domenica 3 aprile 2016

O(+>, “the gold experience”



venne poi il giorno in cui il nano sbroccò del tutto. precisamente nel 1993, quando prince rogers nelson, dopo aver dato alle stampe un’accozzaglia di scarti rielaborati chiamata ‘come’ ed accreditata a ‘prince 1958-1993’, decise che era ora di cambiare. non solo la casa discografica, la warner che a suo dire tarpava la sua creatività impedendogli di pubblicare 3 o 4 dischi all’anno (se erano tutti sulla scia di ‘come’ non è difficile immaginare il perché…) ma anche il suo stesso nome, in 
come si pronuncia questa cosa? non si pronuncia. al limite mmfnnnn o gghhhrrgngn, oppure, come han fatto tanti, facendo incazzare il nano, lo si chiama tafkap, ovvero the artist formerly known as prince. questo poi, quando il tappo si è richiamato prince, ha fatto ovviamente sì che il suo nome potesse essere the artist formerly known as the artist formerly known as prince. tafkatafkap, manco una filastrocca del gabon.

ma lasciamo perdere tutta questa storia, chiamatelo come vi pare, il vero problema di princino il breve in questo periodo era il suo evidente calo di ispirazione. per tutta la prima metà dei ’90, ovvero durante il periodo new power generation, mmfnnnn si era preso bene con il rap e le gang e l’hip hop e gangsta shit, che del resto stava spopolando anche nel resto del mondo. purtroppo però sui suoi pezzi normalmente ci sta bene come la melma sulle lasagne per cui in buona parte ne avremmo fatto volentieri a meno (quasi l’intero disco ‘diamonds and pearls’ si può prendere e buttare via senza pensarci troppo). in ‘the gold experience’ la parola d’ordine è ecletticità, questo è il modo buono di dirla, se no si può dire che c’è un nucleo coeso con attorno roba un po’ a cazzo di cane, poco cambia. di sicuro i pezzi che costituiscono il cuore dell’album sono tra i più ispirati di tutto il decennio, dalla botta di adrenalina (o endorfine) di ‘endorphinmachine’ al funk zozzissimo di ‘billy jack bitch’ (che dà bellamente della puttana ad una giornalista gossip di minneapolis che odiava il nostro musico bonsai), l’ammiccante (dai, davvero?) ‘319’ e l’incredibile porno-ballata ‘shhh’, tanto ridicola nel testo quanto retta da una prestazione inarrivabile del gruppo, con quella macchina da guerra di michael bland alla batteria a trascinare il pezzo e tafkatafkap perso in un’interpretazione da pelle d’oca, sia alla voce che alla chitarra. ‘dolphin’ è un buon pop-rock con chiare tracce hendrixiane e ‘p control’ (p sta per pussy. sorpresi?) è probabilmente la miglior opener di tutti i suoi (del nano) dischi dei ’90. ottimo anche l'apporto della sezione fiati, i cui interventi riescono sempre a rivitalizzare le canzoni e ad accentuare dinamiche e groove.

in mezzo poi c’è la sabbietta a riempire gli spazi. a parte i fastidiosi interventi dell’npg operator che ci tiene a darci importantissime comunicazioni di servizio come ‘prince està muerto’ o “that was just a sample of the many experiences the dawn has to offer. to continue, please press come”, roba forte, ci sono una serie di canzoni che spaziano dalla rotolante ‘we march’ alla quasi identica ‘now’, passando per la gradevole ballata acustica ‘shy’ e arrivando alla conclusiva ‘gold’, macchiata un po’ dall’eccessivo entusiasmo che frenava anche ‘graffiti bridge’ qualche anno prima. non siamo al livello dei brani migliori ma non c’è nemmeno nulla che possa definirsi brutto, il brodo viene allungato un po’ troppo, tutto qui. resta sorprendentemente solida la capacità di utilizzare linguaggi e fraseggi dei generi più disparati e renderli significativi in un contesto in cui vale tutto, o quasi. è lo stesso concetto del miracolo di 'purple rain' o 'sign o the times' ma trasportato di dieci anni.

alla fine dei conti, guardando i dischi che il coboldo minneapolitano ci ha dato negli anni 90 è abbastanza facile dire che questo fosse il migliore. oltre all’essere il proverbiale orbo nel paese dei ciechi, non è nemmeno del tutto orbo e soprattutto l’occhio da cui ci vede funziona proprio bene. certo, poi vede tutto da quell’altezza ma questo è un altro discorso.