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domenica 20 luglio 2025

queensryche, 'hear in the now frontier'

 


a volte ad alcuni dischi succedono delle cose veramente ingiuste. visto che abbiamo tirato in ballo più volte i metallica, facciamolo ancora una volta e pensiamo a ‘load’/‘reload’, due dischi più che buoni che contengono alcuni dei pezzi più belli scritti dal gruppo (‘fixxxer’, ‘until it sleeps’, ‘the house that jack built’ ma anche altre) eppure sono continuamente presi di mira e usati come esempio del crollo della band, senza il minimo rispetto per l’ottimo lavoro compiuto.

‘hear in the now frontier’, 1997, rientra pienamente in questa categoria. negli anni è stato insultato, ridicolizzato e persino rinnegato da alcuni fan che, incapaci di andare oltre al loro personale gusto, non sono stati in grado di vedere ciò che c’è di buono o di ottimo in quello che poi ok, a conti fatti è innegabilmente il disco meno riuscito dei queensryche con chris degarmo, oltre ad essere l’ultimo.


di fatto ‘frontier’ è un ‘empire’ aggiornato ai tempi, solo meno ispirato. degarmo non ha mai nascosto il suo gradire il nuovo suono di seattle, in particolare nella forma suonata dagli alice in chains, diventa amico di jerry cantrell e i due collaboreranno spesso in futuro. ecco quindi un disco fatto di riff di chitarra che prendono proprio da quel suono, lontanissimi dalle armonie e dagli assolo incrociati di ‘mindcrime’ e a due universi di distanza dall’oscurità e dall’ecletticità di ‘promised land’. 

tate cerca un timbro crudo, a volte sgraziato e incrinato da un overdrive che diventerà fisso nei dischi successivi; quando gli riesce ci sono buoni risultati, altrove è semplicemente fuori luogo per la sua voce.

si potrebbe dire che per ogni buon pezzo ce ne sono un paio inutili, rincarando la dose dicendo che alla fine di veramente imperdibile ce n’è uno solo, quella ‘spool’ che spicca come un particolare a colori in una foto in bianco e nero. è anche vero però che molti dei pezzi inutili sono comunque gradevoli e possono contenere qualche sprazzo di illuminazione, per cui alla fine, a seconda delle inclinazioni personali, la media cavalca la linea della sufficienza.


‘cuckoo’s nest’, ‘the voice inside’, ‘saved’, ‘miles away’, ‘hit the black’, tutta roba che si fa ascoltare, pezzi rock che non hanno nulla di metal, qualche buon ritornello e dei riff decenti ma i tocchi di classe della sezione ritmica scompaiono e tate fa finta di essere un cantante qualsiasi.

‘get a life’, ‘hero’ e ‘anytime/anywhere’ invece sono proprio pezzi brutti di cui non si riesce davvero a salvare niente, soprattutto se si pensa al glorioso passato del gruppo.

altri risultati ottengono invece ‘sign of the times’, ‘some people fly’ o ‘you’, pezzi che hanno una verve anche compositiva un pochino più accentuata e in cui la voce di tate fa davvero la differenza, pur restando orfani dei giochi ritmici.

si diceva che l’unico momento in cui il gruppo mostra davvero la sua classe è la conclusiva ‘spool’. non pensiate che torni il metal solo per un pezzo, rimane un pezzo rock ma il suo sviluppo è inquieto, le chitarre decisamente più incisive e la voce di tate di nuovo a livelli stellari, oltre ad essere l’unico pezzo in cui rockenfield e jackson fanno la differenza. assolutamente degna di stare in un best of del gruppo, purtroppo è anche l’unica del disco.


si diceva che il tour di ‘promised land’ è stato un mezzo flop e che la emi minacciava di scaricare il gruppo, no? ecco, il tour di ‘frontier’ non verrà nemmeno portato a termine, dopo un mese tate si ammala e il gruppo deve annullare molte date, poi la emi america va in bancarotta e i queensryche si ritrovano senza etichetta, costretti a pagarsi i concerti già prenotati per portare a termine gli obblighi. durante questo casino, degarmo annuncia al gruppo che non ce la fa più e lascia, l’annuncio viene dato all’inizio del ’98 e da allora il chitarrista è scomparso dalla scena musicale e pilota gli aerei. 

