giovedì 1 ottobre 2015

crosby, stills & nash, "daylight again"



facile odiare ‘daylight again’, l’ho fatto anch’io per un bel po’ di tempo. perché? perché è un disco fortemente anni ottanta da parte di una band il cui suono è sempre stato radicato nella tradizione degli anni 60/70 se non ben prima. perché è fondamentalmente un disco di stills e nash a cui crosby è stato invitato solo all’ultimo, quando la atlantic ha rifiutato il progetto originale ed ha fatto finire le sessioni di registrazione a spese degli artisti: no crosby, no party. e quindi il baffo arriva in studio in condizioni pietose, ricoperto di croste, ingrassato e distrutto da eroina, cocaina e quant’altro, non esattamente lo scenario ideale per ricostruire il feeling che ha reso capolavori i dischi del passato. facile capire perché i due compagni abbiano sostituito quasi tutte le sue voci con quelle di timothy schmit dei poco e art garfunkel: di fatto crosby compare solo nei due pezzi che porta al gruppo di cui uno solo è scritto da lui, la splendida ‘delta’, ultima sua commovente composizione prima di anni di buio, galera, droga e tutto il resto. e, come se non bastasse, per ‘delta’ dobbiamo ringraziare jackson browne, grande amico del baffo che l’ha costretto al pianoforte con la forza, senza lasciarlo alzare per alcun motivo fino alla fine della composizione.

una volta che si accetta il fatto che il suono è diverso e si riescono ad identificare le perle nell’album non è poi così difficile mettere ‘daylight again’ in rotazione poiché questo è l’ultimo disco consistente del supergruppo; anche i momenti più deboli (quasi tutta la seconda facciata ad eccezione degli ultimi due pezzi) non sono mai disgustosi come capiterà dopo (i due dischi in studio successivi sono un disastro con tanto di synthacci anni 80 e canzoni orrende scritte da gente più o meno a caso, per non parlare delle schifezze soliste di stills di quel periodo; riuscirà a salvarsi, anche se non benissimo, solo nash con il decente ‘earth and sky’).

a salvare il disco sono alcune canzoni che ancora riescono ad emozionare come ai vecchi tempi, almeno una a testa per ognuno dei tre: nash riassume la carriera del progetto nella calda melodia country-pop di 'wasted on the way’, programmatico inno radiofonico che non può non prendere l’ascoltatore per mano. di crosby si diceva ‘delta’, toccante momento autobiografico in cui david riflette su ciò che è diventato usando ancora una volta quell’immaginario marino che già graziò a loro tempo ‘wooden ships’, ‘the lee shore’ o ‘shadow captain’. ma il colpo grosso lo fa mr. stills con l’epica ‘southern cross’, un pezzo fantastico che mette insieme soft-rock con venature latine ed enfasi soul nel ritornello corale, riportando l’impasto vocale del gruppo in primo piano. non contento il biondino va anche a recuperare una vecchia canzone dei primi ’70 che è quella che dà il nome al disco: ‘daylight again’, posta in chiusura, con l’aiuto di garfunkel ai cori, fa scendere una lacrima di nostalgia; parla di padri fondatori, di sangue sulla terra e di soldati persi per strada e va a fondersi perfettamente sul finale nella classica ‘find the cost of freedom’, inno stillsiano per antonomasia nonché a suo tempo b-side del capolavoro ‘ohio’ di neil young.


e il resto? il resto non è da buttare. ‘turn your back on love’ e ‘into the darkness’ sono due bei rockazzi che non mandano a dire le cose e completano una prima facciata memorabile; la seconda parte gira un po’ su se stessa senza mai colpire a fondo ma non segnala grosse cadute di stile. se vi piace il suono del gruppo non troverete nulla di orribile qui dentro e una volta che metterete il cd nell’autoradio potreste tenerlo in macchina per un bel po’ di tempo. è un disco con alcune cose mediocri ma stills e nash hanno lavorato duro per farsele perdonare e, alla fine, il giudizio non può che essere positivo. ciò che verrà dopo è, ahimé, tutt’altra storia.

venerdì 4 settembre 2015

opeth, 'deliverance'



ricordo bene quando uscì 'deliverance'. era il 2002 e mi ero innamorato degli opeth grazie al precedente capolavoro 'blackwater park', indiscutibilmente una delle migliori cose che siano mai state create con la materia metal. era molto molto difficile per mikael bissare un disco così immenso e infatti non ci è mai più riuscito, anche se più avanti riuscirà a tornare su ottimi livelli ('ghost reveries' e 'pale communion').
dove fallisce 'deliverance'? innanzitutto è bene dire che il disco non fallisce del tutto, non lo si può definire assolutamente un brutto disco, il problema è che dopo due dischi profondamente immersi in un'atmosfera molto caratteristica, questo suona freddo e distaccato e non è una cosa che funziona con gli opeth. 'still life' era tutto avvolto in quella foschia rossastra demoniaca che nascondeva orribili presenze nella brughiera; ancora di più nel disco dopo, quando parte 'the leper affinity' si è lì, a blackwater park, immersi nella nebbia e nel freddo invernale, sono viaggi in posti unici che solo questi quattro svedesi potevano descrivere in musica. 

'deliverance' invece, tanto per cominciare, parte con uno dei due pezzi peggiori del disco: 'wreath' non è molto più che una serie di riff incollati uno dopo l'altro che, per quanto tutti belli, non riescono a raccontare una storia o ad evocare particolari immagini. e va ancora peggio con la chiusura del disco, la completamente inutile 'by the pain i see in others', un pezzo che il gruppo stesso ha totalmente dimenticato nelle scalette dei concerti. cosa tiene in piedi allora questo album? la parte centrale. in particolare il secondo ed il terzo pezzo: la title-track è l'unica canzone che riesce a sfruttare il distacco della produzione per creare un mostro cerebrale e contorto che gioca con l'ossessione per creare tensione, la rilascia in un break melodico da applausi per poi sguazzarci in un finale da strapparsi la faccia con un riff secco, meccanico e sincopato ripetuto per un paio di minuti di fila in chiusura, da manuale. 'a fair judgement' invece è una ballata che non ha molto da invidiare a 'face of melinda' o 'harvest' in quanto a intensità e questo già fa capire quanto valga il pezzo. qui la produzione di steven wilson si fa sentire più pesantemente, soprattutto nelle armonie vocali che arricchiscono la parte centrale, in generale questo è l'unico pezzo del disco (insieme al breve intermezzo 'for absent friends') che davvero resti dentro con un'atmosfera piovosa e pesante che non si dimentica in fretta.
'master's apprentices' è un giochino che diverte e funziona abbastanza bene ma non certo al livello dei due pezzi precedenti: fondamentalmente nella sua prima parte è un tributo ai morbid angel, ritmica lenta con tappeto di doppia cassa, riff asfissianti e voce più profonda che mai, prima di passare ad un'inaspettata (neanche troppo) parte melodica centrale con ancora dei bei cori ad opera di wilson. carina ma anche questa ormai dimenticata da anni.

i suoni in generale sono forse i più metal che il gruppo abbia mai avuto, trigger in primo piano, chitarre compresse e spazio secco; stupisce che una produzione di steven wilson prenda questa direzione ma del resto era il periodo di 'deadwing' quindi non si fa fatica a crederci. c'è da dire che come suoni puramente metal sono tra i migliori che si siano sentiti negli ultimi (più di dieci) anni.
forse quello che lascia più amaro in bocca di tutto è che di fatto 'deliverance' è il primo passo "indietro" degli opeth, almeno qualitativamente, e forse è questo che lo blocca un po'. ciononostante questo disco ha fatto esplodere il gruppo nel mondo ancora più di 'blackwater park', grazie anche a un tour pressoché infinito visto che si è poi legato a quello del successivo 'damnation', ovvero il disco che doveva rappresentare la parte melodica e prog degli opeth e invece finiva solo con l'annoiare a morte con pezzi scritti male, arrangiati circa e suonati peggio (l'entusiasmo della gente per un pestone come martin lopez mi rimane un enigma. dal vivo era mediocre alla meglio, su disco i suoni son sempre stati una schifezza e la tecnica era quella che era.). dopo gli svedesi si riprenderanno con l'ottimo 'ghost reveries' per poi crollare a picco col pessimo 'watershed', il loro punto più basso in assoluto insieme a 'damnation'. il titolo watershed tra l'altro sarebbe stato molto più adatto per questo disco, visto che dopo 'deliverance' gli opeth non sarebbero mai più stati gli stessi, nel bene o nel male.

