domenica 28 settembre 2025

queensryche, 'operation: mindcrime ii'

 


nessuno ne sentiva il bisogno, siamo onesti. i capolavori lasciamoli dove stanno, andare a rivangare il passato raramente è una buona idea. visto anche il periodo di ispirazione non certo florida in cui si trovavano i queensryche, i presupposti per un fallimento totale c’erano tutti. 

invece, a scapito delle previsioni e nonostante i tanti, tantissimi problemi e difetti del disco, ‘mindcrime 2’ è il miglior album dei queensryche senza chris degarmo. 

sempre se vogliamo chiamarlo un disco dei queensryche.

perché? semplice: wilton non ha suonato una nota in tutto il disco, le chitarre sono ad appannaggio di stone e del produttore jason slater, più qualche collaboratore di studio; il basso è suonato quasi interamente ancora da slater, con pochissime parti di jackson; rockenfield non si è neanche mai presentato in studio, metà delle batterie sono fatte da matt lucich, l’altra metà è un’orrenda drum machine. le composizioni sono tutte della coppia tate/slater e anche la voce di tate, per quanto ancora in forma, non è neanche lontanamente quella di una volta.


il concept è sfilacciato e vago, nikki esce di prigione, trova dr.x, lo uccide e poi pensa di suicidarsi, più o meno tutto qui, poco più di un pretesto per rimettere in campo i vecchi personaggi e imbastire un circo che ha più del musical che del disco, pieno di intermezzi e parti teatrali che spezzano il ritmo durante l’ascolto.


detta così sembra una merda, lo so. quello che ha del miracoloso però è la qualità delle composizioni, di cui almeno metà sono fantastiche. torna il metal come non si sentiva da ‘promised land’ ma è un metal lontano da quello di una volta, moderno, abrasivo e senza tutta la rifinitura di classe dell’originale; è metal, sì, ma non c’è la minima traccia dei riff indimenticabili di degarmo o dei suoi assoli, è un disco diverso e quel titolo non deve sviare.

’i’m american’ non può neanche sognarsi la cazzimma di ‘revolution calling’ ma non è una brutta apertura, aggressiva e trascinante nonostante l’orrenda drum machine, però è con la tripletta successiva che il livello si alza davvero.

‘one foot in hell’ ci riporta in strada con nikki con una bella strofa tesa e un ritornello tutto da cantare, il buon lavoro di chitarra di stone e slater la tiene in piedi anche se i riff non sono dei più originali. ‘hostage’ è una perla e uno dei momenti a toccare l’intensità del primo capitolo, un 6/8 disperato in cui chitarre pulite e distorte si intrecciano come ai vecchi tempi e tate regala un’interpretazione degna del suo nome, drammatica e profonda; è anche uno dei pochi pezzi in cui si sente il basso, non ci è dato sapere chi lo abbia suonato. è con ‘the hands’ però che si tocca l’apice del disco, un pezzo finalmente con dei riff degni del nome queensryche, bellissime melodie di voce e un’atmosfera davvero figlia del primo capitolo, complice anche la paracula citazione di ‘breaking the silence’ posta in apertura.


la parte centrale dell’album scende un po’ come intensità, con ‘speed of light’ che ruba il riff di ‘kashmir’ mentre ‘signs say go’ e ‘re-arrange you’ rialzano il tempo ma girano un po’ su se stesse, pezzi buoni ma non memorabili. ‘the chase’ all’epoca fece parlare molto la gente per il suo duetto tra due mostri come tate e ronnie james dio, che qui interpreta il dr.x durante il confronto con nikki; in realtà viste le premesse era lecito aspettarsi ben di più da un pezzo che dovrebbe essere anche un nodo cruciale nella trama del concept, è un altro pezzo veloce, condito da orchestrazioni cinematografiche di pessimo gusto in cui tutta l’attenzione è sul duello vocale, tanto che i riff di chitarra sono abbastanza inutili ma almeno le melodie reggono e la canzone si fa apprezzare.


‘murderer’ apre una seconda parte in cui la dimensione teatrale prende sempre più il sopravvento, lo fa però con un altro pezzo molto aggressivo con le durissime chitarre ad accompagnare un tate incazzato mentre nikki tiene dr.x con una pistola alla testa e parla con il fantasma di sister mary. la batteria finta è agghiacciante. ‘circles’ è un interludio assolutamente superfluo da ogni punto di vista, ‘if i could change it all’ una ballata sorprendentemente buona con una delle apparizioni più consistenti di pamela moore e un gran bel crescendo, purtroppo vanificato da un finale che definire “tamarro” sarebbe un eufemismo. ‘an intentional confrontation’ è poco più di un altro intermezzo con batteria finta, una scenetta da broadway che serve unicamente alla trama, ‘a junkie’s blues’ non si capisce bene cosa sia o perché sia lì, ‘fear city slide’ almeno ha qualche bel riff e un ritornello decente, poi la vicenda arriva a conclusione con quello che dovrebbe essere l’apice emotivo, la ballatona ‘all the promises’. ve la ricordate ‘eyes of a stranger’? ecco, lasciamola dove sta. qui ci si accontenta di una robetta che c’entra ben poco con il mood di ‘mindcrime’, quattro strofe messe insieme per far dialogare ancora nikki e sister mary prima della fine ma non ci sono melodie da ricordare, non ci sono chitarre indimenticabili, se c’è il basso nessuno se n’è accorto.


poteva andare molto peggio, non ci sono dubbi. poteva anche andare molto meglio, ad esempio lasciando il passato dove stava e magari producendo un nuovo concept con una nuova trama, tutto il peso sulle spalle dell’album si sarebbe alleggerito e ne avremmo goduto molto di più. se poi la tragica assenza di degarmo è un mattone da sola, l’assenza anche di tutto il resto della band diventa un tragicomico segno premonitore, oltre che un tremendo handicap per l’intero progetto.

luci e ombre per un disco che, in fin dei conti, risulta essere una delle cose migliori prodotte dai ryche senza degarmo, sarebbe stato ancora meglio se non si fosse preso responsabilità che gli competono fino a un certo punto.

domenica 21 settembre 2025

queensryche, 'tribe'

 


‘q2k’ è stato un fallimento totale ma il tour seguente ha mostrato un gruppo tutto sommato ancora in vita, con tate in una forma decente e la band ancora vogliosa di suonare sul serio, incluso kelly gray che nel bel live ‘live evolution’ risulta più inserito nel contesto dei queensryche. infatti subito dopo viene allontanato dalla band, pare per abuso di sostanze, mi piace pensare invece che l’abbiano fatto per il suo agghiacciante lavoro al mix di ‘q2k’.

gira voce, si dice che, pare, forse, qualcuno ha visto, qualcun’altro ha sentito che degarmo è tornato, manco fosse batman, per salvare il destino dei queensryche. è vero a metà, degarmo abbandona gli aerei per un attimo, collabora alla scrittura di quattro pezzi per il nuovo disco e su questi pezzi ci suona pure ma in realtà il nuovo chitarrista dei ryche è mike stone, che però quasi non suona sul disco. 