di fatto questa ferita non si rimarginerà mai, ‘hear in the now frontier’ è la fine di un’era e da qui in poi il timone verrà preso saldamente in mano da tate che condurrà il gruppo alla distruzione tra qualche disastro e pure qualche buon risultato ma sempre meno con la collaborazione degli altri, fino all’esasperazione di ‘mindcrime 2’, di fatto un suo disco solista.

questa storia poteva chiudersi meglio, siamo tutti d’accordo. dopo tanti anni però trovo giusto dare una nuova possibilità a ‘frontier’ perché non si meritava tutta la merda che gli è stata tirata in testa.

domenica 13 luglio 2025

queensryche, 'promised land'

 


dopo il successo planetario di ‘empire’, la emi sta addosso ai queensryche chiedendo a gran voce un altro disco sulla stessa scia, fatto di melodie solari e ritornelli da stadio, del resto un sacco di fan in giro per il mondo hanno conosciuto il gruppo proprio con quel disco e non vedono l’ora di avere nuove canzoni da sparare in macchina.

gli è andata male.

se ‘operation: mindcrime’ è l’apice della teatralità dei queensryche, ‘promised land’ è la vetta del loro versante più cerebrale, oscuro e progressive. il paragone tra i due dischi finisce qui perché tra essi c’è un oceano, a livello di suono. c’è una sincera emozionalità mercuriale nei nuovi pezzi che tende ad aumentare i contrasti tra luci e ombre, rendendo gli spigoli più pericolosi e le poche luci più morbide. pochissime potremmo dire, visto che parliamo del disco più scuro, paranoico e intenso di tutta la carriera.


la stragrande maggioranza del materiale è firmato degarmo ma di fatto ‘promised land’, uscito nel 1994, è forse il disco più di gruppo che i queensryche abbiano pubblicato, con vari contributi di rockenfield e un faro perennemente acceso sulla sezione ritmica. è un disco eclettico, in cui si va dal metal alle ballate pianistiche, passando per groove ossessivi, melodie alienanti e tocchi di un’inedita psichedelia che purtroppo tornerà molto raramente. del resto è un disco che parla di perdita di identità psicologica, fisica e di alienazione, pensare ai pink floyd non è così fuori luogo.

dopo l’intro effettistica ‘9:28 am’, a firma rockenfield, ‘i am i’ esplode come nessuno si sarebbe aspettato. un 6/8 con un riff metal maligno e ribassato, modernissimo rispetto alla nostalgia 80s di ‘empire’, sostenuto da un tappeto incessante di batteria e percussioni e intrecciato con un sitar (suonato da degarmo). quando tate entra ci si chiede se sia lo stesso gruppo, il suo tono è aggressivo, acido, cinico e sapientemente trasfigurato da effetti digitali. la teatrale apertura con melodia mediorientale del ritornello è spiazzante quanto affascinante e il magico assolo che la segue porta definitivamente il pezzo tra i migliori mai scritti dai queensryche.

‘damaged’ è un hard rock più classico ma la tensione emotiva non cede mai, sostenuta soprattutto dalla drammatica prova di tate. se le composizioni sono di degarmo, è anche da dire che non avrebbero funzionato allo stesso modo senza un geoff tate al massimo della sua forma vocale che con questo disco alza ulteriormente l’asticella dei suoi standard, tanto che purtroppo non riuscirà mai più a raggiungerla di nuovo.

con ‘out of mind’ si calmano le dinamiche ma non la tensione: la batteria con pochi colpi crea un’attesa continua, ciclica, su cui il basso fluttua con linee bellissime mentre i classici arpeggi di chitarra sono trasfigurati in armonie aliene e ansiose. tate mostra un controllo impressionante mentre racconta di isolamento e follia ma il vero apice del brano è il commovente assolo di degarmo, uno dei suoi migliori in assoluto. ed è ancora lui il protagonista di ‘bridge’, ballata acustica dal ritornello più solare in cui si affronta il tema di un difficile rapporto tra padre e figlio, uno dei tre singoli tratti dal disco (gli altri erano ‘i am i’ e ‘disconnected’).