in fin dei conti questo disco vale averlo per quei due pezzi più 'master's apprentices', parliamo comunque di quasi 35 minuti di ottima musica; se poi vi piacciono anche gli altri pezzi, viva viva. se non conoscete gli opeth lasciatelo stare e andate a ritroso da qui nella discografia.

sabato 18 luglio 2015

casualties of cool



non ho avuto un gran rapporto con il townsend post-'ghost'. ho trovato 'epicloud' di un'inutilità difficile da battere per poi essere contraddetto dalla agghiacciante coppia 'z2'-'sky blue', due dischi di una bruttezza rara, mischioni di roba riscaldata, trita e ritrita e con poco o nulla da dire. tralasciamo l'inutile live 'retinal circus'. per questo è stata grossa la mia sorpresa con questo 'casualties of cool', lavoro che ricalca sì le linee guida di 'ki' e 'ghost' (i migliori del periodo devin townsend project) ma le immerge in un concept onirico e sballato che restituisce un'atmosfera sempre sospesa, sempre a un passo dal concretizzarsi per poi rimanere nello spazio.

due parole su questo concept: un viaggiatore spaziale viene attirato su un pianeta deserto ma cosciente che si nutre della paura di chi vi atterra. qui trova una radio da cui una voce di donna lo guida/consiglia per tutto il tempo, interpretata da ché aimee dorval, già ospite su 'ki'.

musicalmente townsend decide di descrivere tutto questo mediante una miscela obliqua di country, psichedelia e ambient: qualche soundscape si agita sempre dietro ai pezzi, dando il senso dello spazio profondo mentre la ritmica minimale viene più o meno espressa da una batteria (a sorpresa compare morgan ågren) di non più di quattro o cinque pezzi e un basso spesso astratto e lontano. le chitarre acustiche reggono il più della baracca e sono chiaramente lo strumento su cui il tutto è stato scritto e spesso anche le voci diventano strumento, parte della tessitura sonora creata dal canadese. la voce di ché aimee dorval è perfetta nel solcare le morbide onde psichedeliche, con un timbro convinto e deciso che quando vuole prende da solo il comando delle canzoni mentre la voce di townsend è più che altro utilizzata per cori e texture di sfondo, una cosa che l'amico sa fare molto bene da tanti anni (qualcuno ancora si ricorda 'ocean machine'?).
seppure la musica non sia lontana dagli standard sonori di townsend, c'è un'intenzione che pone 'casualties of cool' su un percorso parallelo alla carriera del canadese. sicuramente c'è una dinamica più cinematica, fortemente legata alle scene della storia, ma anche a livello puramente di mix si sente l'intento di creare un effetto tridimensionale straniante e molto affascinante in cui gli strumenti giocano su piani diversi,  una sorta di via di sovrapposizione dei suoni crudi di 'ki' sui panorami mozzafiato di 'ghost' a cui il concept dona un focus molto preciso, restituendo all'ascoltatore un senso di spazio sconfinato. 

è un disco da prendersi tutto di fila, nonostante l'importante durata di quasi 74 minuti. lungo, sì, ma non lo ascolterete tutti i giorni, richiede il suo tempo, calma e disposizione a lasciarsi andare. dopo qualche ascolto dal marasma inizieranno a fuoriuscire le forme delle canzoni e allora 'flight', 'the code' o 'ether' spiccheranno per il loro equilibrio fra le varie parti che le costruiscono e sopra a tutte ci sarà la gemma 'bones', costruita su una melodia commovente che regala al pezzo un respiro dinamico incredibile, forse il più bel pezzo di townsend degli ultimi 10 anni.

ci sono voluti un po' di ascolti per assimilarlo ma alla fine 'casualties of cool' mi si è imposto come uno dei lavori più fantasiosi, creativi, originali e riusciti della carriera di devin e ciò mi fa molto felice perché iniziavo davvero a darlo per cotto. non si sa se questo progetto verrà replicato o meno, sinceramente poco mi importa al momento, sono solo contento di avere un nuovo bellissimo viaggione da godermi ogni volta che voglio. 

sabato 4 luglio 2015

toto, 3 luglio 2015, estathé market sound, milano



potrei stare qui ore e ore a dirvi quanto sono fighi i toto, quanto sono bravi i toto, quanto sono belli i toto. no, magari belli no. non lo farò per ore ma a breve ve ne parlerò. quello che più mi preme invece è, una volta tanto, fare una standing ovation a chi ha autorizzato e permesso questo "estathè market sound" che ha il suo peggior difetto proprio nel nome, perché il resto del baraccone è veramente bello. per una volta tanto l'area concerti non è un parcheggio di merda in cui si mette a rischio la vita di decine di migliaia di persone (chi ha organizzato i metallica al forum ne sa qualcosa, criminali a cui andrebbe tolto il dirotto di parola). invece l'area ha varie zone d'ombra, posti per sedersi e soprattutto cibo buono (molto), vario (dai panini c'aa mortazza agli hamburger di scottona passando per macedonie, sciatt, pasta e altro) e a prezzi accessibili per tutti. speriamo che tutti gli idioti incompetenti che organizzano i vari festival da quattro soldi che ci ritroviamo nel "bel" paese imparino da chi le cose le sa fare.
a proposito di organizzazione, quanti concerti abbiamo visto iniziare con mezzore se non ore di ritardo? troppi. i toto erano annunciati per le nove e alle nove spaccate fanno il loro ingresso sul palco. da lì sono cominciate due ore di concerto fenomenali. innanzitutto ringraziamo kimball per essersi tolto di mezzo, gli si vuole bene ma la sua voce era da anni che non reggeva più un concerto intero; joseph williams invece è uno dei cantanti più impressionanti che abbia avuto l'onore di vedere dal vivo. in due ore mai un calo, mai una sbavatura, un paio di acutazzi glissati con classe si perdonano senza alcun problema. chi invece vocalmente inizia a sentire gli anni è sicuramente lukather che nei suoi brani da lead fatica a tenere le linee e sembra decisamente affaticato. poco male, il resto è stato perfetto in ogni sfumatura. la scelta di shannon forrest come batterista mi aveva all'inizio lasciato perplesso; in realtà l'americano si è rivelato azzeccatissimo per almeno due motivi: il primo è il suo essere evidentemente cresciuto a pane e jeff porcaro, il che sta perfettamente in linea con le scelte di 'xiv', un batterista più dentro la musica e meno invasivo di simon philllips (sia sempre lodato in ogni caso). il secondo motivo è sempre legato a simon: se l'inglese ha sempre avuto parti molto fitte e piene nel suo modo di arrangiare, forrest lascia molto più spazio e questo spazio è tutto regalato a uno dei grandi ospiti di questo tour, mr.lenny castro in persona, percussionista presente su centinaia di dischi, sicuramente ne avete qualcuno in casa e non lo sapete. il suo apporto ritmico è fondamentale per riempire il tessuto sonoro ed equilibrarlo, togliendo lo sbilanciamento hard che ha caratterizzato tutte le uscite con phillips in studio e conseguenti tour.
altra menzione d'onore per il redivivo dave 'mattarella' hungate, bassista della prima formazione che torna a rimpiazzare il compianto mike porcaro (a lui, al fratello jeff e a chris squire lukather dedica 'the road goes on'). il suo groove limpido e ficcante compensa la sua totale assenza di presenza (!) scenica: è un docile vecchino canuto che sta in un angolo e ti spacca il culo. allo stesso modo steve porcaro con i suoi synth riporta a noi i suoni di quell'era che fu, ballando tutto il tempo e prendendosi anche una lead con la perla 'takin' it back' recuperata dall'esordio del '78. anche paich sembra più in forma del solito: dimagrito un po', si alza addirittura dallo sgabello per ballare, gigioneggiare e fare un po' il pirla (discutibili e trascurabili i suoi due soli al piano). ottima la scelta di portarsi dietro due coristi per riempire quelle armonie vocali che hanno sempre posto i toto un gradino sopra a tutti.
per concludere, una serata indimenticabile al termine della quale non avevo veramente nulla di cui lamentarmi. posto bello, inizio in orario, gruppo in forma e concerto sublime con vari apici, da 'i'll supply the love' a 'i won't hold you back', 'stranger in town', 'takin' it back' e il fenomenale primo bis con una 'on the run' pazzesca, attaccata alla fine a 'goodbye elenore'.
a parte il concerto meraviglioso, se c'è qualcosa che vi interessa a questa rassegna vi consiglio di andarci perché l'area è fatta davvero bene e vale la pena incoraggiare operazioni simili da parte di chi ha i soldi e li può usare. in culo a live nation, posteitaliane (il postepay festival. ma ci rendiamo conto? questi ci prendono per il culo anno dopo anno con la loro associazione a delinquere e in più cercano di ammazzarci tutti in un recinto di container) e tutti gli altri incompetenti.