‘tribe’ arriva nel 2003, a quattro anni dal disastro ‘q2k’ con in mezzo un live e un paio di best of, più che giustificabili, e il disco solista di tate, molto meno giustificabile. è un passo deciso in avanti rispetto al suo predecessore, un po’ da tutti i punti di vista, pur restando ben lontano dalle glorie di un tempo. diciamo che il livello medio è più alto e non c’è roba offensiva, è anche vero però che pure i pezzi migliori non sono capolavori e che qui si chiude ufficialmente la grande tradizione di chiusure spettacolari, con ‘doin fine’ che risulta tra i pezzi peggiori del disco.

al contrario ‘open’, scritta con degarmo, è una gran bella apertura, si ritrova l’aggressività nelle chitarre, c’è un’atmosfera mistica molto tesa che si apre in un bel ritornello corale, bel pezzo. purtroppo si fa notare anche un altro mediocre lavoro di mix che spesso distorce sulle dinamiche più spinte.

‘desert dance’ è un altro dei “pezzi degarmo”, le chitarre tornano a graffiare e tate è scatenato, è un hard molto asciutto e ancora con toni mediorientali come ‘open’, trainato da un riff semplice ma efficace, per quanto smorzato dall’eccessiva compressione. segue il terzo pezzo con il vecchio amico, ‘falling behind’, ballata che sembra voler creare un ponte tra ‘promised land’ e ‘hear in the now frontier’; l’obiettivo è raggiunto, questo però vuol dire che il brano ha una bella strofa tesa e magnetica ma un ritornello piuttosto spompo e sempliciotto che smorza completamente il suo potenziale.

l’ultima canzone scritta con degarmo è ‘the art of life’, penultimo pezzo del disco in cui ancora si possono sentire nette suggestioni di ‘promised land’, una bella power ballad lenta e angosciante punteggiata dagli interventi di tate al sax che resta invece più indietro con la voce, tra i pezzi migliori del disco.


il resto è altalenante, ‘losing myself’ cerca con successo un ritornello leggero e solare ma ‘rhythm of hope’ o ‘blood’ sembrano non cercare nulla e trovare ancora meno. fa un po’ meglio ‘great divide’ con un buon ritornello ma nulla da raccontare ai nipoti mentre di tutt’altra pasta è ‘tribe’, pezzo scuro, nervoso e pesante che la voce di tate riesce a portare a livelli molto alti sia nella bella strofa percussiva che nello strano e apertissimo ritornello.


all’uscita la critica accolse bene ‘tribe’ vedendolo come un segno di rinascita. a quasi vent’anni dalla sua uscita potremmo dire che di tutti i dischi post-degarmo sembra il più sinceramente ispirato, almeno a livello di gruppo. la presenza del vecchio chitarrista non rivela tanto una voglia di ritorno al passato quanto un tentativo di ulteriore evoluzione e questo è solo un bene, purtroppo però quando c’è da tirare le somme i pezzi davvero belli di ‘tribe’ sono 3 o 4, troppo pochi perché si possa parlare di rinascita.

domenica 14 settembre 2025

queensryche, 'q2k'

 


di tutte le cattive idee che potevano venire a geoff tate e ai queensryche nel 1999, sostituire chris degarmo con kelly gray è probabilmente una delle peggiori. il chitarrista, amico di tate dai tempi dei myth, non solo è completamente anonimo come strumentista ma si allarga anche al mix del disco, invero una delle cose peggiori in uno dei capitoli più bui della storia del gruppo.

il suono è impastato, la batteria compressissima perde ogni dinamica, il basso è quasi irriconoscibile e la voce è sempre sempre sempre passata da un overdrive davvero fastidioso. suona un po’ tutto una merda.


a livello di composizione i queensryche sono evidentemente allo sbando, giustificato da tate come “sperimentazione” ma facilmente smascherabile già al primo pezzo, la sciapa ‘falling down’. restiamo in territori rock, con qualche leggera puntata nell’hard ma ‘q2k’ vorrebbe essere un disco radiofonico di canzoni semplici, purtroppo per i nostri amici c’è una linea neanche troppo sottile che divide il semplice dal banale.

per capire di cosa si parla basti ascoltare il meno peggio: ‘sacred ground’ ha qualche buono spunto melodico, ‘liquid sky’ delle armonie vocali che non sono male e nel mediocre piglio settantiano di ‘burning man’ si può almeno apprezzare un buon lavoro della sezione ritmica ma parliamo di briciole.

poi la sorpresa. ancora una volta, l’ultima, il pezzo che chiude l’album sembra scritto da un’altra band. ‘the right side of my mind’, gli unici 6 minuti che davvero vale la pena ascoltare di tutto ‘q2k’, una sorta di continuazione del discorso di ‘spool’, con un bellissimo ritornello e gli unici momenti di chitarra davvero validi di tutto il disco.


forse hanno avuto fretta di dimostrare di essere ancora vivi, magari con un po’ più di tempo sarebbero stati in grado di scrivere un altro paio di ‘right side of my mind’. chissà, è andata così e l’unico merito che si può dare a ‘q2k’, a parte la sua splendida chiusura, è di aver tenuto insieme il gruppo in un momento di crisi. visto com’è andata dopo, oggi qualcuno potrebbe chiedersi se ne valesse veramente la pena e non ci sarebbero moltissimi argomenti per dargli torto.

domenica 7 settembre 2025

nevermore, 'the obsidian conspiracy'

 



devono passare 5 anni prima che i nevermore tornino in studio per l’ultima volta. in questi 5 anni escono i dischi solisti di loomis e dane: il chitarrista annoia con un poco utile esercizio di stile chiamato ‘zero order phase’, va meglio a dane che lascia esplodere il suo lato più emozionale nel buon ‘praises to the war machine’, scritto e suonato insieme a peter wichers dei soilwork il quale porta un tocco svedese che non stona affatto con le melodie di dane; mancano i riff memorabili di loomis ma quelli mancano anche nel disco di loomis stesso per cui ‘praises’ come album ne esce decisamente meglio.

succede anche un live dei nevermore, il dvd e cd ‘the year of the voyager’, registrazione di un incendiario concerto a bochum in belgio che fa ben sperare sullo stato di salute del gruppo che snocciola classici uno dietro l’altro e devasta il pubblico per due ore.


grande attesa quindi per ‘the obsidian conspiracy’ che però arriva e si impone come disco meno interessante del gruppo dai tempi dell’esordio. sulla carta è tutto perfetto, andy sneap in regia di mix e il nuovo amico di dane peter wichers promosso a produttore dell’album. l’album vuole ritrovare l’equilibrio di ‘dead heart’, andando spesso a cercare la melodia efficace e mostrando un suono perfetto, tutto questo è evidente a partire dalla badilata in faccia di ‘termination proclamation’ ma c’è qualcos’altro, qualcosa non funziona. innanzitutto problemi in pre-produzione coi contrasti tra i membri (in genere dane-sheppard "contro" loomis-williams) che portano a una composizione frammentaria e con poca comunicazione, poi lo stesso intervento di wichers che vuole fortemente semplificare i brani, cosa che lo porta allo scontro aperto con loomis e all'abbandono del progetto prima della fine delle registrazioni.