‘promised land’ è la prima canzone della carriera ad essere accreditata all’intero gruppo e questo si sente. su una struttura dai bordi sfocati e continuamente “disturbata” dai campionamenti di rockenfield, il gruppo allestisce uno psicodramma musicale in cui i vuoti contano più delle note suonate. tate suona per la prima volta il sax su disco e l’effetto è straniante, il basso è una pulsazione isterica e i pochi riff suonati ossessivamente dalle chitarre sono lenti, paludosi e paranoici, tutto quello che il pubblico di ‘empire’ non avrebbe voluto. il testo parla dell’alienazione da successo (sì, potete pensare a ‘the wall’) e tate lo interpreta con un trasporto che toglie il fiato, passando da sussurri ad acuti sguaiati.

‘disconnected’ concede un attimo di respiro ma lo fa in modo inaspettato, con basso e batteria in primo piano e un pesantissimo quanto groovy riff di chitarra mentre geoff si produce in uno spoken word inedito.

l’ansia torna a livelli altissimi con la straziante ‘lady jane’, con degarmo al piano e il gruppo ad accompagnare tate in una ballata drammatica che porta a ‘my global mind’, una delle poche luci in mezzo all’oscurità; è l’unico pezzo in cui ci sono tracce di ‘empire’ con una bella strofa e un ritornello luminoso, nonostante il testo tratti di perdita di se stessi di fronte ai cambiamenti portati dalla globalizzazione.

siamo quasi alla fine ma i queensryche non mollano la presa: ‘one more time’ è un pezzo soffocante, dalle ritmiche spigolose e marcato ancora una volta dagli strani riff di degarmo, bellissimo ma il gran finale è affidato a ‘someone else?’ e non potrebbe essere altrimenti. il solo degarmo al piano accompagna tate in un’interpretazione che sta là in cima assieme a ‘anybody listening?’ tra le più grandi prove vocali rock di sempre, il testo riassume efficacemente lo smarrimento di tutto il disco e l’intensità cresce a dismisura per poi crollare all’improvviso e lasciare il vuoto di una domanda senza risposta.


‘promised land’ è un disco unico e uno dei capolavori che i queensryche hanno pubblicato insieme ad altri grandissimi dischi, la definizione finale di quella tensione psicologica che da ‘rage for order’ è sempre stata presente e qui trova forma compiuta. oggi si può tristemente dire però che è anche l’ultimo grande disco del gruppo, ne seguirà ancora uno con degarmo, poi la rottura, l’era tate e nulla sarà mai più come prima.

carico dalle aspettative post-‘empire’, ’promised land’ schizza al terzo posto su billboard ma crolla in pochi giorni, raggiungendo “solo” un disco di platino e di fatto deludendo un sacco di persone per cui il nuovo suono del gruppo risulta troppo spigoloso, cerebrale e indecifrabile. il tour è un mezzo flop nonostante il gruppo sia in gran forma e finisce che la emi minaccia di scaricarli, le cose si mettono male ed è solo l’inizio.

per fortuna possiamo fare finta di niente e tornare ad ascoltare ‘promised land’, ancora e ancora e ancora.

domenica 6 luglio 2025

queensryche, 'empire'

 


il paragone tra queensryche e metallica si può estendere ai primi anni ’90 quando entrambi i gruppi, dopo aver portato il proprio suono al suo estremo, scelgono la strada della melodia e della semplificazione, almeno strutturale.

se però la battaglia precedente era stata stravinta dai queensryche, ora ‘empire’ appare sfocato e un po’ confusionario se paragonato al ‘black album’.