e in ogni caso, i toto non smetteranno mai di insegnare a tutti come si fa a suonare. per fortuna.

lunedì 22 giugno 2015

the mars volta, "de-loused in the comatorium"



vi ho parlato di tutti gli altri dischi e in ogni recensione ci ho tenuto a specificare: tutti i dischi sono belli, tutti i dischi sono a modo loro riusciti, ma 'de-loused' non si batte. penso sia giunto il momento di spiegarvi perché. lo farò con molta calma, sapevatelo.

c'erano una volta gli at the drive-in. ora, facciamo finta per un attimo che ci piacessero (no, mi han sempre fatto veramente schifo), oppure no, l'importante è riconoscergli l'importanza che hanno avuto nel declinare alla loro maniera il verbo "core" (io coro, tu cori, egli core) a cavallo tra i 90 e gli 00. molti li mettono nella categoria "emo" e per certi versi non posso che essere d'accordo. di certo quando si sono sciolti nessuno (io mai e poi mai nella vita) avrebbe pensato che quello che avrebbero fatto dopo sarebbe stato così distante da ogni punto di vista. da una parte abbiamo la semplicità della melodia e dell'impatto su cui si basavano gli atdi, dall'altra l'elaborata complessità cerebrale che anima ogni parto dei mars volta. come si uniscono i puntini? con de-loused, uno di quei casi in cui """""disco di trasizione""""" vuol contemporaneamente dire "equilibrio perfetto".

infatti il miracolo di questo disco sta proprio lì, nel suo bilanciare in maniera perfetta la fisicità delle passate esperienze con la nuova forma mentale 'progressive', non ancora compiuta e quindi ancora più efficace nello spingere il gruppo a lanciarsi con benedetta ingenuità in composizioni tortuose ma che mantengono un controllo della struttura ben saldo e molto più classicamente rock rispetto a ciò che succederà dopo.
è un concept? pare. qualcuno ci ha capito qualcosa? no. c'è un protagonista chiamato cerpin taxt che cade in coma per una settimana e tutto il sogno delirante che ne consegue (vogliamo menarcela e vedere i punti di contatto con "the lamb lies down on broadway"? no, limitiamoci a notare la somiglianza) con creature bizzarre, sottomarini, nomi strani e parti del corpo intercambiabili. forse, o forse no. esiste anche un lungo scritto in prosa di cedric che racconta tutta la storia, ci ho capito ancora meno che dai testi. ma poco importa, quello che è interessante notare è il largo uso che cedric fa di parole inventate e ibridi strani che spesso fanno risultare la voce più come uno strumento tramite pronunce e attacchi ritmici molto accentuati.

'de-loused' è anche il frutto di una formazione durata solo un attimo: rimasti senza la bassista eva gardner (andata poi con pink e moby), i due ripiegano su un turnista per il disco e questo turnista si chiama michael balzary, meglio conosciuto come flea; capite che avere come sezione ritmica jon theodore e flea dà una certa impronta alla musica, sicuramente il groove e l'impatto non mancano. a quel punto si aggiunge anche l'amico john frusciante che contribuisce al delirio di 'cicatriz esp'. c'è poi la triste vicenda di jeremy michael ward, effettista, tecnico del suono e della manipolazione audio responsabile di quasi tutti i soundscapes del disco ma trovato morto pieno di droga un mese prima che l'album uscisse (ma non prima di trovare un misterioso diario sul sedile posteriore di una macchina che stava confiscando. su questo diario sarà basato il concept di 'francis the mute'). last but not liszt, rick rubin, meritevole di menzione almeno per un paio motivi: 'de-loused' è l'unico album del gruppo a non essere prodotto dal solo rodriguez-lopez e questo già gli conferisce un aspetto diverso da tutti gli altri; il fatto che questo produttore sia mr. rubin crea poi una serie di ripercussioni musicali, essendo lui famoso per la sua capacità di dare una direzione ed un senso ben precisi agli album che produce, oltre ad essere esperto di vari generi ed avere un orecchio speciale (e anche l'altro non è male!).

tutto questo già mette 'de-loused' in una prospettiva diversa da tutti gli altri dischi dei mars volta e non abbiamo ancora parlato delle canzoni. è chiaro che anche da questo punto di vista, l'album si differenzia rispetto agli altri. prima parlavo di equilibrio, anche le canzoni si basano proprio su di esso riuscendo ad essere sì lunghe e con molti cambi di tempo e dinamica ma mantenendo una melodicità salvagente: quando si sta annegando nel mare strumentale, la voce offre un appiglio per restare nel pezzo, cosa da nei dischi dopo verrà un po' a mancare. fin dall'intro 'son et lumière' sono proprio i ricami di cedric che restano più in testa, anche perché con 'inertiatic esp' si è subito in un frullato nevrotico che necessita di un po' di ascolti prima di mostrare tutti i suoi strati, a partire dai bellissimi incastri ritmici in 6/8. va ancora peggio con 'roulette dares', schizofrenia in musica col suo riff tarantolato, aperture larghissime e un ritornello che non si dimentica, prima di una sezione strumentale con jon theodore protagonista a trainarsi tutti dietro. ed è sempre lui in testa alla fila in 'drunkship of lanterns'; basata su ritmica baion (o baião) brasiliana che regge tutto il pezzo, la canzone è tra le più riuscite del disco grazie ad un impianto strumentale potente ma equilibrato e a linee vocali catchy e piene di quel feeling unico che cedric ha.
'eriatarka' sposta il peso sulla melodia e colpisce tanto per la dolcezza della strofa quanto per l'isterico ritornello, un altro colpo a segno che apre la strada per quello che è probabilmente il capolavoro di tutto il disco: 'cicatriz esp'. mentre in futuro i brani lunghi del gruppo diventeranno ancora più lunghi e con varie direzioni al loro interno, 'cicatriz' nei suoi 12 minuti e mezzo riesce a rimanere sempre focalizzata e spedita, anche quando nella sua parte centrale si apre sempre di più fino a diradarsi quasi nel nulla più psichedelico per poi tornare alla carica in una maniera di cui i primi santana sarebbero molto fieri. come ci riesce? con un groove di basso e batteria che ti apre in quattro, una ritmica funk che suona led zeppelin al punto giusto, che si trascina tutto, inarrestabile, semplicemente perfetta. sopra ci sono gli svolazzi della chitarra di rodriguez, rumorosa e melodica allo stesso tempo, e le stupende linee vocali di cedric che sfociano nel disperato ritornello.
'this apparatus must be unearthed' riporta sulla terra e mostra in germe molte sfaccettature che verranno esplorate sui dischi successivi, forse 'amputechture' più di tutti. poi ritorna la vena melodica e lo fa con una delle migliori ballate di tutta la discografia, l'indimenticabile 'televators' che più volte il gruppo ha tentato di bissare senza mai riuscirci (non tanto per qualità quanto per intenzione). la voce è rassegnata ma vicina, l'arrangiamento sospeso e dilatato e il tutto converge in un ritornello da lacrime prima di uno special che addirittura si lancia in un semplice canone vocale molto efficace.
il viaggio giunge al termine ma non lo vuole certo fare in modo accomodante: i nove minuti di 'take the veil cerpin taxt' si abbattono senza pietà sull'ascoltatore e sono forse i più profetici di tutto il disco: la struttura si mostra a fatica nell'inferno strumentale per poi collassare in un'eco di mellotron da cui comincia la sezione strumentale che non può non ricordare i king crimson per l'uso di incastri su tempi dispari e repentini cambi d'atmosfera prima di chiudere col ritorno della voce ed un finale tanto improvviso quanto liberatorio.