inoltre dopo 25 anni la formula inizia a ripetersi: se questo si sentiva già in ‘this godless endeavour’ purtroppo però a ‘the obsidian conspiracy’ manca la verve di quel disco, suona come un mestiere senza ispirazione per gran parte della sua durata ed è un peccato anche per i momenti buoni che comunque non mancano. 

la già citata ‘termination proclamation’ non potrà competere con i classici del passato ma in 3 minuti soli riesce a mostrare una capacità di sintesi inaspettata e a distruggere comunque tutto sul suo breve cammino, ‘and the maiden spoke’ ha una strofa tritaossa che risolve purtroppo in un ritornello banalotto ma non brutto mentre la title-track posta in chiusura ne esce come il pezzo migliore del disco con una prestazione di gruppo incazzata e trascinante, seppur ancora una volta non paragonabile ai tempi d’oro.

ma per ogni pezzo buono ce ne sono almeno due che si dimenticano contestualmente all’ascolto: le banalità di ‘moonrise’ o ‘without morals’, ‘emptiness unobstructed’ che mostra la differenza tra “semplice” e “banale”, praticamente l’ombra di ‘the heart collector’, commento che si può copia-incollare per la tremenda ‘the blue marble and the new soul’; c’è qualche pezzo che va verso il dane solista ma non riesce a catturare in alcun modo, davvero troppa noia, si cerca una semplificazione alla ‘empire’ dei queensryche ma le canzoni non reggono e il progetto resta una buona idea con una realizzazione mediocre.


un disco che lascia l’amaro in bocca, soprattutto perché è l’addio di un gruppo che al suo apice ha saputo regalare musica di livello stellare con una disinvoltura che ha lasciato tutti a bocca aperta. seguirà un buon tour che si concluderà il 20 marzo 2011 con l’ultimo concerto dei nevermore, poi silenzio, dichiarazioni di litigi molto gravi che avrebbero compromesso le amicizie nel gruppo, un altro sciapo solista di loomis e poi il sipario che cala con la morte per infarto di warrel dane il 13 dicembre del 2017, in brasile dove stava registrando il suo secondo disco solista (il buon ‘shadow work’ pubblicato postumo nel ’18, un disco con forti rimandi a ‘politics of ecstasy’).

loomis, dopo un disco noioso col progetto ‘conquering dystopia’ e un altro sciapo solista (‘plains of oblivion’, poco meglio del primo), finisce a fare il gregario di lusso per gli arch enemy ormai alla frutta, williams partecipa al trascurabile progetto ashes of ares di matt barlow e gli altrettanto trascurabili ghost ship octavius (che rincorrono maldestramente il suono nevermore) mentre sheppard praticamente scompare, a causa anche della diagnosi del morbo di chron. della gloria che fu restano solo il ricordo e una manciata di dischi scolpiti nella storia dell’heavy metal ma quelli non ce li toglierà nessuno.

domenica 31 agosto 2025

nevermore, 'this godless endeavor'

 



e così, dopo il mezzo fallimento di ‘enemies of reality’, tutti i pezzi tornano al loro posto con andy sneap saldamente al banco di regia. il momento non è dei migliori, il disco precedente ha convinto poche persone e il tour seguente ha lasciato ancora più perplessi sullo stato di forma dei 4+1 di seattle.

non vi dico il sollievo e la gioia che si è provati la prima volta che si è ascoltato ‘this godless endeavor’, sono tornati i nevermore cazzo. loro giocano sporco, bravissimi a mettere in apertura una ‘born’ che va dritta dritta nel loro ideale best of con una prestazione stellare di loomis e  williams e con warrel dane a cavalcare il marasma strumentale con linee fantastiche e un nuovo ritornello da ricordare per sempre. 


c’è tanto mestiere, è innegabile, ma possiamo veramente dire che in ‘dead heart’ non ce ne fosse? no, e allora è fare il pelo a un uovo che non se lo merita, perché questo disco quando funziona non ha niente da invidiare a quel suo specifico antenato. semmai possiamo dire che non ha la carica emotiva di ‘neon black’ o l’esplosività di ‘politics’ ma pezzi come ‘born’, ‘my acid words’, ‘bittersweet feast’ o (soprattutto) la monumentale ‘this godless endeavor’ hanno ben poco da invidiare a una ‘narcosynthesis’ al di fuori del tempismo. perché sì, le composizioni sono ottime ma a questo punto (è il 2005) questa roba l’abbiamo già sentita e risentita, anche da una quantità spropositata di gruppetti minori che ci hanno sfrantecato i maroni con queste sonorità per cui non si può certo dire che questo sia un disco sulla cresta dell’onda ma tant’è, ribadisco, quando funziona spacca culi come pochi.

non è tutto oro, assolutamente: almeno 4 pezzi si potevano lasciare fuori per snellire il tutto: dubito che qualcuno si sarebbe lamentato dell’assenza di robetta un tanto al chilo come ‘psalm of lydia’, ‘medicated nation’ o lo stesso singolo ‘the final product’, roba che loomis probabilmente scrive in mezzo pomeriggio e viene arrangiata in ancora meno tempo. meglio allora 'sentient 6', ballad che vorrebbe essere il sequel di 'the learning', annoia con la sua banalità nella prima parte ma ha un finale da brividi.


è un disco paraculo, non c’è dubbio, e gioca coi cliché del gruppo mischiandoli e ricomponendoli in ordine diverso, c’è tutto quello che ci si aspetta, i contorti riff ribassati di loomis, il dramma psicotico di dane, il circo ritmico di williams, la produzione cristallina e potentissima di sneap, tutto è al suo posto, tutto studiato per farvi sentire a casa, senza quegli scossoni emozionali di ‘neon black’, senza il mindfuck di ‘politics’ ma con una manciata di canzoni davvero incredibili, le ultime che il gruppo pubblicherà prima di una fine davvero immeritata.

domenica 24 agosto 2025

nevermore, 'enemies of reality'

 



prima o poi, si sa, anche i migliori sbagliano qualcosa. dopo tre dischi praticamente perfetti, i nevermore escono con ‘enemies of reality’ che viene all’istante attaccato un po’ da tutti. perché? perché alla sua uscita con il mix e mastering originali il disco suona semplicemente da schifo: impastato, caotico, compresso oltre ogni limite(r), la batteria un pastrocchio senza botta, le chitarre loffie, la voce lontana, suonava veramente molto male. 

il gruppo fu costretto (causa pressioni dalla century media su tempi di produzione) a cambiare produttore e affidarsi alle cure di kelly gray, uno a cui dovrebbe essere vietato per legge di avvicinarsi a un banco mix ovunque nel mondo. già si sapeva, aveva già massacrato due dischi (mediocri ad essere buoni) dei queensryche (‘q2k’ e ‘tribe’) più altra roba che non sto ad elencare, chitarrista mediocre, “fonico” inaccettabile.

a questo schifo ha cercato di rimediare due anni dopo andy sneap, remixando e rimasterizzando l’intero disco che viene nuovamente pubblicato. ovviamente queste operazioni lasciano segni e comunque l’album non suona davvero bene come ‘dead heart’, è asettico e asciutto, la batteria soffre di qualche problema dalle tracce originali, è molto meglio dell’originale ma non eccezionale.