quello che tate e soci fanno è eliminare ogni sovrastruttura dalla musica, basta concept o temi ricorrenti e giù di canzoni. il suono viene ulteriormente levigato e i riferimenti all’aor in generale e ai journey in particolare si fanno abbastanza espliciti, con un uso ancora più invasivo dei synth e una continua ricerca del ritornello ad effetto.

nei casi migliori queste canzoni sono dei piccoli capolavori che ribadiscono la classe dei queensryche, purtroppo però ‘empire’, come tanti suoi contemporanei, soffre di una prolissità eccessiva che tarpa le ali al disco intero. ‘resistance’, ‘hand on heart’ o ‘one and only’ sono pezzi che si dimenticano all’istante, assolutamente superflui e addirittura superati da alcune outtake dell’epoca niente male (‘last time in paris’, ‘dirty li’l secret’). vanno un po’ meglio ‘best i can’ e ‘the thin line’ poste in apertura ma se si pensa all’impatto delle aperture precedenti, anche questi due pezzi scompaiono un po’. pesa inoltre (questo anche sui pezzi belli) una certa fatica a staccarsi da suoni e arrangiamenti ancora fortemente legati al decennio precedente.


dicevo però che quando questa formula funziona, ne escono pezzi incredibili. ‘jet city woman’ e ‘another rainy night’ sono due pezzi aor perfetti, marcati a fuoco dal suono queensryche: i riff di degarmo sono inconfondibili, la sezione ritmica, più presente che mai in tutto il disco, è sempre capace di finezze esaltanti senza mai perdere il groove mentre la voce di tate è negli anni dell’apice assoluto, il timbro è maturato, la tecnica impeccabile e le doti di interprete cresciute a dismisura.

tutto questo è valido anche per i due momenti più alti del disco, ‘silent lucidity’ e ‘anybody listening?’. la prima è una ballata floydiana ariosa e morbida, condotta dagli arpeggi di degarmo, con una melodia attentamente costruita per dare modo a tate di sfruttare la sua estensione dal profondo baritono della strofa agli acuti del ritornello, il tutto coccolato dal morbido arrangiamento di archi di michael kamen. un pezzo emozionante e immortale che ha fruttato non pochi soldi al gruppo. ‘anybody listening?’ è, almeno per il sottoscritto, forse il pezzo più bello mai scritto dai queensryche. la struttura ricorda altri brani, strofa pulita, bridge in crescendo e ritornello che esplode, il fatto è che qui ogni parte è più ispirata che mai e curata a un tale livello che si resta a bocca aperta. la tensione che crea il bridge è indescrivibile, l’assolo è perfetto e tate regala forse la sua miglior prova di sempre.

resta ancora la stupenda ‘della brown’, con basso e batteria a prendere il sopravvento sulle chitarre nel fare da tappeto al bel racconto di geoff di una bellezza dei tempi andati. e non vogliamo parlare dei controtempi da capogiro di ‘empire’? il pezzo è uno dei pochi momenti prog del disco, con un intreccio ritmico che destabilizza continuamente, un riff pazzesco di chitarra e ancora tate mattatore.


purtroppo 63 minuti per arrivare a ‘anybody listening?’ sono veramente tanti e in mezzo c’è troppa roba inutile, se ne fosse durati 45 probabilmente staremmo parlando di un altro disco perfetto ma tant’è, di fatto ‘empire’ nel complesso è il disco più debole pubblicato fin qui dai queensryche ma è anche vero che la concorrenza è sleale. porta comunque il gruppo al successo mondiale (settimo posto su billboard, triplo disco di platino) e a un tour epocale in cui viene suonato finalmente tutto ‘operation: mindcrime’, come testimoniato sull’incredibile ‘operation: livecrime’. sarebbe stato bello avere anche il resto del concerto ma ad oggi non è stato pubblicato niente e, visti i rapporti odierni tra le parti, è molto molto molto difficile che succeda a breve. molto. comunque la soundboard della data all’hammersmith di londra è facilmente reperibile e suona discretamente bene.

