostanza, per quanto dal vivo funzioni molto bene. c’è a questo punto il momento più lento del disco, nulla di orrendo (anche se ‘omni’ rientra di diritto tra i 10 pezzi peggiori della discografia) ma la narrazione prende il sopravvento per qualche brano rendendo la musica meno importante; di fatto bisogna aspettare ‘iter impius’ per avere un’effettiva canzone ma l’attesa è assolutamente ripagata. è un brano in continuo crescendo in cui la vocalità teatrale di gildenlöw è libera e scatenata, sopra ad un arrangiamento tra i più rock del disco, se non fosse per le trame orchestrali che riempiono ogni vuoto. segue ‘martius/nauticus ii’ che riprende vari temi del disco e porta il tutto alla conclusione di ‘animae partus ii’ con la quale la storia ricomincia.

lungi dall’essere un brutto disco, ‘be’ pecca di presunzione in vari modi, dal concept agli arrangiamenti d’archi che ogni tanto sconfinano nel pacchiano; è il musical di gildenlöw e lui è protagonista in ogni modo, al punto che si perde parte dell’insieme che aveva reso unici i pain of salvation. contiene comunque una manciata di pezzi grandiosi e merita sicuramente un ascolto, in particolare da chi cerca più melodia e meno metal.

venerdì 10 luglio 2020

pain of salvation, '12:5'


per molti gruppi il primo disco dal vivo è un modo per pubblicare un best of “mascherato”, per altri invece è l’occasione per mostrare al pubblico la propria dimensione live. ovviamente per i pain of salvation non è così, ’12:5’ è molto più di un disco live, è una delle loro opere più riuscite ed uniche. registrato in un contesto intimo, con poco pubblico il 12 maggio del 2003 a eskilstuna, documenta un concerto in cui il gruppo ha completamente riarrangiato il proprio repertorio in chiave acustica, costruendo dei grossi medley in cui brani, temi e melodie si incrociano, si rincorrono e si riprendono continuamente, dando di fatto un nuovo significato alle canzoni, oltre a una nuova veste sonora.

liberi dalla distorsione e saturazione degli strumenti elettrici, finalmente i suoni sono aperti, brillanti e adatti al contesto, valorizzando ogni passaggio strumentale o vocale. ecco, le voci. ho parlato più volte dell’approccio strambo che i pos hanno verso le armonie vocali, qui questa peculiarità viene prepotentemente in primo piano, con intrecci di tre-quattro voci ora dissonanti, ora celestiali, sempre compatte ma libere, una delle migliori prove della creatività inarrivabile del gruppo. poi certo, la voce di daniel è grande protagonista, sentirlo interpretare i brani in maniera soffusa ma libera (molto blues nell’approccio) è una goduria dall’inizio alla fine.
altrettanto formidabili sono le prestazioni agli strumenti: se la batteria di langell è un po’ legata a causa delle dinamiche, basso e chitarre sono un fiume di idee, contrappunti e incastri ritmici incredibili, punteggiati e “drammatizzati” da hermansson (in continua crescita) al piano e clavicembalo.

il primo e l’ultimo dei tre capitoli sono quelli in cui i brani si mischiano, due grossi blocchi di musica in cui troverete brandelli di ‘leaving entropia’, ‘this heart of mine’, ‘her voices’, ‘second love’ e pure ‘idioglossia’. nonostante il contesto acustico, l’energia non manca, soprattutto grazie alle chitarre che giocano con groove, ritmiche ed arpeggi in maniera dinamica e coinvolgente, ben lontani dai tristi arrangiamenti “da spiaggia” in cui molti musicisti cadono in queste situazioni. ci sono momenti di jam acustica in cui l’interazione tra i musicisti crea trame in continuo movimento per poi infilarsi inaspettatamente nel brano successivo; se il concetto di partenza è molto vicino al progressive, il risultato finale è qualcosa di diverso e difficilmente definibile. assolutamente da sentire poi la versione di 'ashes' in maggiore, una trovata fantastica che cambia completamente i connotati sonori del brano.
il secondo capitolo è quello con brani “interi”, non fusi insieme; qui prendono vita nuove eccezionali versioni di ‘winning a war’, ‘chain sling’, ‘undertow’ o ‘reconciliation’ (con tanto di citazione di ‘star wars’ in mezzo), tutti brani che in questa nuova luce assumono tratti sfumati e leggeri ma non perdono un grammo della loro intensità. 