purtroppo però i problemi non erano limitati all’aspetto sonoro del disco poiché i nevermore cercano di tornare a una violenza sonica a tutto tondo, spingendo a più non posso con riff thrash veloci e secchi ma non riuscendo a scrivere canzoni che reggano il paragone con l’illustre passato. è comunque un disco tranquillamente sopra la sufficienza, solo che loro ci avevano abituato troppo bene e così alla fine di veramente memorabile in questo disco ci sono due pezzi, il primo e l’ultimo. l’apertura con ‘enemies of reality’ è una vera fucilata in faccia, loomis macina riff pazzeschi e dane torna a un’aggressione isterica che in ‘dead heart’ quasi non c’era, aprendo con uno dei suoi fantastici ritornelli un pezzo che non si dimentica. ‘seed awakening’ invece, posta in chiusura, è probabilmente il pezzo più violento mai pubblicato dal gruppo, una scheggia di thrash metal lanciata a una velocità folle; manca se vogliamo la classe compositiva dei dischi precedenti ma il pezzo è veramente un piccolo miracolo di follia omicida in musica e la mano di loomis lo porta in altissimo.

in mezzo si va da pezzi molto buoni come ‘ambivalent’ o ‘i, voyager’ a pezzi alla meglio innocui come ‘never purify’, ‘who decides’ o la banalissima ‘tomorrow turned into yesterday’, maldestro tentativo di ripetere la formula di ‘believe in nothing’. più interessante allora l’esperimento atmosferico (quasi industriale) di ‘noumenon’, rimasta un caso a se nella discografia del gruppo.


considerando la versione remixata, ‘enemies of reality’ non è un brutto disco, non è nemmeno un vero passo falso perché non c’è niente di sbagliato nelle canzoni, semplicemente non sono al livello stellare dei tre dischi prima. il tour che segue non aiuta, visto che dane è evidentemente affaticato e perso nell’alcol, rendendo le serate molto altalenanti (quella all’alcatraz di milano ad esempio fu tragicomica) e così i nevermore vedono la loro ascesa venire messa in pausa in attesa di tempi migliori.

domenica 17 agosto 2025

nevermore, 'dead heart in a dead world'



quando ‘dead heart in a dead world’ è esploso era impossibile evitarlo. la comunità metal è impazzita in maniera concorde come solo in alcune occasioni speciali e il disco è diventato un instant classic nel giro di un annetto, complice anche la rotazione continua del video di ‘believe in nothing’ sui canali specializzati, mtv inclusa.


partiamo da un dettaglio tecnico: da questo disco jeff loomis inizia a suonare una chitarra a 7 corde, permettendogli di scurire e appesantire ulteriormente il suo suono senza sbilanciare la musica. contribuisce anche il magistrale lavoro di andy sneap dietro al banco, senza di lui non so se si sarebbe ottenuto lo stesso risultato, di fatto insieme alla band ha praticamente forgiato il suono del metal del 2000: se volete sentire uno dei mix e mastering migliori che il metal abbia mai avuto, mettete su questo disco.

questo inscurimento dei suoni va a legarsi perfettamente con le interpretazioni maiuscole di dane e con i suoi testi neri e senza speranza, creando un insieme che irrompe sul mercato e rapisce il pubblico, grazie anche all’interpretazione grafica di travis smith, un vero eroe di quegli anni che con la copertina realizza una delle sue opere migliori in assoluto. un pacchetto completo, compiuto e destinato a diventare il non plus ultra per la maggioranza dei fan del gruppo.


tante cose “di contorno”, ma poi i pezzi? 

semplice, uno migliore dell’altro. dalla deflagrazione di ‘narcosynthesis’ (una strofa sincopata devastante) fino al tripudio con il chirugico massacro della title track posta in chiusura è tutto un susseguirsi di riff clamorosi, ritornelli memorabili e un’oscurità minacciosa e plumbea. ‘we disintegrate’ ha una vena vagamente psichedelica che contrasta a meraviglia con la pesantezza delle chitarre, ‘inside four walls’ è il pezzo che chiunque faccia metal vorrebbe scrivere, dal riff spezzacollo alle sincopi della strofa che arrivano dritte sulle ginocchia, per non parlare del ritornello che farà cantare tutto il pubblico ai concerti, una canzone perfetta. come se ‘evolution 169’ non lo fosse, power ballad asfissiante e obliqua, anche meglio di due illustri “rivali” come ‘the heart collector’ e ‘believe in nothing’, la seconda diventata all’istante la ‘nothing else matters’ del 2000 (con dovute proporzioni).

forse l'apoteosi si tocca con la title-track in chiusura, aperta da un desolato duetto tra dane e sheppard prima di esplodere in una sequenza di riff impensabili che si susseguono a una velocità impressionante, prima di aprirsi in un ritornello in 6/8 che spazza via l'ascoltatore. c'è un uso di ritmiche sincopate tipicamente thrash ma sono tutte compresse, piene di accenti strani e spinte a velocità che richiedono una padronanza strumentale ben sopra alla media dei gruppi metal, almeno dell'epoca.  

se vogliamo proprio fare le pulci possiamo dire che ‘insignificant’ è un pezzo che interpreta fin troppo bene il suo stesso titolo e scompare nel nulla; del resto come cazzo si può fargliene una colpa quando la concorrenza è a un livello disumano?

c’è poi il caso ‘the sound of silence’, una “cover” per la quale le virgolette sono obbligatorie: di fatto del pezzo originale resta solamente il testo, cantato sopra a un pezzo assolutamente in linea col resto se disco, se non addirittura un pochino più aggressivo e thrashy. chiamarla cover fa un po’ ridere visto che anche le melodie sono completamente composte da zero, è un pezzo incredibile dei nevermore con il testo di simon e garfunkel.


colpisce l’intelligenza con cui il gruppo (produttore incluso) gestisce i cambi, le dinamiche interne e le soluzioni senza mai annoiare (ma anche senza mai davvero osare si potrebbe dire), facendo passare l’ora a disposizione in un attimo. 

colpiranno poi durissimo anche dal vivo, facendo fuoco e fiamme anche sui palchi europei (indimenticabile la loro prestazione al gods of metal 2001) e consolidando la loro fama di squadra perfetta.

insomma, nel 2000 i nevermore erano all’apice della forma e del successo, avevano pubblicato tre capolavori uno in fila all’altro e il futuro pareva una gran figata. non è andata proprio così ma questo non toglie nulla a ‘dead heart in a dead world’, forse il primo grande capolavoro del metal del 2000.

domenica 10 agosto 2025

nevermore, 'dreaming neon black'

 



come dare un seguito a un album che è stato acclamato come un capolavoro del metal più aspro, freddo e tagliente? i nevermore nel ’99 pensano che la soluzione stia in un disco profondamente emozionale e drammatico, un concept album in cui suicidio e disagio sociale sono le tematiche principali, intenso fin dalla copertina e da un titolo che oscura minacciosamente anche i sogni: ‘dreaming neon black’.