tanti nuovi fan e tante nuove aspettative per un nuovo disco di ritornelloni e pezzi rock da arena. 

poveri illusi.

domenica 29 giugno 2025

queensryche, 'operation: mindcrime'

 


ci sono dischi nella storia del metal che sono capaci di mettere d’accordo più o meno tutti, ‘master of puppets’, ‘reign in blood’, ‘nightfall in middle earth’, ‘human’ e qualche altro; e ‘operation: mindcrime’.


il 3 maggio del 1988 i queensryche pubblicano quello che è non solo il loro capolavoro ma anche uno dei grandi apici del metal tutto. lo fanno nella forma più prog possibile, il concept album, quindi sarebbe lecito aspettarsi che la sperimentazione e i sintetizzatori di ‘rage for order’ abbiano qui ancora più rilievo… e invece no. le tastiere vanno in secondo piano, il comando strumentale torna saldamente in mano alle chitarre, la sezione ritmica prende sempre più importanza e l’intreccio tra rockenfield e jackson diventa quasi sempre parte fondamentale delle composizioni con finezze da rush in salsa metal. le strutture non subiscono grandi mutazioni (a parte ovviamente il caso della suite, a cui arriveremo) e le canzoni si sviluppano quasi sempre allo stesso modo, prendendo a tratti molto da certo aor di stampo journey, un’ispirazione che un paio di anni più tardi diventerà prevalente in ‘empire’. si parla sempre di metal ma se pensate alla furia del thrash o alle cavalcate dei judas priest siete fuori strada, è un metal decisamente più laccato ma lontano dalla gommosità del glam tanto quanto dal suono trucido del thrash. non a caso alla produzione troviamo peter collins, già collaboratore di lunga data dei rush; nonostante questo, l'abusata definizione di "progressive metal" qui è quantomai fuorviante: 'mindcrime' è fondamentalmente un disco metal/aor.

quello che lascia davvero esterrefatti è la costante qualità stellare di queste canzoni: in un’ora netta di musica non c’è un secondo di calo, non c’è un momento che non sia stato curato e studiato, quasi tutti i riff di chitarra sono da includere negli annali del metal e le melodie sono miracolose.


il concept presenta dei punti molto interessanti, specialmente se contestualizzato nel suo momento di uscita. per prima cosa i ryche evitano la via facile facile che spesso hanno i concept metal, infilarsi nel fantasy tolkeniano e/o nella suggestione di lovecraft; visti i temi del disco precedente sarebbe stato lecito aspettarsi un racconto fantascientifico o quantomeno futuristico, invece tate (la storia è sua) decide di ambientare la sua opera per le strade di quella che potrebbe essere new york (di fatto l’unico posto reale citato in tutto l’album è times square) in una grigia e cruda contemporaneità, tra attentati terroristici ed eroinomani ai confini della società. nikki, per la precisione, è il nome del protagonista che da una stanza di ospedale ricorda la sua drammatica vicenda con il perfido dr.x e l’amata sister mary, ex-prostituta convertita a suora/schiava da un prete pervertito al servzio dell’operazione di x, chiamata appunto mindcrime.

tre anni dopo i savatage pubblicheranno ‘streets’, metal-opera in cui una rockstar finisce nel tunnel dell’eroina per le strade di new york. altre atmosfere e intenzioni ma sempre di metal americano parliamo e il parallelo è inevitabile (volendo approfondire potremmo anche dire che 'streets' è molto più progressive di 'mindcrime' per vari aspetti, come l'uso di tempi dispari e di strutture inusuali che qui compaiono quasi esclusivamente in 'suite sister mary'.