difficile quindi considerare ’12:5’ semplicemente come un live, di fatto per il contesto e l’evidente preparazione e sforzo (ri)compositivo questo è un disco che ha ogni diritto di stare tra i capolavori del gruppo, uno dei loro momenti di massima creatività e personalità, una di quelle cose che solo loro potevano fare. da qui in avanti le cose inizieranno a cambiare.

giovedì 9 luglio 2020

pain of salvation, 'remedy lane'


chiedere a un fan dei pain of salvation se preferisca ‘the perfect element’ o ‘remedy lane’ è più o meno equivalente alla domanda “vuoi più bene alla mamma o al papà?”. sono due dischi vicini nel tempo, nel suono e anche nel concept, per quanto ‘remedy lane’ sia molto più legato alle esperienze personali di gildenlöw, è quasi unicamente questione di affetto, di quale si è ascoltato prima.

strutture e composizione si affinano ulteriormente, smussando gli angoli più grezzi di ‘element’ e cristallizzando la formula pain of salvation in ogni sua sfumatura: il mix di generi, la profonda emotività, le armonie vocali sbiellate, i tempi composti, le strutture in evoluzione, ogni elemento del suono del gruppo trova il suo apice in ‘remedy lane’, a scapito forse (ma in maniera molto lieve) di un po’ di istintività che ancora guidava ‘element’.
la voce di daniel è ormai lanciata verso l’infinito e oltre, le sue interpretazioni sono tutte stellari, con l’apice di ‘undertow’ a cui arriveremo tra poco.
partiamo da una considerazione su come suona il disco: malino. le take non sono le migliori e il mix, come in ‘the perfect element’, tende ad impastare più che a far uscire i singoli strumenti; se da un lato questo può fare innervosire chi cerca la pulizia sonora, dall’altro crea un mare di suoni in cui, ancora una volta, gli strumenti si perdono in un insieme dal fortissimo carattere. nel 2016 la band ha pubblicato un remix del disco, pitoccato da jens bogren ai fascination studios, suona meglio ma anche un pelo più finto (e in ogni caso a me ‘ste cose non son mai piaciute per cui io vi parlo del disco originale del 2002).

ancora tre capitoli, altri quasi 70 minuti di musica, un’altra storia che tratta di crescita, sesso, rapporti umani e tradimenti, questa volta più fisica del solito. quello che importa è che di nuovo il disco si basa su una serie di idee e pezzi originali e vincenti che funzionano perfettamente sia nella loro consequenzialità narrativa che presi singolarmente. basta guardare il primo capitolo: dopo l’intro ‘of two beginnings’ il gruppo mette in fila la solenne apertura di ‘ending themes’, ancora con un rap di gildenlöw inserito nella trama lenta e oppressiva del pezzo, il prog incontenibile di ‘fandango’, basata su una melodia in 10/4 e retta da una ritmica tanto fantasiosa quanto compatta, la lunga e teatrale ’a trace of blood’, in cui la prova vocale di gildenlöw è ancora protagonista sopra a una struttura in perenne assedio dalla sezione ritmica, per chiudersi con la delicata ballad ‘this heart of mine’, non lontana da ‘morning on earth’ ma meno marcia e ancora più emotiva. 
chiuso un capitolo del genere ci si aspetta che il disco si rilassi un attimo, invece fa come ‘breaking bad’ e continua a migliorare con ogni pezzo: il secondo capitolo è praticamente un miracolo a parte, una sequenza di 4 pezzi che definire perfetti sarebbe un eufemismo. ‘undertow’ è uno dei classici più classici, una cupissima (musicalmente quanto liricamente) ballata impegnata in un crescendo dinamico ed emotivo da pelle d’oca, legato ad una delle migliori prestazioni vocali di daniel in assoluto; ‘rope ends’ è più prog del prog, un susseguirsi di ritmiche stronze, tempi dispari e cambi di atmosfera che lascia senza fiato, pur senza perdersi nel mero esercizio e mantenendo l’intensità che percorre il disco, grazie anche a stupendi giochi di armonie vocali. la vera perla però è probabilmente ‘chain sling’, esempio di come un’ispirazione sincera possa far convivere melodie dai toni world con metriche assurde, giochi di voci ed emotività profonda, un gioiello tra i più brillanti nella storia dei pos. il capitolo si chiude con il delicato strumentale ‘dryad of the woods’, perfetto nel dare un attimo di luce in mezzo a tanta disperazione.
il gran finale inizia con l’inutile intermezzo synth di ‘remedy lane’, più utile come intro dal vivo che altro, ma prosegue con ‘waking every god’ che è tutto meno che inutile. ricordo che all’epoca dell’uscita del disco un recensore di un famoso giornale del metallo dichiarò qualcosa come “la maggiorparte dei gruppi prog venderebbe la madre per poter scrivere un pezzo così”; vero, nulla da dire. come ‘reconciliation’ sul disco prima, fa la parte del pezzo rock “normale” ma è continuamente insediata da piccole trovate ritmiche che la rendono meravigliosa. ‘second love’ è un pezzo scritto da gildenlöw molti anni prima ed è forse il momento più debole del disco, una ballata non brutta ma leggermente fuori contesto come melodie; poco male perché a seguire c’è invece il miglior pezzo del disco, ‘beyond the pale’. come per la canzone ‘the perfect element’, siamo di fronte ad un brano che può riassumere l’intera carriera del gruppo; questa volta però, nonostante la sezione ritmica sempre fenomenale, nonostante bizzarri giochi di chitarre, nonostante le onnipresenti tastiere di hermansson, le luci sono tutte puntate su daniel, la sua interpretazione è straripante, profonda, emotiva, potente, assolutamente memorabile nell’immergersi in un testo torbido fatto di sesso e desideri proibiti. un capolavoro nel capolavoro, capace di regalare melodie suadenti quanto momenti di rabbia cieca con il sangue agli occhi.