se in ‘politics’ chitarre e ritmica dettavano legge e la voce doveva interagire con strutture complesse, qui le parti si invertono: questo è soprattutto un disco di warrel dane, dominato dalla sua voce e dalla sua personalità cupa. del resto il concept è una sua idea, basato su una sua esperienza personale: una sua ex compagna scappata con un culto religioso gli appare in sogno mentre annega, la polizia troverà poi il cadavere vittima di un serial killer.

temi pesanti e intensi che danno il tono a tutta la musica, la quale perde le vertiginose evoluzioni strutturali del precedente album per basarsi su una forma canzone più canonica (proprio come i 'ryche di 'mindcrime') ma virando il suono verso una pesantezza inaudita, particolarmente nel tono delle chitarre, un piccolo miracolo di perfezione sonica (compensato purtroppo da un suono di batteria piuttosto brutto).

non ci sono pezzi da 9 minuti, il più lungo (‘deconstruction’) non tocca neanche i 7 ma i nevermore imparano a condensare l’intensità in queste durate inferiori e il risultato ha del clamoroso: non ci sono riempitivi, non ci sono momenti di stanca, ogni riff è un piccolo manuale metal che prende dal thrash, dal classico e ogni tanto dal death, evolvendo l’unicità del suono nevermore e preparandolo per il nuovo millennio.

resta l’influenza dei queensryche, una costante nel suono del gruppo che paga un evidente tributo nel clamoroso inizio di ‘i am the dog’ (quasi un plagio di ‘speak’ da ‘operation: mindcrime’).


più che mai è necessario un ascolto totale del disco, le singole tracce non possono rendere giustizia. si può dire che ‘beyond within’ e ‘poison godmachine’ (uno degli apici) rileggono ‘politics’ in una nuova veste, che ‘the death of passion’ ha alcuni dei palm mute più mostruosi che si siano mai sentiti o che ‘deconstruction’ (forse il capolavoro nel capolavoro) sia un pezzo come se ne sente uno ogni vent’anni; si potrebbe parlare dell’intensità quasi insostenibile nell’interpretazione di dane in ‘dreaming neon black’ o ‘forever’ o di come van williams là dietro infili continuamente piccole finezze con uno stile che si fa sempre più maturo o di come anche il basso di sheppard abbia molto più spazio nel mix per brillare (sentire ‘the lotus eaters’).

sì certo, non dimentichiamo che pat o’brien se n’è andato nei cannibal corpse ed è stato sostituito da tim calvert, non è dato sapere quanto abbia contribuito al disco ma sospetto pressoché zero.

è più importante notare come le dinamiche si facciano più varie, spesso le chitarre pulite sono nascoste sotto al muro di distorsione ma ogni tanto prendono il comando, dando al disco un tocco di oscura psichedelia eterea prima di gettarsi di nuovo nell’abisso della saturazione delle medio-basse (tipico del death metal più che del thrash). 

inoltre è bene ricordare che 2 pezzi restano fuori dal disco e verranno alla luce solo nel 2010 nella ristampa in vinile di ‘dead heart’: ‘all the cowards hide’ è paranoica, asfissiante e riprende certi rallentamenti di ‘politics’ ma li rende più teatrali e drammatici mentre l’acustica ‘chances three’ mostra una dinamica ancora più leggera ma va detto che sarebbe risultata decisamente fuori contesto nel disco.


il secondo disco perfetto dei nevermore porta alla luce davvero il carisma e l’estetica di warrel dane che si impone sulla scena come cantante dal carattere assolutamente unico, da qui il gruppo dovrà trovare un nuovo equilibrio per poter continuare. quell’equilibrio si chiamerà ‘dead heart in a dead world’ e sarà l’ultimo capitolo di una trilogia che ha ben pochi eguali nella storia del metal.

domenica 3 agosto 2025

nevermore, 'the politics of ecstasy'

 



dire che tra l’esordio ‘nevermore’ e ‘the politics of ecstasy’ c’è un abisso è un eufemismo di quelli colossali. uscito appena un anno dopo, il secondo album dei nevermore spazza via tutto e tutti con una maturità e un controllo dei propri mezzi musicali impressionanti.

da qui il progressive entra prepotentemente nei pezzi del gruppo e inizia una trilogia di album perfetti, ognuno a modo suo. in ‘politics’ è la cerebralità ad avere la meglio, spesso viene da pensare ad una versione aggiornata di ‘…and justice for all’, iniettata con quella instabilità umorale e tensione psicologica di marca queensryche (e fates warning, perché no) ma non mancano le influenze groove metal e la follia ritmica dei meshuggah (dichiarata l’ammirazione del gruppo per ‘destroy erase improve’).

il mix è finalmente bilanciato e la produzione rende giustizia alle prestazioni stellari di ogni singolo musicista, primi fra tutti dane e loomis, veri e propri dominatori della scena. la voce di dane trova una maturità espressiva e timbrica che sacrifica un pochino di istinto (pochissimi i falsetto urlati) per mostrare un controllo fuori dal normale mentre loomis esplode come compositore di riff uno migliore dell’altro con idee ritmiche sghembe, assolo da incubi di notte che non dimenticano mai la melodia e un suono che si fa sempre più pesante.


tutto sta in mezzo ai due capitoli migliori che possono riassumere l’intero album, l’incipit con ‘the seven tongues of god’ e il gran finale con ‘the learning’. la prima è un macigno in cui chitarre e batteria si contorcono spostando accenti su tempi anche dispari, dando un groove micidiale a un suono che è puro thrash metal; su questo ingranaggio gelido e metallico la voce di dane graffia e si dispera, aprendosi in un ritornello melodico quanto inaspettato e lasciando la scena per un fantastico solo di loomis. è il primo vero capolavoro dei nevermore e non lascerà mai le scalette dei concerti.

‘the learning’ riparte dai queensryche sia musicalmente che tematicamente: nel primo senso è clamorosa tutta la prima parte in cui anche l’interpretazione straripante di dane è chiaramente figlia di geoff tate, tematicamente invece troviamo una ripresa del tema fantascientifico della coscienza meccanica, trattato da degarmo e soci già nell’86 con ‘screaming in digital’. quando poi però il pezzo esplode si torna a riff contorti, stretti, precisissimi, retti da una sezione ritmica pesante quanto fantasiosa, una macchina perfetta su cui si staglia la voce di dane, drammatica, sofferta, aggressivamente umorale, un cantante più unico che raro in grado di gestire le sporcature in maniera magistrale senza mai perdere controllo o trasporto. la sezione degli assoli è un labirinto pieno di trappole, obbligati, accenti e cambi netti che porta dritta a una ripresa dell’introduzione pulita prima di un ultimo finale chiuso da un lancinante e memorabile acuto di dane e da un loop meccanico in dissolvenza.

in mezzo non c’è niente di brutto o fuori posto; da menzionare almeno la soffocante ‘passenger’, apice emozionale, e ‘the politics of ecstasy’, aspro e duro apice cerebrale, così come la stupenda ’42147’, un quasi-strumentale in cui la struttura è la vera protagonista con un van williams pazzesco.