lo spettro di influenze mostrato qui è incredibile, si va dall'hardcore ai king crimson passando per ritmi latin, santana, funk e pop. 
il mix riesce a far emergere ogni minima sfumatura in maniera naturale e mai invasiva, il suono è fortemente tridimensionale grazie anche ai succitati soundscapes di ward che aggiungono uno spazio enorme alle canzoni; il mastering è intelligentissimo e riesce a spingere sull'impatto senza mai danneggiare le dinamiche. in poche parole, dovrete usare la manopola del volume, del resto L'HANNO INVENTATA APPOSTA.
nell'insieme risultavano essenziali le tastiere di isaiah ikey owens, soprattutto il suo hammond che faceva da collante universale in tantissimi momenti. e vogliamo dimenticarci dell'onnipresente tappeto di percussioni di lenny castro? il suo apporto è fondamentale per molti pezzi, su tutti 'drunkship of lanters', 'cicatriz esp' e 'take the veil', pezzi che possono tranquillamente essere ballati da tanto sono ritmicamente trascinanti. (quasi tutto il disco ha questa caratteristica del resto)
eppure la magia di 'de-loused' è la capacità di far suonare tutto questo unito, omogeneo e focalizzato in uno stile che è subito fresco ed originale. che è un po' la magia di tutti i mars volta ma qui, per i vari motivi elencati, gli è riuscita meglio che mai. uno dei 10 dischi rock fondamentali degli ultimi 15-20 anni per invenzione, arrangiamento, esecuzione e produzione, nonché opera mirabile per la sintesi perfetta tra cuore e cervello, un disco unico ed irripetibile che merita di essere ascoltato ed apprezzato da chiunque cerchi qualcosa di più del solito 4/4. 

domenica 14 giugno 2015

the mars volta, "octahedron"



'octahedron' arrivò come un fulmine a ciel sereno. dopo le sbrodolate infinite dei tre album precedenti, io di certo non mi aspettavo un disco che volesse tornare in parte indietro. 
tutto è ridimensionato, a partire dalla durata di "soli" 50 minuti e dall'apertura dell'album, affidata alla placida ballata 'since we've been wrong' che mette in chiaro molte cose: la melodia torna protagonista, sia nelle linee vocali che in quelle strumentali, la malinconia trascina tutte le canzoni e si restituisce al vuoto lo spazio che gli spetta, dopo averglielo brutalmente tolto in tempi non sospetti.

la grande differenza di 'octahedron' rispetto ai capitoli precedenti sta nel suo essere un disco di canzoni e non un blocco unico: ad eccezione di "copernicus" (che mostra germi di ciò che sarà 'noctourniquet') i pezzi sono retti da strofa-ritornello e si distinguono perfettamente gli uni dagli altri, grazie anche ad arrangiamenti più vari e strutturati. 
proprio in questo discorso si trova anche una delle pecche dell'album, ovvero quel thomas pridgen osannato per la sua tecnica e velocità che qui risulta però spesso o fuori luogo o evidentemente trattenuto. il suo ingresso in 'since we've been wrong' è palese in questo senso, con un suono decisamente troppo pompato e un fraseggio che non convince, 'octahedron' era un disco da theodore se non addirittura già da deantoni parks. (dave elitch non l'ho mai considerato un loro batterista, ha fatto solo un tour e non mi è mai piaciuto. guarda caso, l'unico batterista bianco di tutta la carriera)
cosa ne esce da questo miscuglio? ancora una volta, le canzoni. il groove aggressivo sulle melodie sospese di 'teflon' o 'desperate graves', l'unica concessione al vecchio 'funk-core' della buona 'cotopaxi' (non a livello però di una 'viscera eyes'), e, una spanna sopra a tutto, la rassegnata e triste psichedelia ambientale di 'with twilight as my guide', senza dubbio il capolavoro del disco con un lavoro melodico di cedric davvero incredibile che riporta la mente ai tempi di 'televators'.

ma allora 'octahedron' è un disco della madonna, direte. sì e no. nei momenti riusciti lo è, nulla da dire. altrove si trova una sensazione di incompiutezza, come se l'intero disco fosse una prova per poter passare oltre, "vediamo se sappiamo fare ancora quelle cose e poi ne facciamo altre". per fortuna quelle cose le sapevano ancora fare ma il tempo ha confermato che questo è un disco di passaggio, quando il focus si fa più preciso ne escono le figate totali, in altri momenti si gira un po' in tondo portando comunque a casa belle canzoni ('halo of nembutals', 'copernicus', che suona più come un esperimento che come una vera canzone, o 'luciforms', buona ma un po' vaga).
questo può essere un buon punto di partenza per conoscere a grandi linee il loro suono, tenendo a mente che non è un suono compiuto ed organico come nel primo o nell'ultimo disco; è però contenuto nella durata e molto molto melodico, non è assolutamente un album difficile da seguire.

impossibile però dimenticare ciò che è successo dopo: 'noctourniquet' porterà a compimento la nuova via dei mars volta e 'octahedron' resterà un episodio a sé, molto bello ma anche piuttosto effimero.

domenica 7 giugno 2015

the mars volta, "the bedlam in goliath"