con questo disco di fatto i pain of salvation sono esplosi nel mondo, tutta la critica si è finalmente accorta di loro e i dream theater se li sono portati come spalla nel loro tour europeo del 2002. poco dopo l’ego di gildenlöw inizierà a prendere il sopravvento, portando pian piano la formazione a sfaldarsi, prima che succeda questo però il gruppo riuscirà ad infilare almeno un altro capolavoro e due grandi dischi come ‘be’ e ‘scarsick’. comunque ‘remedy lane’ è un disco imperdibile per chiunque ami il progressive, i concept album e l’originalità, un altro tassello fondamentale nella storia di un gruppo unico.

mercoledì 8 luglio 2020

pain of salvation, 'the perfect element'


il 1999 aveva salutato con un disco emblematico, quel ‘metropolis 2’ che riassumeva 30 anni di progressive in un pacchetto formalmente perfetto (tanto da far storcere il naso a molti), un bigino su tutto ciò che il genere era stato; potremmo quasi considerare sintomatico il fatto che l’anno successivo siano usciti almeno due dischi che hanno mostrato una nuova via al prog (-metal): ‘disconnected’ dei fates warning e ‘the perfect element’. ma se jim matheos e soci avevano una carriera di quasi vent’anni e otto dischi alle spalle, i pain of salvation erano al terzo album e in pochi se li cagavano.

c’è chi ha azzardato una definizione di “emo-prog” per questo album che, per quanto ridicola e futile, porta a rimarcare la fortissima componente emozionale che marchia le produzioni di gildenlöw e soci. in questo caso poi il tutto è focalizzato da un concept che parte dall’incontro fra due individui “rotti” dalla vita per occuparsi di temi quali abuso, aborto, gioco d’azzardo, violenza e redenzione. sì, un pelo più profondo di ‘the spirit carries on’.
i faith no more sono sicuramente un’influenza e nell’iniziale ‘used’ si fanno sentire, un pezzo durissimo in cui daniel si esibisce in un rap violento, interrotto dalla celestiale apertura del ritornello e con una coda in crescendo che trasporta immediatamente nel clima cupo e disperato del disco. se ’used’ presenta con irruenza il personaggio maschile, ‘in the flesh’ fa ancora meglio, introducendo “lei” in maniera sottile e melodica ma con una tensione che continua a crescere inarrestabile fino alla fine dei quasi 9 minuti di pezzo, con una struttura cangiante ma coesa e logica. 
‘in the flesh’ è un ottimo momento per parlare di una peculiarità fondamentale dei pain of salvation, quella sorta di anarchia che li ha resi diversi da tutti gli altri. se il progressive classico si basa sull’ordine e su una scrittura che prende molto della classica, la musica dei pos ha una componente “libera” fatta di armonie vocali assurde (che potevano cambiare nei live) e di parti strumentali che lasciano sempre ad ogni musicista il modo di personalizzare, sforando le misure o interagendo tra gli strumenti in maniera creativa. è progressive con una componente umana molto accentuata, non suona mai freddo o editato digitalmente, ha un calore alla base che coinvolge e commuove.
e quindi poi arriva ‘ashes’, uno dei pezzi più famosi di tutta la carriera, ballata cupissima che strappa la pelle per raccontarci come “lui” e “lei” si sono incontrati. il riff melodico iniziale è magistrale, un intreccio di tre melodie diverse (due chitarre e piano) che unite ne creano una completamente nuova su cui si costruisce il pezzo, un drammatico crescendo dal ritornello memorabile e un solo di chitarra straziante. non è da meno la successiva ‘morning on earth’, ancora una melodia indimenticabile a sorreggere una ballata lirica e larghissima, dal ritornello aperto e luminoso, un bagliore in mezzo all’oscurità dell’album.