qui iniziano veramente i nevermore, con un disco che è pietra miliare del metal anni ’90 (e tutto), capace di assimilare e rielaborare in maniera creativa tutta la storia del genere e mostrando finalmente il carattere unico dei nevermore come band ancora più che come elementi solisti. il gruppo non tornerà mai indietro e questo possiamo considerarlo come il loro disco più freddo e contorto (ovviamente nel senso positivo di entrambi i termini), un capitolo unico non solo per il metal ma anche per i nevermore stessi.

domenica 27 luglio 2025

nevermore, 'nevermore'/'in memory'

 


è il 1995 quando fa la sua comparsa sul mercato discografico un gruppo di seattle destinato a segnare indelebilmente il corso dell’heavy metal, i nevermore.

quando la epic chiede ai sanctuary di adattare il proprio stile al successo del grunge, il cantante warrel dane e il bassista jim sheppard non sono granché felici e abbandonano il gruppo, segnandone di fatto la fine per vent’anni. i due transfughi creano un nuovo progetto per continuare a suonare insieme e arruolano il giovane virtuoso jeff loomis alla chitarra e il batterista mark arrington, il quale presto abbandona e viene sostituito dall’incredibile van williams, non prima di aver registrato metà delle batterie per l’album di esordio, ‘nevermore’.


lungi dall’essere all’altezza dei suoi successori, ‘nevermore’ impone comunque la personalità dei musicisti e mostra la loro capacità di suonare metal, di base thrash, con un carattere unico e nuovo, moderno, aggressivo ma stranamente melodico e approcciabile anche per chi non è abituato a questa pesantezza.

il difetto principale del disco sta nella registrazione e produzione relativamente a basso costo, fatto che penalizza principalmente le chitarre di loomis che troppo spesso suonano loffie e senza il carattere unico a cui ci abitueremo coi dischi successivi; anche la batteria risente del mix mediocre, la differenza di suono tra i due batteristi è enorme e purtroppo quello a cui va peggio è proprio williams: il mix delle sue parti è caotico e mina la resa della sua già ottima prestazione.

come contenuto ci troviamo di fronte il disco più classicamente thrash dei nevermore, per quanto sia un thrash già re-immaginato e interpretato da un’ugola assolutamente unica come quella di dane, un cantante che qualunque altro gruppo thrash al mondo può solo sognarsi.


‘what tomorrow knows’ non è affatto un brutto pezzo di apertura ma se le vogliamo confrontare con ‘the seven tongues of god’, ‘narcosynthesis’ o ‘born’ si manifesta una certa ingenuità soprattutto strutturale, con cambi non molto fluidi e un riff ripetuto allo stremo. ma la differenza è palese anche rispetto alla seguente ‘c.b.f.’ in cui le parti di chitarra di loomis si impongono e compare la batteria di van williams a rimarcare il salto di qualità, un pezzo che punta già a ‘dreaming neon black’ (così come ‘the hurting words’ che però gira a vuoto per 6 minuti) e mostra una struttura molto meglio pensata.

tutto è marchiato dalla voce unica di dane che ancora usa molto il suo terrificante falsetto sporco e demoniaco (una sorta di king diamond delle fogne) alternato al tono drammatico che è già perfettamente controllato in un pezzo come ‘the sanity assassin’, dominato dal cantante, sebbene il brano sia un pochino troppo lungo.

non c’è niente di davvero brutto in questo disco ma nemmeno niente di memorabile e la conclusiva ‘godmoney’ ne è il perfetto emblema, riff buoni ma non eccezionali, ritmica relativamente semplice e dane scatenato senza però avere un palco fatto su misura per lui, come succederà già dal disco successivo.


si aggiunge il secondo chitarrista pat o’brien (poi nei cannibal corpse, poi arrestato per assalto e trovato con lanciafiamme e un centinaio di fucili in casa) e almeno come suoni va meglio già dall’ep ‘in memory’ del ’96, mixato in maniera decisamente più coesa e con un tono scuro e opprimente che valorizza molto di più il suono del gruppo. anche come composizioni si vola molto più in alto, a partire dalla buona botta di ’optimist or pessimist’. ‘matricide’ mostra ancora una volta quella drammatica dinamicità che regnerà su ‘neon black’ ma non riesce del tutto a metterla a fuoco, sembrando alla fine quasi una reinterpretazione della leggendaria ‘the lady wore black’ dei queensryche, influenza palese anche nella seguente ‘in memory’ che però pian piano mostra i denti, restando sempre un mid-tempo si appesantisce e sfocia in un bel solo di chitarra, il miglior pezzo scritto fin qui dai nevermore.

interessante la cover di ‘silent hedges/double dare’ dei bauhaus che mette in mostra la capacità del gruppo di riportare tutto al proprio suono, come succederà poi nella strepitosa “cover” (virgolette dovute) di ‘the sound of silence’.

chiude l’ep ’the sorrowed man’, riportando ancora davanti i queensryche più teatrali e promettendo una svolta più emotiva nella musica dei nevermore che però si farà aspettare ancora un po’: mancano ancora tre anni a ‘dreaming neon black’ mentre ‘the politics of ecstasy’ sarà molto più cerebrale e complesso.


quello che è molto interessante notare in queste prime due uscite è come molte delle idee che porteranno il gruppo al successo sono già presenti, dalla dinamicità ritmica ai siparietti teatrali, la continua tensione cervello/cuore, la ricerca strutturale e la continua rielaborazione personale delle influenze (metallica e queensryche su tutti). 


domenica 20 luglio 2025

queensryche, 'hear in the now frontier'

 


a volte ad alcuni dischi succedono delle cose veramente ingiuste. visto che abbiamo tirato in ballo più volte i metallica, facciamolo ancora una volta e pensiamo a ‘load’/‘reload’, due dischi più che buoni che contengono alcuni dei pezzi più belli scritti dal gruppo (‘fixxxer’, ‘until it sleeps’, ‘the house that jack built’ ma anche altre) eppure sono continuamente presi di mira e usati come esempio del crollo della band, senza il minimo rispetto per l’ottimo lavoro compiuto.

‘hear in the now frontier’, 1997, rientra pienamente in questa categoria. negli anni è stato insultato, ridicolizzato e persino rinnegato da alcuni fan che, incapaci di andare oltre al loro personale gusto, non sono stati in grado di vedere ciò che c’è di buono o di ottimo in quello che poi ok, a conti fatti è innegabilmente il disco meno riuscito dei queensryche con chris degarmo, oltre ad essere l’ultimo.


di fatto ‘frontier’ è un ‘empire’ aggiornato ai tempi, solo meno ispirato. degarmo non ha mai nascosto il suo gradire il nuovo suono di seattle, in particolare nella forma suonata dagli alice in chains, diventa amico di jerry cantrell e i due collaboreranno spesso in futuro. ecco quindi un disco fatto di riff di chitarra che prendono proprio da quel suono, lontanissimi dalle armonie e dagli assolo incrociati di ‘mindcrime’ e a due universi di distanza dall’oscurità e dall’ecletticità di ‘promised land’. 

tate cerca un timbro crudo, a volte sgraziato e incrinato da un overdrive che diventerà fisso nei dischi successivi; quando gli riesce ci sono buoni risultati, altrove è semplicemente fuori luogo per la sua voce.

si potrebbe dire che per ogni buon pezzo ce ne sono un paio inutili, rincarando la dose dicendo che alla fine di veramente imperdibile ce n’è uno solo, quella ‘spool’ che spicca come un particolare a colori in una foto in bianco e nero. è anche vero però che molti dei pezzi inutili sono comunque gradevoli e possono contenere qualche sprazzo di illuminazione, per cui alla fine, a seconda delle inclinazioni personali, la media cavalca la linea della sufficienza.