se 'amputechture' era l'estremizzazione di alcune parti di 'frances', 'the bedlam in goliath' è la versione steroidizzata di tutto 'amputechture'.
non cambia di certo la mole di materiale: altri 76 minuti ancora più stipati di musica, con le parti noise ormai ridotte a una manciata di secondi in un paio di pezzi, non c'è un secondo di respiro, non c'è un solo momento in cui non stiano succedendo 79 cose tutte insieme.
buona parte della responsabilità di questo va di certo data al nuovo batteraio thomas pridgen, enfant prodige portabandiera di quelli che nel mondo tamburino son chiamati "gospel choppers". per capire ciò che vorrei dire, è giusto che vi dica prima due cose sui gospel choppers: nelle chiese afroamericane negli stati uniti è molto frequente trovare band che suonano durante la messa, questa non è una novità; un po' di anni fa ha iniziato a svilupparsi una scuola di batteristi gospel lungo tutti gli stati uniti, giovani che si ritrovavano a suonare e studiare insieme rubando fill e combinazioni dai loro idoli. il risultato è che spesso questi batteristi hanno un sacco di tecnica e un buon groove ma un pessimo gusto che li porta a suonare sempre troppo con fill intricati e velocissimi che c'entrano solitamente poco con la canzone (e sono normalmente dei semplici linear, frasi in cui non si suona mai più di un pezzo alla volta, a una velocità disumana).
pridgen è decisamente perfetto per rappresentare tutto ciò, la sua performance è esagerata lungo tutto i pezzi, non sta fermo un secondo ed è un continuo spostare accenti, girare le ritmiche, fare fill assurdi. chiaramente tutto è stato, come sempre, arrangiato in toto da rodriguez-lopez per cui è molto probabile che queste siano state le sue indicazioni. di certo se c'è un disco in cui questo modo di suonare può calzare a pennello è proprio 'bedlam': come dicevo è l'intero album ad essere estremo in tutto, i pezzi sono lunghi e tortuosi, le chitarre spalmate in ogni spazio vuoto sono decine e decine, quasi sparisce il basso di juan alderete che rimane a questo punto l'unico appiglio stabile in mezzo al casino più totale (vedi "goliath"). 
c'è però anche una voglia di ridare personalità ad ogni pezzo: mentre in 'amputechture' era tutto un flusso unico, qui le canzoni si distinguono ognuna per un'idea di base e questo è proprio ciò che salva la baracca.
"aberinkula" e "metatron" viaggiano sui medesimi binari ma hanno due ritornelli estremamente catchy che si fanno ricordare; "ilyena", probabilmente il pezzo migliore dell'album, si distingue per un groove ficcante e ancora melodie e ritornelli a fare da collante. notevole la sfuriata  di "wax simulacra" che in due minuti e mezzo rade tutto al suolo, preparando il terreno per il secondo capolavoro "goliath" che fa dello squilibrio il suo punto di forza e fa solcare le follie strumentali da cedric, ispirato a livelli molto alti. la critica che gli si può muovere in questo disco è lo spropositato uso di effettistica che fa: se da un lato dona dinamicità alle linee, dall'altro può stufare soprattutto nell'uso di octaver che creano l'effetto alvin superstar, in 'bedlam' ben più presente che negli altri dischi.
la psichedelia viene limitata a pochi e mirati momenti, principalmente in "cavalettas" e "soothsayer" mentre la breve "tourniquet man" è l'unica oasi di pace in mezzo al macello.
mi sento infine di citare "agadez" perché è l'ultimo pezzo dei mars volta che abbia ancora quegli influssi latin, per quanto ormai vaghi, che avevano graziato soprattutto i primi due album.

per concludere, il discorso non si discosta poi tanto da quello fatto per 'amputechture': ci si trova di fronte un monolito di suono di un'ora e un quarto che non dà tregua né respiro, ancora più estremo del suo predecessore anche nella produzione (troppo) sparata (vi consiglio infatti di procurarvi il vinile o dei file rippati dal vinile, il mastering è infinitamente migliore e lascia spazio agli strumenti, al contrario del cd che è quasi insostenibile); arrivare sani alla fine è un'impresa impegnativa per cui, ancora una volta, se dovete scoprirli non partite da qui, arrivateci quando già avete un'idea di quello che erano i mars volta e, con tempo e pazienza, troverete un altro gran disco.

lunedì 1 giugno 2015

the mars volta, "frances the mute"


nella musica rock non sono troppo rari i curiosi casi storici. per dire, 'wish you were here' è un disco nettamente migliore di 'the wall', eppure è il secondo che storicamente viene più ricordato; 'permanent waves' e 'hemispheres' sono molto meglio scritti di, relativamente, 'moving pictures' e '2112', eppure. e così via, 'tonight's the night' con 'harvest', 'parade' con 'purple rain' e molti altri. alla fine tutto si riduce ad una questione di gusti personali e ciò è quanto è successo anche con 'frances the mute': il suo predecessore, 'de-loused in the comatorium', è decisamente più riuscito e di ben più larghe vedute ma è stato 'francis' a sdoganare il nome dei mars volta e farli esplodere nel mondo. la vera curiosità sta nel fatto che, rispetto all'esordio, 'francis' è un disco molto più estremo, stratificato e """difficile""" e forse è stata proprio questa sua esagerazione a farlo glorificare.
se nel primo album si trovava l'equilibrio perfetto tra fisicità e complessità, qui il pendolo sta decisamente più dalla seconda parte, amplificando oltre modo molti degli aspetti di 'de-loused': il gioco di tensione isterica/rilascio melodico che prima era piuttosto rapido qui viene ingrandito a struttura dei brani; se prima i pezzi reinterpretavano i generi (ritmiche latin suonate rock, fraseggi prog suonati hardcore, groove funk distorti da hard rock) ora invece ci sguazzano: la psichedelia si fa noise (esagerato) protratto per interi minuti, la vena latin si concretizza nel ritornello mex di 'l'via l'viaquez', le jam diventano mostri interminabili fino ad animare la maggiorparte di 'cassandra gemini'. pardon, dei 33 MINUTI di 'cassandra gemini'.
guardando la tracklist sembra di trovarsi davanti a un disco prog del '72, 5 pezzi per un totale di 77 minuti di materiale. tutti di musica? no, qui sta un po' l'inghippo: quando la band effettivamente suona tira fuori cose che stanno sicuramente in altissimo nel loro repertorio, il problema è che per almeno 15 minuti sparsi in giro il tutto si riduce a rumori, suonini, distorsioni e glitch che non aiutano affatto lo scorrere dell'album, già di per sé non proprio leggero.
i pezzi sono tutti lunghi, a parte 'the widow' che dura di fatto 3 minuti in tutto sui suoi 6 minuti nominali ed è quindi molto corta e 'cassandra gemini' che, come già detto, è piuttosto lunga.
'cygnus…vismund cygnus' si fa notare subito e mette le cose bene in chiaro: non aspettatevi un disco accomodante. si parte sottovoce in acustico, si esplode in un fragore latino-core dal ritornello catchy come pochi, si finisce in una jam psichedelica il cui giro è composto da tre misure, una in 9/8, una in 6/4 e una in 4/4, tempo tagliato alla latin, per poi tornare al delirio iniziale. l'apporto di un groovatore solido e fantasioso come jon theodore è essenziale per reggere una struttura del genere, così come il sottile ma imprescindibile sottostrato di tastiere di ikey owens, è tutto un gioco di equilibri che vengono intenzionalmente fatti vacillare per mantenere la musica in continuo movimento. e proprio la tensione gioca un ruolo fondamentale in 'the widow' liberatoria ballata dalle tristi melodie, anticamera del suo naturale sviluppo che è 'miranda that ghost isn't holy anymore', ancora più aperta, ancora più disperata, solcata indelebilmente dalla tromba di… flea. (invero non memorabile per intonazione ma schifo non fa)
in mezzo a questi due episodi deflagra il groove di 'l'via l'viaquez', funk rock tinteggiato di latin che nel ritornello si mette il sombrero e si polleggia con della buona tequila.
cosa si può dire di 'cassandra gemini'? avete presente tutto quello che ho detto finora? ok, conditelo con un approccio molto jam e spalmatelo su 33 minuti di montagne russe: le dinamiche mutano in continuazione, i cambi di tempo si sprecano, le melodie si rincorrono senza fine, il tutto mentre ognuno dà il massimo, dalla ritmica libera ma coesa in maniera terrificante alle chitarre che mostrano un catalogo di suoni incredibile mentre la voce di lancia in urla, versi, scat dementi e paranoie sonore.
non credo che molti potrebbero fare un disco così, difficile da scrivere, difficile da arrangiare e molto difficile da suonare. pur essendo anche difficile da ascoltare ed assimilare, in qualche modo ha stregato milioni di persone in un'era in cui i dischi non si comprano e non si ascoltano più. nell'epoca dello shuffle loro han fatto le suite in parti, negli anni della melodia cheap da pubblicità loro hanno tirato il progressive fuori dal suo torpore, in un età della sintesi loro hanno espanso ed esagerato. tutto bello, tutto molto contro corrente, com'è però che un anno dopo la sua uscita aveva venduto mezzo milione di copie? questo è uno dei miracoli dei mars volta ed uno dei motivi per cui erano i migliori a fare quello che facevano. 