la seconda parte del disco non molla la stretta, anzi. ‘idioglossia’ aggredisce con un riff contorto e veloce che cambia tempo nelle sue ripetizioni, tutto il pezzo è claustrofobico e compresso.’her voices’ è un altro gioiello in cui la drammaticità di strofa e ritornello cresce fino a uno special meraviglioso in cui melodie dal sapore orientale si incastrano su tempi dispari, un momento di intensità indescrivibile. ‘dedication’, scritta per il nonno defunto poco prima delle registrazioni, è l’unico brano trascurabile, per quanto la sua intensità non faccia calare minimamente la tensione del disco, grazie anche ai deliziosi contributi pianistici di fredrik hermansson. non è invece certo trascurabile ‘king of loss’, tesa come una corda di violino, violenta, perennemente all’ombra di un disastro incombente ma melodica e larga negli arrangiamenti, straziata da anarchiche armonie vocali e satura come la pece nelle sue esplosioni di rabbia. da notare la prestazione maiuscola di kristoffer gilndelöw al basso fretless, una mano incredibile che passa da groove trascinanti a distorsioni giganti senza mai perdere un gusto melodico personale ed originale.

il terzo capitolo si apre con ‘reconciliation’, una ripresa del tema di ‘morning on earth’ che però esplode in uno dei brani più diretti del disco: per quanto i tempi dispari e i cambi stronzi si susseguano, il pezzo si basa su una struttura più semplice e rock, ancora guidata dalla voce di daniel che nel finale tocca altezze disumane. ‘song for the innocent’ è delicata e lontana ma sfocia in un solo urlato mentre ‘falling’ è il vuoto prima del gran finale, ‘the perfect element’. se c’è un pezzo che possa rappresentare tutta la storia dei pain of salvation, questo è sicuramente un candidato. cupo e oppressivo ma sempre su metriche spiazzanti, delicato e toccante nelle sue aperture, epico nel crescendo di voci centrale, duro e incazzato nei climax, dieci minuti in cui ogni strumento sparisce e si fa parte di un insieme unico, diretto verso il caotico finale percussivo.

le critiche che si possono fare al disco riguardano soprattuto registrazione e mix: lungi dall’essere perfetti, difettano soprattutto nella sezione ritmica, sottile e a tratti un po’ soffocata. poi c’è un po’ di tendenza al sovrarrangiamento ma è un problema imputabile al 90% dei dischi prog per cui non rovina l’ascolto, vista la qualità media della musica.
‘the perfect element’ è un vero e proprio miracolo progressive, uscito in un momento in cui il genere boccheggiava e aveva assoluto bisogno di una ventata d’aria nuova. è il primo vero capolavoro di una formazione compatta e creativa che ancora non aveva finito le sue munizioni. manco per il cazzo.

martedì 7 luglio 2020

pain of salvation, 'one hour by the concrete lake'


a un solo anno di distanza da ‘entropia’, i pain of salvation colpiscono duro con il secondo album, ‘one hour by the concrete lake’, il loro disco più sociale e impegnato.
l’unica differenza nella formazione è la defezione di magdic (non era pronto a stare dietro alla band in rapida crescita) e il conseguente arrivo di johan hallgren, ottimo chitarrista ed eccellente seconda voce che completa la formazione “classica” del gruppo.