‘cuckoo’s nest’, ‘the voice inside’, ‘saved’, ‘miles away’, ‘hit the black’, tutta roba che si fa ascoltare, pezzi rock che non hanno nulla di metal, qualche buon ritornello e dei riff decenti ma i tocchi di classe della sezione ritmica scompaiono e tate fa finta di essere un cantante qualsiasi.

‘get a life’, ‘hero’ e ‘anytime/anywhere’ invece sono proprio pezzi brutti di cui non si riesce davvero a salvare niente, soprattutto se si pensa al glorioso passato del gruppo.

altri risultati ottengono invece ‘sign of the times’, ‘some people fly’ o ‘you’, pezzi che hanno una verve anche compositiva un pochino più accentuata e in cui la voce di tate fa davvero la differenza, pur restando orfani dei giochi ritmici.

si diceva che l’unico momento in cui il gruppo mostra davvero la sua classe è la conclusiva ‘spool’. non pensiate che torni il metal solo per un pezzo, rimane un pezzo rock ma il suo sviluppo è inquieto, le chitarre decisamente più incisive e la voce di tate di nuovo a livelli stellari, oltre ad essere l’unico pezzo in cui rockenfield e jackson fanno la differenza. assolutamente degna di stare in un best of del gruppo, purtroppo è anche l’unica del disco.


si diceva che il tour di ‘promised land’ è stato un mezzo flop e che la emi minacciava di scaricare il gruppo, no? ecco, il tour di ‘frontier’ non verrà nemmeno portato a termine, dopo un mese tate si ammala e il gruppo deve annullare molte date, poi la emi america va in bancarotta e i queensryche si ritrovano senza etichetta, costretti a pagarsi i concerti già prenotati per portare a termine gli obblighi. durante questo casino, degarmo annuncia al gruppo che non ce la fa più e lascia, l’annuncio viene dato all’inizio del ’98 e da allora il chitarrista è scomparso dalla scena musicale e pilota gli aerei. 

di fatto questa ferita non si rimarginerà mai, ‘hear in the now frontier’ è la fine di un’era e da qui in poi il timone verrà preso saldamente in mano da tate che condurrà il gruppo alla distruzione tra qualche disastro e pure qualche buon risultato ma sempre meno con la collaborazione degli altri, fino all’esasperazione di ‘mindcrime 2’, di fatto un suo disco solista.

questa storia poteva chiudersi meglio, siamo tutti d’accordo. dopo tanti anni però trovo giusto dare una nuova possibilità a ‘frontier’ perché non si meritava tutta la merda che gli è stata tirata in testa.

domenica 13 luglio 2025

queensryche, 'promised land'

 


dopo il successo planetario di ‘empire’, la emi sta addosso ai queensryche chiedendo a gran voce un altro disco sulla stessa scia, fatto di melodie solari e ritornelli da stadio, del resto un sacco di fan in giro per il mondo hanno conosciuto il gruppo proprio con quel disco e non vedono l’ora di avere nuove canzoni da sparare in macchina.

gli è andata male.

se ‘operation: mindcrime’ è l’apice della teatralità dei queensryche, ‘promised land’ è la vetta del loro versante più cerebrale, oscuro e progressive. il paragone tra i due dischi finisce qui perché tra essi c’è un oceano, a livello di suono. c’è una sincera emozionalità mercuriale nei nuovi pezzi che tende ad aumentare i contrasti tra luci e ombre, rendendo gli spigoli più pericolosi e le poche luci più morbide. pochissime potremmo dire, visto che parliamo del disco più scuro, paranoico e intenso di tutta la carriera.


la stragrande maggioranza del materiale è firmato degarmo ma di fatto ‘promised land’, uscito nel 1994, è forse il disco più di gruppo che i queensryche abbiano pubblicato, con vari contributi di rockenfield e un faro perennemente acceso sulla sezione ritmica. è un disco eclettico, in cui si va dal metal alle ballate pianistiche, passando per groove ossessivi, melodie alienanti e tocchi di un’inedita psichedelia che purtroppo tornerà molto raramente. del resto è un disco che parla di perdita di identità psicologica, fisica e di alienazione, pensare ai pink floyd non è così fuori luogo.

dopo l’intro effettistica ‘9:28 am’, a firma rockenfield, ‘i am i’ esplode come nessuno si sarebbe aspettato. un 6/8 con un riff metal maligno e ribassato, modernissimo rispetto alla nostalgia 80s di ‘empire’, sostenuto da un tappeto incessante di batteria e percussioni e intrecciato con un sitar (suonato da degarmo). quando tate entra ci si chiede se sia lo stesso gruppo, il suo tono è aggressivo, acido, cinico e sapientemente trasfigurato da effetti digitali. la teatrale apertura con melodia mediorientale del ritornello è spiazzante quanto affascinante e il magico assolo che la segue porta definitivamente il pezzo tra i migliori mai scritti dai queensryche.

‘damaged’ è un hard rock più classico ma la tensione emotiva non cede mai, sostenuta soprattutto dalla drammatica prova di tate. se le composizioni sono di degarmo, è anche da dire che non avrebbero funzionato allo stesso modo senza un geoff tate al massimo della sua forma vocale che con questo disco alza ulteriormente l’asticella dei suoi standard, tanto che purtroppo non riuscirà mai più a raggiungerla di nuovo.

con ‘out of mind’ si calmano le dinamiche ma non la tensione: la batteria con pochi colpi crea un’attesa continua, ciclica, su cui il basso fluttua con linee bellissime mentre i classici arpeggi di chitarra sono trasfigurati in armonie aliene e ansiose. tate mostra un controllo impressionante mentre racconta di isolamento e follia ma il vero apice del brano è il commovente assolo di degarmo, uno dei suoi migliori in assoluto. ed è ancora lui il protagonista di ‘bridge’, ballata acustica dal ritornello più solare in cui si affronta il tema di un difficile rapporto tra padre e figlio, uno dei tre singoli tratti dal disco (gli altri erano ‘i am i’ e ‘disconnected’).


‘promised land’ è la prima canzone della carriera ad essere accreditata all’intero gruppo e questo si sente. su una struttura dai bordi sfocati e continuamente “disturbata” dai campionamenti di rockenfield, il gruppo allestisce uno psicodramma musicale in cui i vuoti contano più delle note suonate. tate suona per la prima volta il sax su disco e l’effetto è straniante, il basso è una pulsazione isterica e i pochi riff suonati ossessivamente dalle chitarre sono lenti, paludosi e paranoici, tutto quello che il pubblico di ‘empire’ non avrebbe voluto. il testo parla dell’alienazione da successo (sì, potete pensare a ‘the wall’) e tate lo interpreta con un trasporto che toglie il fiato, passando da sussurri ad acuti sguaiati.