curiosi casi storici.

lunedì 25 maggio 2015

the mars volta, "amputechture"


partiamo dalle ovvietà: 'amputechture' è un disco pesante, densissimo, in continuo movimento e con pochissimi appigli per l'ascoltatore casuale. è indubbiamente il disco più enciclopedico e sfiancante della carriera dei mars volta, che comunque non si sono mai distinti per particolare leggerezza o approcciabilità.
ora che ho fatto scappare la maggiorparte dei lettori, vi parlo di questo disco.
i due sciroccati di el paso arrivavano all'epoca da una doppietta subito incensata (assolutamente a ragione) da pubblico e critica: sia 'de-loused' che 'francis the mute' sono due album pazzeschi, ognuno a modo suo. interessante notare come già 'francis' prendesse i concetti del primo disco e li ampliasse a dismisura, riuscendo a creare un labirinto ritmico e melodico (non tanto armonico) in cui è stupendo perdersi; certo, poi la fruibilità dell'album era minata da quei circa 15-20 minuti di troppo che si concretizzavano in svarioni noise interminabili che di continuo interrompevano il treno della musica.
in 'amputechture' questo non succede, sono 76 minuti esatti tutti suonati dall'inizio alla fine, un flusso infinito di idee, atmosfere, cambi repentini, un vero e proprio tour de force come pochissimi riuscirebbero a fare.
non nascondo che mi ci sia voluto molto tempo prima di riuscire ad apprezzarlo: comprato nel 2006 quando uscì, sento oggi (quasi dieci anni dopo) di riuscire finalmente a godermelo pienamente, tanta è la mole di materiale messo in tavola.
questo è l'ultimo disco della formazione "storica" della band, ovvero l'ultimo con jon theodore alla batteria, la cui assenza si farà notare non poco negli episodi successivi: thomas pridgen è sicuramente un musicista pazzesco, con una tecnica folle e un senso del ritmo incredibile ma ha sempre avuto la tendenza a complicare ancora di più parti che già di per sé erano intricate mentre theodore, col suo stupendo modo di portare il tempo e una fisicità tutta groove e john bonham, riusciva a tenere a terra gli svolazzi di rodriguez-lopez rendendo i brani curiosamente ballabili e scapocciosi. alla fine son gusti ma secondo me theodore riusciva a dare un'equilibrio che il gruppo non è più riuscito ad avere fino al canto del cigno 'noctourniquet'. mi piacerebbe parlarvi dei pezzi uno a uno ma 1) scriverei un papiro infinito e 2) non servirebbe veramente a una fava: è un disco da farsi in endovena dall'inizio alla fine, contro cui vi verrà masochisticamente voglia di sbattere la testa per riuscire a trovare un filo da seguire. quando e se ce la farete vi troverete ricompensati da un trip che non ha paragoni, nemmeno nella loro discografia (non è una questione di qualità, è che proprio così non l'han più fatto). 

probabilmente se dovessi tirare fuori un paio di titoli questi sarebbero "tetragrammaton" e "viscera eyes", la prima perché, subito dopo l'introduzione (di 7 minuti) "vicarious atonement", mette bene in chiaro tutto l'apparato dell'album: chitarre schizofreniche svolazzano insieme alla voce, la quale quando esce dall'isteria tira fuori linee melodiche meravigliose che non si staccano più dalla testa, l'hammond di ikey owens (rip, sigh) fa da collante invisibile ma quando lo noti capisci il suo fondamentale apporto nel dare spazio e respiro ai pezzi, mentre su tutto svetta la sezione ritmica inarrivabile del già citato theodore con quella macchina del groove che è juan alderete, solido ed inaffondabile coi suoi giri mantiene il focus sempre centrato anche nei momenti più deliranti. il pezzo non dà tregua e per quasi 17 minuti continua a mutare forma, colore e suono cavalcando a suon di tempi dispari, obbligati e cambi improvvisi che tolgono il fiato. (capite perché dicevo che è un disco pesante?)
"viscera eyes" invece mostra il lato più groovy/rock del gruppo, con un riff devastante ed un ritornello incredibile in cui l'enfasi continua a crescere grazie anche all'apporto dei fiati, presenti in buona parte del disco. 
menzione dovuta anche per "asilos magdalena", oasi acustica in mezzo al disco che spezza perfettamente la tensione con un magistrale uso di melodie ed accordi sospesi, radicati nel bellissimo suono dell'acustica di lopez e solcato dalla voce profondamente malinconica di cedric che canta l'intero pezzo in spagnolo.

è pressoché impossibile definire la musica dei mars volta. certo, parlando per grandi linee possiamo dire che è progressive rock ma sappiamo bene quanto questa definizione sia indicativa di tutto e niente: chiamano prog tanto i magma quanto i dream theater, c'entrano qualcosa gli uni con gli altri? no, un cazzo di niente proprio. la miscela voltiana ha sempre avuto come punto di forza l'unione del lato cerebrale del prog con la fisicità dell'hardcore, insieme a ritmi latini (che qui iniziano però a sparire un po'), un sacco di funk, hard rock, pop, jazz rock e sarcazzo quant'altra roba. se non li conoscete vi sconsiglio assolutamente di partire da qui, insieme a 'bedlam' è indubbiamente il disco meno adatto per cominciare, mentre 'de-loused' o 'noctourniquet' sono decisamente più accessibili (nonché i miei due preferiti). probabilmente questo non è neanche il loro disco migliore ma sicuramente è un caso a sé, anche in una discografia così eterogenea: è esagerato, prolisso, monumentale ed anche un po' megalomane oltre ad essere lungo e pesante ma quando si riesce finalmente ad entrarci è molto difficile uscirne. 

mercoledì 20 maggio 2015

faith no more, "sol invictus"


18 anni non son pochi per nessuno. nemmeno scott walker, che col suo ritmo di pubblicazione può fare invidia al ciclo delle ere del mondo, è mai arrivato a tanto. 
i faith no more invece non si son fatti problemi e, dopo una reunion che li ha portati in giro per il mondo, compreso un indimenticabile concerto qui a milano nel 2009, si decidono a dare un seguito a quel 'album of the year' che ci aveva lasciati con promesse di ulteriori evoluzioni mai intraprese.
nel frattempo è ovviamente successo di tutto, bordin con ozzy, gould e la sua carriera di produttore e fonico, roddy bottum e gli imperial teen, oltre le sue crociate per i diritti degli omosessuali. e, ovviamente, mike patton. da dove cominciare? facciamo così, non stiamo a dirli, tanto li sappiamo tutti; la sua mente malata l'ha portato in qualsiasi angolo musicale esistente, con risultati sì altalenanti ma che quando hanno colpito nel segno hanno saputo farsi ricordare (l'album con kaada, mondo cane e il bellissimo moonchild con zorn), senza dimenticare la sua attività con la ipecac records.
insomma di roba ne è successa e il rischio che i faith no more potessero aver perso quel loro suono unico era molto alto. per fortuna non è successo: 'sol invictus' è un disco della madonna che sembra potersi incastonare tranquillamente nella discografia del combo americano. 

il suono è effettivamente cambiato, andando a pescare liberamente da mondi ad oggi raramente toccati dal gruppo, come quello wave degli anni '80; ma del resto sappiamo bene che non ci sono mai stati due dischi uguali dei faith no more e 'sol invictus' non fa eccezione.
la base rimane quella che conosciamo, quel rock così assurdamente obliquo, sempre lì lì per diventare qualcos'altro ma senza mai realmente superare la linea: c'è del metal ma non è un disco metal, c'è del funk ma non è un disco funk, c'è la wave ma… vabè avete capito. c'era paura che patton comandasse fin troppo i giochi e portasse il tutto a suonare come un suo progetto: a tratti lo si sente prendere decisamente il comando ma l'apporto del gruppo non viene mai meno e il rischio è evitato in maniera estremamente intelligente. in più c'è da considerare che in tutto l'album dura 40 minuti netti, evitando così qualsiasi filler o pezzo inutile, è tutta una tirata dall'inizio alla fine che vi lascerà interdetti.