‘i remember now’ introduce la trama con dialoghi e ricordi di nikki dalla stanza d’ospedale, poi esplode ‘anarchy x’ e iniziano i fuochi d’artificio. l’ouverture è ovviamente epica, una marcia metal strumentale con le chitarre ad armonizzarsi e la sezione ritmica a prendere subito il suo spazio, prima di un finale turbinoso che conduce direttamente all’intro di ‘revolution calling’. non ci sono molti album che possono vantare una canzone del genere in apertura; l’introduzione è rush nel midollo, il tema di chitarre si imprime a fuoco nella mente e quando geoff entra con la voce si ha l’impressione di trovarsi di fronte una canzone perfetta. ai primi ascolti è l’interpretazione di tate a prendersi tutta l’attenzione, con la sua estensione sconfinata e una potenza che spazza via tutti i concorrenti; sotto di lui però le chitarre macinano riff incredibili in continuazione, per arrivare poi a un assolo che combina il gusto melodico impeccabile di degarmo con un intreccio ritmico da capogiro. sembra una canzone perfetta per un motivo preciso: lo è, esattamente come quasi tutte le altre del disco.

il riff della title-track è già memorabile di suo, eppure non sarebbe la stessa cosa senza quel basso pulsante che lo tiene in avanti e che nella strofa si prende anche degli attimi di protagonismo mentre tate è irraggiungibile, da qualunque punto di vista, così come nella seguente ‘speak’, lanciata a gran velocità verso il cupissimo ritornello.

‘spreading the disease’ introduce sister mary, raccontando del suo passato e di come il prete l’abbia portata nell’organizzazione con un altro pezzo veloce ma melodico, marcato da una decisa vena di critica sociale che rivela una possibile interpretazione del concept più profonda della semplice storia da broadway. ‘the mission’ è uno dei picchi emozionali del disco, una power ballad in cui tornano le tastiere ma in veste molto più cinematografica rispetto a quelle acide e futuristiche di ‘rage for order’. chi fa il buono e cattivo tempo è ovviamente tate con una delle sue prove più incredibili di sempre ma anche in una ballata le chitarre non mancano di accompagnare con riff grandiosi e l’assolo di degarmo è un’altra perla.


piuttosto ovvio da dire ma servirebbe un intero articolo solo per ‘suite sister mary’. nei suoi quasi 11 minuti si possono ascoltare tutti i punti di forza dei queensryche all’ennesima potenza: l’alternanza tra chitarre pulite e distorte produce arpeggi spettrali indimenticabili e forse il più grande riff mai scritto dal signor degarmo, che quindi è anche uno dei più grandi riff di sempre. la sezione ritmica non è importante, è fondamentale, sia quando gli spazi si allargano nelle strofe con piccole finezze che nel vortice di chitarre elettriche, evidenziando accenti inusuali e mantenendo il beat spedito e cazzuto. sì lo so, non mi vengono parole migliori.

la storia è a un punto cruciale, nikki è di fronte a mary con l’ordine di ucciderla, dopo aver già ucciso il pretaccio. tutta la vena teatrale del gruppo è al suo picco, con tanto di citazioni dal ‘dies irae’, e spinge tate alla prova definitiva, giocando con toni da baritono nelle strofe per poi esplodere in tutta la sua potenza e duettare con pamela moore, che interpreta mary. è il capolavoro nel capolavoro, l’esplosione totale della creatività di un gruppo all’apice della sua forma.


la seconda parte del disco parte a mille con la cavalcata di ‘the needle lies’, una collezione di riff uno più bello dell’altro con un ritornello che verrà urlato dalle folle ai concerti. ‘electric requiem’, a firma rockenfield, è un intermezzo straniante in cui nikki trova in corpo senza vita di mary, da qui inizia la spirale che porta nikki alla follia e infine all’arresto. ‘breaking the silence’ e ‘i don’t believe in love’ sono due inni, canzoni baciate dalla penna infallibile di chris degarmo e marchiate da ritornelli perfetti durante le quali ci si immagina nikki disperato per le strade a inveire contro i cieli. specialmente ‘i don’t believe in love’, nominata ai grammy del ’90, diventa uno dei grandi classici del gruppo, immancabile nelle scalette dei concerti. 