‘one hour’ è un concept che parte da uno spunto semplice (un uomo che lavora nell’industria delle armi decide di lasciare il posto per viaggiare e vedere le conseguenze del suo lavoro nel mondo) per andare a toccare una moltitudine di temi sociali, dalla guerra alla mancanza d’acqua alla segregazione razziale per giungere agli effetti devastanti delle scorie nucleari (il lago karachay in russia, usato così tanto come discarica di rifiuti nucleari che un’ora sulla sua sponda può uccidere un uomo, da cui il titolo del disco). tutto questo viene riportato in maniera abbastanza distaccata, con tanto di fonti citate nel booklet, come a ribadire un lato “giornalistico” della storia. 
musicalmente ci sono vari passi avanti rispetto a ‘entropia’. il suono è cambiato, è tagliente, molto cupo e quasi sgraziato (a dirla tutta la batteria suona abbastanza male), questo porta una maggior coesione all’album e più carattere ai pezzi; la composizione è nettamente più a fuoco, meno idee per pezzo ma meglio incanalate, un modo di leggere il progressive che sta a metà strada tra il neo-prog più melodico e il prog metal tecnico: non mancano parti strumentali complesse e strutture labirintiche ma quello che si fa ricordare più di tutto è l’originale profilo melodico che qui trova il compimento non del tutto riuscito su ‘entropia’.

il trittico di pezzi che forma la prima parte è rimasto nelle scalette live per anni e sono tra i migliori pezzi del gruppo: ‘inside’ infila una melodia più bella dell’altra mentre le linee strumentali si contorcono (netta l’influenza dei rush nel riff principale), ‘the big machine’ si fa soffocante, tesa e stranamente epica mentre ‘new year’s eve’ è quasi una mini-suite da cinque minuti e mezzo che passa da una strofa dalla ritmica convulsa a un ritornello aperto e malinconico per sfociare in uno special centrale epico e disperato.
la seconda parte del disco è la meno incisiva, pur non mancando di momenti eccezionali, soprattutto in ‘handful of nothing’ e ‘home’, mentre la terza è decisamente la più eclettica e torna a livelli altissimi con i profumi mediorientali di ‘black hills’ (che ritroveremo in futuro, ad esempio in ‘her voices’), la bella ballata acustica ‘pilgrim’ e soprattutto il grandioso finale con ‘inside out’ che riesce a far convivere un’urgenza sfrontata (tempi veloci e doppia cassa smetallante) con melodie trasognate e oblique, sia nelle voci che nelle chitarre; l’oasi dilatata al centro del pezzo la rende una perfetta controparte dell’iniziale ‘inside’.

non siamo ancora alla perfezione ma ‘one hour’ è il primo disco dei pain of salvation a mostrare veramente i denti, a mettere in tavola quello che sarà il suono della band nella sua epoca d’oro. per una decina d’anni inizieranno a susseguirsi una figata dietro l’altra.

lunedì 6 luglio 2020

pain of salvation, 'entropia'


daniel gildenlöw forma i reality a eskilstuna nel 1984, a 11 anni, assieme all’amico chitarrista daniel magdic. iniziano a suonare in giro per la svezia e a farsi conoscere, intanto si uniscono al gruppo il batterista johan langell e il bassista gustaf hielm (che diventerà uno dei migliori bassisti metal in circolazione, suonando con meshuggah, townsend, mats/morgan e molti altri). sembra che durante un’ora di matematica nel 1991, il diciottenne daniel abbia pensato il nome pain of salvation per il suo gruppo e deciso di usarlo al posto del banale ‘reality’.