sì, perché almeno ai primi ascolti la dura cupezza del disco può lasciare spiazzati; pochi i momenti 'stupidi', molti di più quelli profondi e scuri, a partire dalle due perle assolute "separation anxiety" e soprattutto "matador", due pezzi che riportano le sorti del gruppo al top della scena: scrittura perfetta, groove strappafaccia e un'interpretazione strabordante da parte di tutti, due pezzi epici, storti, strani, paranoici ed animati da un'inquietudine instabile ed elettrica che non molla mai. 
il resto non è molto da meno: quando decidono di spingere se ne escono con bordate impazzite come "superhero" e "black friday", quando la mettono sull'atmosfera ti fondono con "sol invictus" e le melodie di "sunny side up" (che nasconde abilmente una struttura piena di cambi di tempo), quando si lasciano liberi scrivono un pezzo pazzesco come "cone of shame" (in cui è molto facile trovare la matrice di un sacco di canzoni dei pain of salvation, per dirne uno) o la creepy "rise of the fall", la quale mette bene in mostra le tastiere di roddy bottum, sempre presenti, spesso protagoniste delle canzoni.

insomma, il songwriting c'è, il gruppo assolutamente c'è, parliamo un po' dei suoni.
a livello di prese il tutto è fantastico, specialmente la sezione ritmica con la batteria spigolosa di bordin e il mostruoso basso sempre in primo piano di gould, anche produttore del tutto.
quello su cui si può discutere è un mastering a tratti un po' troppo spinto che lascia poco respiro, soprattutto nei momenti più tirati: la voce resta un po' dietro e l'effetto è a volte troppo schiacciato ma non parliamo di un omicidio (qualcuno ha detto toto?), l'album rimane godibile e, complice anche la ridotta durata, non arriva mai a stancare.
ovviamente non sarebbe una mia recensione se non mi lamentassi almeno di qualcosina: ragazzi, due paginette di booklet potevate metterle, bello il digipack ma senza testi, senza reali foto, giusto i credits (senza nemmeno dire chi suona cosa! va bene che dovrebbero insegnarlo alle elementari, però…) e l'artwork, per colori ed impatto abbastanza in linea con quello di 'album of the year'.

per concludere, c'erano un sacco di rischi riguardo questo disco ma i faith no more, in quanto gruppo tra i più intelligenti che il rock abbia mai visto, riescono ad evitarli in scioltezza dando alle stampe quello che è effettivamente il loro nuovo disco, perfettamente inseribile nel loro catalogo e, soprattutto, tremendamente godibile. cambierà la storia? no. cambia qualche prospettiva sul gruppo? no. cambia una giornata in meglio? sì.
dimenticatevi quello che vi aspettavate dal nuovo disco dei faith no more e inizierete ad apprezzare 'sol invictus'. quando ci riuscirete vi renderete conto che questo disco è tutto quello che vi aspettavate, forse anche un po' di più.

giovedì 26 marzo 2015

toto, "xiv"



nove anni, vari tour, cambio di cantante, cambio di batterista, ritorno di steve e morte di mike porcaro… ne è passata di acqua da 'falling in between', piaciuto a molti, snobbato da altri come pasticcio modernista con poco a che fare coi toto. eppure i toto sono ancora qui, nonostante tutto ancora in piedi, ancora insieme, ancora ad insegnare a tutti come si fa a fare… quello che fanno loro. lo chiamiamo rock? pop-rock? jazz rock? fusion rock? ma dobbiamo per forza chiamarlo in qualche modo? chiamiamolo allora toto-rock, sembra una lotteria ma temo sia l'unica definizione possibile.

'xiv' arriva per riportarci la voce cristallina e pazzesca di joseph williams (figlio di john williams. sì, QUEL john williams), per restituirci i synth vintage di steve porcaro, farci riascoltare il ritorno del redivivo dave hungate e ovviamente per regalarci la magia di lukather e paich, le armonie vocali, i ritornelli e tutto il resto. 
spazziamo via subito i dubbi: come canzoni ci troviamo di fronte al miglior disco del gruppo da 'the seventh one' a oggi, senza dubbio. suona toto in tutto e per tutto, dalla prima all'ultima nota, tralasciando le smetallate di 'falling in between', massacrando in composizione 'mindfields', polverizzando per ispirazione 'tambu' e battendo anche 'kingdom of desire', almeno in termini di suono toto.

mattatore assoluto è l'incredibile joseph williams, in forma vocale incredibile, con le sue interpretazioni dà ai pezzi quel quid in più che lo spompo kimball ormai non poteva più dare. ottima anche la prestazione del nuovo keith carlock dietro alle pelli che non fa rimpiangere un mostro come phillips e, anzi, si avvicina di più come stile e groove all'inarrivabile jeff. steve porcaro da parte sua riporta quell'equilibrio pop che era mancato negli ultimi 20 anni coi suoi arrangiamenti incredibili e suoni da un'altra epoca.

i pezzi sono tutti belli, nessuno è veramente debole, è solo questione di gusti. secondo questa logica vi dirò che per me burn, orphan, great expectations e soprattutto le immense chinatown e fortune sono instant classics che vanno subito nell'ideale best of della band, già decisamente carico di materiale.
quindi vi ho detto di tutte le cose bellissime che ci sono nel disco, arriviamo al punto dolente. prese e mix sono perfetti nel creare strati sonori ricchissimi di particolari e sfumature… che un mastering CRIMINALE tenta in ogni modo di massacrare. sinceramente non mi spiego come musicisti di questo calibro possano aver accettato un master che sembra fatto da un imbecille sotto acidi: compressori che schiacciano ogni dinamica a causa di basse pompate oltre ogni dire (il ritornello di all the tears that shine è letteralmente ucciso da questa stronzata), attacchi distrutti e perfino un'insopportabile frequenza che si protrae per tutta l'(ottima) opener running out of time (se vi interessa è a 16200hz, io l'ho tolta con un eq e mi sono rimasterizzato il cd). queste sono cazzate amatoriali che ti aspetti da gruppetti in erba (in tutti i sensi) e da studi da quattro soldi, non certo da una produzione milionaria dei toto fatta in studio a los angeles. il criminale in questo caso si chiama peter doell e, non a caso, ha lavorato a dischi di pop della più bassa lega: marilyn manson, celine dion, kenny g e altre analità di questo tipo. certo, senza il permesso della band non avrebbe potuto fare niente, resta quindi l'enigma: di preciso, cosa cazzo gli è passato per il cervello? questo non è, come qualcuno di ignorante ha detto, una produzione 'moderna e scintillante', questo è un omicidio delle dinamiche e del suono, è uno stupro della classe dei toto.

nonostante ciò il disco ne esce vincitore e dubito che qualcuno lo scalzerà dalla vetta della mia classifica del 2015. pensate quanto sono belle le canzoni per riuscire a sopravvivere a tutto ciò. 

bravi, cazzo.

mercoledì 11 marzo 2015

steven wilson, "hand. cannot. erase"



doveva arrivare il giorno. prima o poi anche steven wilson doveva sbagliare di nuovo e questo è l'anno e questo è il luogo. e questo è il disco.
cosa c'è di sbagliato in 'hand cannot erase'? una serie di cose, alcune grosse, alcune piccole ma che messe tutte insieme restituiscono un'immagine un po' sbiadita, mai veramente nitida e soprattutto ancorata ad un passato che, in quanto tale, è passato. mi spiego.