un breve strumentale acustico e un desolante intermezzo ci conducono al gran finale, ‘eyes of a stranger’. singolo di enorme successo e altra pietra portante dei concerti futuri, è un pezzo straziante in cui la voce di tate si fa carico di tutto il dolore della storia; le chitarre evitano ritmiche serrate e si sviluppano più su arpeggi, sia distorti che puliti, mentre la ritmica è sempre in primo piano con pulsazioni non sempre lineari e finezze nell’arrangiamento, il ritornello poi è pura magia, così come l’indimenticabile assolo incrociato.


oltre al successo di critica, il disco porta al gruppo anche il riscontro positivo di un pubblico sempre più vasto, regalando a tate e soci il loro primo disco di platino e facendoli andare in tour per due anni, tra date da headliner e aperture per metallica, guns n’ roses e def leppard. quando poi ‘empire’ li porterà veramente in alto nelle classifiche, il gruppo non perderà occasione di portare dal vivo l’intero ‘operation: mindcrime’ in una serie di concerti leggendari, testimoniati sull’imperdibile ‘operation: livecrime’.

con ‘mindcrime’ i queensryche hanno realizzato un album perfetto che prende le varie facce del gruppo e le spinge all’estremo in un contesto teatrale come non mai, un capitolo irrinunciabile per l’heavy metal e, mi si conceda, per il rock tutto. un capolavoro, tanto quanto quelli citati all’inizio.

domenica 22 giugno 2025

queensryche, 'rage for order'

 


tutto ciò che era già incredibile in ‘the warning’ viene portato a un livello ancora superiore nel suo successore, ‘rage for order’ del 1986, per alcuni fan il non plus ultra dei cinque di seattle. 

per alcuni aspetti ha perfettamente senso che esca nello stesso anno di ‘master of puppets’: entrambi i dischi rappresentano una maturazione netta dell’heavy metal americano, uno sul versante thrash, l’altro su quello classico, in entrambi i testi delle canzoni sono molto più focalizzati su un dolore più psicologico che fisico ed entrambi portano un certo discorso musicale ai suoi massimi livelli, tanto che sia i metallica che i queensryche dovranno spingere il proprio suono all’estremo per proseguire, con risultati buoni a metà per i primi (‘…and justice for all’) ma clamorosi per i secondi (‘operation: mindcrime’).


‘walk in the shadows’ apre le danze e da sola vale il biglietto di ingresso. la ritmica non concede tregua ma è il linguaggio delle chitarre a lasciare a bocca aperta: magistralmente scritte da degarmo e armonizzate da wilton, sfoggiano riff maestosi quanto taglienti e distanti prima di un solo che è perfezione pura, lontano anni luce dallo shredding tamarro del periodo. è d nuovo il signor tate a portare tutto questo ancora più in alto: la sua tecnica vocale è migliorata e l’espressività è più accentuata, dinamica, coinvolgente, fermo restando potenza ed estensione sovrumane.

‘i dream in infrared’ introduce pienamente la vena tecno-digitale nei testi, è una ballata ma non è una ballata, è scurissima e paranoica e lavora sulle emozioni in musica in un modo che troverà compimento in ‘promised land’ 7 anni più tardi. ‘the whisper’ torna alla potenza del primo album ma con una netta maturazione tecnica e compositiva mentre ‘gonna get close to you’, cover di lisa dalbello, è un raggelante racconto di uno stalker, in tinte cyber portate dal pesante uso di synth, un brano che fece storcere il naso a molti all’epoca ma che risulta perfettamente inserito nel contesto dell’album.

synth che introducono anche ‘the killing words’, straziante ballad lontana e algida nell’arrangiamento (con ancora un lavoro maiuscolo di chitarre) ma drammatica nella prova di tate. ‘surgical strike’ e ‘chemical youth’ sono parenti di ‘the whisper’, ottimi heavy che mantengono il livello ma poco aggiungono, al contrario del brano posto in mezzo a loro e chiamato ‘neue regel’. l’incubo tecnologico raggiunge il primo picco in un brano in cui campionamenti e sintetizzatori sono parte integrante della composizione quanto gli strumenti canonici, la struttura viene deformata e l’orrore prende forma nell’angosciata prestazione di geoff, attore in una trama oscura e drammatica… più o meno come succederà due anni dopo.