così prende il via la storia di un gruppo che è entrato a gamba tesa in un genere che ormai era la presa per il culo di se stesso (il progressive), mostrando a tutti come ritrovare la strada verso una musica umana ed emozionale, lontana dagli sbrodoloni strumentali autoreferenziali di tutta una serie di gruppi clonati.
questo può succedere perché i riferimenti di gildenlöw e soci non sono tanto i soliti mostri del prog o prog metal (genesis, king crimson, rush, queensryche o dream theater, che comunque non mancano) quanto i beatles, i faith no more, i buckley o il musical di broadway. ciò comporta un’attenzione alla melodia e all’emotività delle composizioni di gran lunga superiore alla media progressive e avvicinabile in quegli anni solo a ciò che mikael åkerfeldt stava facendo con gli opeth (sebbene decisamente meno estremo): gildenlöw scrive canzoni, non esercizi. capita che queste canzoni abbiano spesso strutture complesse, cambi di tempo e di atmosfera e durate notevoli ma ciò succede per un’evidente necessità narrativa (tutti i dischi sono concept) e comunicativa, non per vezzo del musicista che vuole farsi figo.
il suono dei pain of salvation è orgogliosamente frutto delle mani dei musicisti e non di produzioni milionarie, i timbri sono sempre molto naturali e il riverbero nel mix non è mai esagerato, la profondità è ottenuta con stratificazioni strumentali che fanno da palco per le sovrannaturali interpretazioni di gildenlöw. già, perché alla fine la vera arma imbattibile dei pain of salvation è proprio la voce di daniel: versatile, agile, potente, sporca quando vuole e dall’estensione disumana, capace di ricordare tanto mike patton quanto prince o jeff buckley passando da rap a strofe melodiche ad acuti impressionanti arrivando anche a momenti urlati (mai comunque scream o growl).

‘entropia’ è il primo disco della band, registrato e pubblicato nel ’97 dopo il demo ‘hereafter’ (che già conteneva molti dei brani del disco) e dopo l’ingresso in formazione di kristoffer gildenlöw, fratello di daniel, in sostituzione di hielm al basso. il tocco di kris sul fretless diventerà un marchio di fabbrica per la band, quando uscirà nel 2006 le cose cambieranno non di poco.
è stato definito come il disco più eclettico del gruppo, in realtà si può anche dire che sia non completamente a fuoco, difetto assolutamente comprensibile per un esordio. di fatto ‘entropia’ butta un quintale di carne sul fuoco, sia musicalmente che liricamente con un concept fanta-bellico-distopico-fiabesco un po’ naif e mediamente pretenzioso (del resto con ‘be’ si arriverà al concept sulle ragioni dell’esistenza divina, tutto sommato siamo ancora quasi coi piedi a terra). è anche il primo concept “tripartito” di gildenlöw, una formula che si ripeterà per molti dei dischi successivi.

non è tutto oro, non ancora almeno, ma ci sono già una manciata di pezzi che resteranno nella storia della band. ‘! (foreword)’ in apertura contiene già tutti i tratti distintivi: chitarre aggressive che si stemperano in arpeggi bizzarri, una ritmica compatta quanto fantasiosa e dinamica e su tutto la voce di daniel a dar prova della sua duttilità. la mini-suite ‘people passing by’ in nove minuti passa da groove obliqui ad aperture drammatiche, anticipando la profondità degli album successivi e facendo il paio con la bellissima ‘nightmist’ che viaggia su binari molto simili. la prima vera perla del disco è ‘winning a war’, sintesi perfettamente bilanciata di tutti gli elementi del suono del gruppo contenuti in una composizione intelligente, melodica ma di grande impatto e soprattutto coinvolgente ed emotiva. come epilogo troviamo il secondo gioiello chiamato ‘leaving entropia’, splendida melodia adagiata su un’armonia per nulla banale ma arrangiata semplicemente per chitarra acustica e voce, un pezzo che sul live ’12:5’ riuscirà ad innalzarsi ancora di più ma che per ora mostra come sia possibile fare progressive senza pressare cinquanta note in ogni battuta.

il resto non è assolutamente brutto ma risente un po’ di più dell’”effetto esordio”: ‘stress’, revival’ e ‘to the end’ sono tre declinazioni piuttosto simili del lato più prog-metal del disco mentre ‘oblivion ocean’ e ‘plains of dawn’ risultano un pochino “troppo”, trascinate da un’enfasi drammatica che non ha ancora la maturità o la profondità di una ‘ashes’ o ’undertow’; restano comunque degli episodi interessanti, soprattutto nei bizzarri arrangiamenti vocali.

non parliamo di un capolavoro ma ‘entropia’ è un disco che ha presentato al mondo un gruppo con un carattere già spiccato e una quantità di idee interessanti da far impallidire la stragrande maggioranza dei colleghi. è una promessa che verrà mantenuta entro 5 anni con tre dischi che porteranno i pain of salvation nell’olimpo del progressive.