se per 'the raven' wilson si era costruito una formazione ad hoc per la quale aveva appositamente scritto i pezzi, qui la sensazione è più che la formazione gli sia rimasta appiccicata. per suonare questi pezzi infatti la formazione dei porcupine tree sarebbe probabilmente andata anche meglio, visto che le parti che suonano più forzate sono proprio gli svisoni strumentali ipertecnici. che poi dici cazzi, harrison-edwin-barbieri hanno ben poco da invidiare ai colleghi ma hanno un approccio decisamente diverso, specialmente barbieri, che secondo me avrebbe reso molta più giustizia a questi brani di wilson. resta poi la grande contraddizione intestina al gruppo: chiami dei mostri a suonare e sopra ci canti tu, o stefanuccio? probabilmente un vero cantante avrebbe reso più intenso anche il racconto oltre che alla musica in sé, pensaci in futuro, anche perché questa volta non ci sono melodie memorabili che giustifichino i pezzi, nemmeno quando, come nella title-track, il focus è decisamente più spostato sulla melodicità che sugli incastri ritmici e strutturali. e un pezzo melodico senza belle melodie è, come dire... lievemente inutile?

veniamo invece alla composizione. il disco è un concept incentrato sulla figura di una ragazza che scompare nel nulla e per tre anni nessuno se ne accorge minimamente. sembra una sorta di evoluzione dei temi di 'fear of a blank planet' e infatti ritroviamo anche la perenne fobia di steven verso l'uso smisurato della tecnologia oltre all'alienazione e tutte quelle belle cose che fecero grande quel disco, incluse le cavalcate metallone che qui in mezzo c'entrano quanto i muse a un festival del buon gusto.
la linea di base riprende spesso e volentieri le dinamiche ed influenze di the raven, quindi aridaje de genesis, yes, pink floyd e tutti quegli altri che non stiamo nemmeno più a dire. è da notare come talvolta spunti fuori quel gusto americano che aveva graziato l'immenso 'stupid dream' a suo tempo: le armonie vocali di 3 years older non possono non ricordare crosby, stills & nash così come altrove spunta la malinconia dei beach boys o dei vaghi influssi byrds.
a tutto ciò si alterna/sovrappone/affianca la vena 'moderna' del disco, rappresentata da beat elettronici che ogni tanto fanno capolino. non sono sicuro che questo basti a rendere un disco moderno, soprattutto se il brano che lo esprime al meglio è 'perfect life', una non-canzone che sa di intermezzo tirato in lungo, utile per la storia, inutile per l'ascolto. e purtroppo questa è un'altra cosa che si fa notare lungo il disco: troppe parti suonano 'generiche', non particolarmente focalizzate come composizione, senza una vera idea alla base che le regga e ti faccia cadere la mascella. ci sono addirittura dei momenti propriamente 'brutti', come le orribili cadenze dei cori di 'routine', super-abusate, banali e vuote, oppure la ricomparsa dei meshuggah in 'home invasion' con un riff sincopato che vaga senza andare da nessuna parte. 

non ho ancora insultato minneman e vi dirò, non ho nemmeno voglia di farlo. il suono è ripreso perfettamente, purtroppo però è un brutto suono, assolutamente fuori contesto col resto della musica, continuo a trovare inspiegabile la scelta di questo ginnasta della batteria, soprattutto affiancato a mostri come holzman e govan. 

il discorso sul passato è più semplice: questo disco si nutre di tutto ciò che wilson ha già fatto, dall'etere alieno di 'the sky moves sideways' al pop cristallino di 'stupid dream', i modernismi di 'in absentia' e la cupezza di 'fear of a blank planet', arrivando a ricordare ogni tanto anche i primi no-man. mantiene i cliché che su 'the raven' scintillavano grazie alle composizioni ma che qui risultano semplicemente stantii (in 3 years older pare di sentire una copia dei flower kings. per dire, la copia della copia della copia, trent reznor ne sa qualcosa.) e dimentica completamente lo spirito avventuroso che rese 'grace for drowning' forse la migliore uscita di wilson in assoluto.

tanto per non citare trent reznor così a casaccio, restiamo collegati: ricordate quando uscì quella pila di merda fumante chiamata 'year zero'? al tempo fu anticipato da una campagna pubblicitaria immensa che prevedeva anche la distribuzione di misteriose chiavette usb, oscuri complotti governativi e addirittura il rapimento (finto) di alcuni fan per dargli un'anteprima del disco (brutto). qui non siamo a quei livelli ma anche wilson si è premurato di fare una bella fanfara con tanto di blog della protagonista del disco che parla della sua vita, video dallo studio e un booklet/artwork studiato e curatissimo. diamo credito all'aspetto visivo del disco, davvero ben fatto, peccato che si stia parlando di un disco musicale e non di un libro di fotografie.


ho detto tanto di male, di buono c'è che non è un disco di brutta musica, si ascolta nonostante la durata eccessiva e non stanca particolarmente ma per pura inventiva musicale sta un paio di gradini sotto a quasi tutta la produzione wilsoniana. e se in futuro il buon steven ha intenzione di recuperare la sua anima pop, forse è veramente giunto il momento di riunire il porcospino e recuperare un po' di filo logico del discorso perché 'hand. cannot. erase.' non si capisce veramente dove voglia andare e di certo non si farà ricordare a lungo.

lunedì 26 gennaio 2015

the decemberists, 'what a terrible world, what a beautiful world'



ci han fatto aspettare un po' i decemberists per avere questo disco. certo, meloy aveva detto che si sarebbero presi una pausa, in più il tumore al seno di jenny conlee non ha certo aiutato. oggi che la polistrumentista è guarita, eccoci a parlare finalmente del primo disco di inediti dallo strepitoso 'the king is dead' del 2011.

chi si aspettava un seguito sulla falsariga di quel disco potrebbe rimanere deluso. del resto anche chi si aspettava un 'hazards of love' parte 2 può rimanere deluso. mettiamola così, se avevate aspettative ben precise riguardo a questo disco o se vi aspettavate che fosse un blocco omogeneo, molto probabilmente ci metterete un po' ad assimilarlo. 
se vogliamo, 'what a terrible world' si presenta più come una forma più riuscita del dinamicismo di 'picaresque', disco che difficilmente stava fermo sulle stesse sonorità per più di due pezzi. nel momento in cui sentirete cavalry captain capirete perfettamente il parallelo con l'album del 2005, difficile non pensare a we both go down together con quel lick di archi ossessivo e la voce lamentosa molto molto molto vicina a territori r.e.m..

il disco è probabilmente il più vario e dinamico nella carriera del gruppo e spazia dalle dolci ballate campagnole di 'the king is dead' (make you better, lake song, 12-17-12) a momenti vicini agli inizi di 'castaways' (better not wake the baby, anti-summersong), passando per il suono più pieno di 'hazards' ma andando a colpire veramente nel segno grazie al feeling generale di passione e voglia di vivere che permea tutte le composizioni, anche le più oscure. ovviamente le composizioni più oscure sono anche le migliori: lake song fa cadere una lieve pioggerella grazie a un arrangiamento semplice quanto curato, sostegno a melodie profondissime interpretate da un meloy più cantante che mai (pare abbia scoperto di avere un registro vocale ben più ampio di quanto ci abbia fatto credere finora). carolina low per atmosfera sembra arrivare dall'ep (sottovalutato) 'long live the king', un country-blues vibrante di cori enfatici e retto dal feeling pieno e profondo della voce. poi su tutto svetta il picco del disco e indubbiamente uno dei massimi vertici della carriera del gruppo: till the water is all long gone è semplicemente perfetta, dal lick di chitarra bluesy con cui si apre al mellotron che apre spazi infiniti, tutto in simbiosi con un testo da lacrime ed una drammaticità di fondo che lascia veramente basiti. 

potrei parlare degli anni '60 di philomena o degli accenni cave-iani di easy come, easy go, potrei dirvi che le coordinate di riferimento non sono lontane dal solito (byrds-r.e.m.-neil young). oppure, come effettivamente farò, potrei piantarla qui e raccomandarvi di ascoltare quello che, già a gennaio, posso assicurarvi essere uno dei dischi dell'anno.