‘disconnected’ concede un attimo di respiro ma lo fa in modo inaspettato, con basso e batteria in primo piano e un pesantissimo quanto groovy riff di chitarra mentre geoff si produce in uno spoken word inedito.

l’ansia torna a livelli altissimi con la straziante ‘lady jane’, con degarmo al piano e il gruppo ad accompagnare tate in una ballata drammatica che porta a ‘my global mind’, una delle poche luci in mezzo all’oscurità; è l’unico pezzo in cui ci sono tracce di ‘empire’ con una bella strofa e un ritornello luminoso, nonostante il testo tratti di perdita di se stessi di fronte ai cambiamenti portati dalla globalizzazione.

siamo quasi alla fine ma i queensryche non mollano la presa: ‘one more time’ è un pezzo soffocante, dalle ritmiche spigolose e marcato ancora una volta dagli strani riff di degarmo, bellissimo ma il gran finale è affidato a ‘someone else?’ e non potrebbe essere altrimenti. il solo degarmo al piano accompagna tate in un’interpretazione che sta là in cima assieme a ‘anybody listening?’ tra le più grandi prove vocali rock di sempre, il testo riassume efficacemente lo smarrimento di tutto il disco e l’intensità cresce a dismisura per poi crollare all’improvviso e lasciare il vuoto di una domanda senza risposta.


‘promised land’ è un disco unico e uno dei capolavori che i queensryche hanno pubblicato insieme ad altri grandissimi dischi, la definizione finale di quella tensione psicologica che da ‘rage for order’ è sempre stata presente e qui trova forma compiuta. oggi si può tristemente dire però che è anche l’ultimo grande disco del gruppo, ne seguirà ancora uno con degarmo, poi la rottura, l’era tate e nulla sarà mai più come prima.

carico dalle aspettative post-‘empire’, ’promised land’ schizza al terzo posto su billboard ma crolla in pochi giorni, raggiungendo “solo” un disco di platino e di fatto deludendo un sacco di persone per cui il nuovo suono del gruppo risulta troppo spigoloso, cerebrale e indecifrabile. il tour è un mezzo flop nonostante il gruppo sia in gran forma e finisce che la emi minaccia di scaricarli, le cose si mettono male ed è solo l’inizio.

per fortuna possiamo fare finta di niente e tornare ad ascoltare ‘promised land’, ancora e ancora e ancora.

domenica 6 luglio 2025

queensryche, 'empire'

 


il paragone tra queensryche e metallica si può estendere ai primi anni ’90 quando entrambi i gruppi, dopo aver portato il proprio suono al suo estremo, scelgono la strada della melodia e della semplificazione, almeno strutturale.

se però la battaglia precedente era stata stravinta dai queensryche, ora ‘empire’ appare sfocato e un po’ confusionario se paragonato al ‘black album’.


quello che tate e soci fanno è eliminare ogni sovrastruttura dalla musica, basta concept o temi ricorrenti e giù di canzoni. il suono viene ulteriormente levigato e i riferimenti all’aor in generale e ai journey in particolare si fanno abbastanza espliciti, con un uso ancora più invasivo dei synth e una continua ricerca del ritornello ad effetto.

nei casi migliori queste canzoni sono dei piccoli capolavori che ribadiscono la classe dei queensryche, purtroppo però ‘empire’, come tanti suoi contemporanei, soffre di una prolissità eccessiva che tarpa le ali al disco intero. ‘resistance’, ‘hand on heart’ o ‘one and only’ sono pezzi che si dimenticano all’istante, assolutamente superflui e addirittura superati da alcune outtake dell’epoca niente male (‘last time in paris’, ‘dirty li’l secret’). vanno un po’ meglio ‘best i can’ e ‘the thin line’ poste in apertura ma se si pensa all’impatto delle aperture precedenti, anche questi due pezzi scompaiono un po’. pesa inoltre (questo anche sui pezzi belli) una certa fatica a staccarsi da suoni e arrangiamenti ancora fortemente legati al decennio precedente.


dicevo però che quando questa formula funziona, ne escono pezzi incredibili. ‘jet city woman’ e ‘another rainy night’ sono due pezzi aor perfetti, marcati a fuoco dal suono queensryche: i riff di degarmo sono inconfondibili, la sezione ritmica, più presente che mai in tutto il disco, è sempre capace di finezze esaltanti senza mai perdere il groove mentre la voce di tate è negli anni dell’apice assoluto, il timbro è maturato, la tecnica impeccabile e le doti di interprete cresciute a dismisura.

tutto questo è valido anche per i due momenti più alti del disco, ‘silent lucidity’ e ‘anybody listening?’. la prima è una ballata floydiana ariosa e morbida, condotta dagli arpeggi di degarmo, con una melodia attentamente costruita per dare modo a tate di sfruttare la sua estensione dal profondo baritono della strofa agli acuti del ritornello, il tutto coccolato dal morbido arrangiamento di archi di michael kamen. un pezzo emozionante e immortale che ha fruttato non pochi soldi al gruppo. ‘anybody listening?’ è, almeno per il sottoscritto, forse il pezzo più bello mai scritto dai queensryche. la struttura ricorda altri brani, strofa pulita, bridge in crescendo e ritornello che esplode, il fatto è che qui ogni parte è più ispirata che mai e curata a un tale livello che si resta a bocca aperta. la tensione che crea il bridge è indescrivibile, l’assolo è perfetto e tate regala forse la sua miglior prova di sempre.

resta ancora la stupenda ‘della brown’, con basso e batteria a prendere il sopravvento sulle chitarre nel fare da tappeto al bel racconto di geoff di una bellezza dei tempi andati. e non vogliamo parlare dei controtempi da capogiro di ‘empire’? il pezzo è uno dei pochi momenti prog del disco, con un intreccio ritmico che destabilizza continuamente, un riff pazzesco di chitarra e ancora tate mattatore.


purtroppo 63 minuti per arrivare a ‘anybody listening?’ sono veramente tanti e in mezzo c’è troppa roba inutile, se ne fosse durati 45 probabilmente staremmo parlando di un altro disco perfetto ma tant’è, di fatto ‘empire’ nel complesso è il disco più debole pubblicato fin qui dai queensryche ma è anche vero che la concorrenza è sleale. porta comunque il gruppo al successo mondiale (settimo posto su billboard, triplo disco di platino) e a un tour epocale in cui viene suonato finalmente tutto ‘operation: mindcrime’, come testimoniato sull’incredibile ‘operation: livecrime’. sarebbe stato bello avere anche il resto del concerto ma ad oggi non è stato pubblicato niente e, visti i rapporti odierni tra le parti, è molto molto molto difficile che succeda a breve. molto. comunque la soundboard della data all’hammersmith di londra è facilmente reperibile e suona discretamente bene.

tanti nuovi fan e tante nuove aspettative per un nuovo disco di ritornelloni e pezzi rock da arena. 

poveri illusi.