se molti album tendono a perdere colpi sul finale, ‘rage for order’ non è tra questi. ‘london’, come ‘walk in the shadows’, è pura perfezione, uno dei pezzi più queensryche che i queensryche abbiano mai scritto, con la classica alternanza di chitarre pulite e riff intrecciati a due parti, un bridge magistrale che fa crescere la tensione prima del terrificante ritornello e di un grandioso solo a due chitarre. viene da chiedersi come sia possibile ma ‘screaming in digital’ è ancora di più. probabilmente la sintesi migliore dell’intero disco, un pezzo dalla ritmica robotica martellante, tastiere aliene e riff di chitarra irripetibili. e poi, ancora una volta, lui, geoff tate, a portarsi via tutto e tutti con un’intensità che ha fatto scuola, speculando sui sentimenti delle macchine esattamente come i compaesani nevermore avrebbero fatto un decennio più tardi.

‘i will remember’ parla di venti gelidi, satelliti e pianeti lontani, chiude il disco in una nube di ansia desolante , un vuoto gelido che mette i brividi.


‘rage for order’ è un disco fondamentale nella storia dell’heavy americano, ha mostrato una via raffinata e intelligente, lontana anni luce dalle tamarrate da macho e dallo splatter ma illuminante per tutto un nuovo filone prog-metal che proprio da qui e dai fates warning muoverà i primi passi.

evoluzione, classe e canzoni indimenticabili, i queensryche nei loro anni d’oro.

domenica 15 giugno 2025

queensryche, 'the warning'

 


nel 1984, sotto la produzione di james guthrie, arriva il primo album dei queensryche, ‘the warning’. la formazione di seattle mette subito in tavola tutte le sue carte e inizia un percorso che toccherà picchi altissimi, partendo da un disco che sa di metallo americano anni 80 fino al midollo ma che si distingue da quasi tutto ciò che gli sta attorno, incluso l’ep che lo precede.


ci sono ancora maiden e judas priest, non c’è dubbio, ma nel suono iniziano a filtrare le tentazioni hard-prog dei rush e un immaginario distopico/futuristico/teatrale che prenderà sempre più il comando negli album successivi.

l’ispirazione è già a livelli alti e non ci sono particolari cadute, in compenso gli apici del disco sono capolavori divenuti classici immortali per tutti i fan.

il primo è ‘no sanctuary’, una power ballad che prosegue la linea di ‘the lady wore black’, allargando ulteriormente le trame, lavorando sulle dinamiche e creando lo scenario perfetto per l’incontenibile prestazione di tate. subito dopo c’è il secondo, ‘nm 156’, in cui si affacciano accenni digitali premonitori degli incubi di ‘rage for order’; è un pezzo in cui i riff di degarmo sono uno più bello dell’altro, in cui la ritmica alterna gli stop and go della strofa alla travolgente velocità del ritornello e in cui iniziano ad affacciarsi anche i sintetizzatori, un brano che dopo (quasi) 40 anni ancora non ci si stanca mai di ascoltare.

e non siamo ancora arrivati ai due momenti più alti del disco. ‘take hold of the flame’ lascia senza fiato, il suo teatrale crescendo iniziale, l’apertura epica e potente e un ritornello indimenticabile in cui ci si chiede se geoff tate sia un essere umano, è metal ma è molto più narrativo e cerebrale di ciò che gli sta attorno, sembra una sintesi più matura di ‘the lady wore black’. e allora che dire di ‘roads to madness’? quasi 10 minuti di mini-suite che inaugurano una tradizione di capolavori conclusivi durata almeno fino al 1999. ancora un inizio in crescendo in cui le chitarre alternano arpeggi puliti a riff che sanno di rush in paranoia mentre tate è ancora protagonista di una prova che definire maiuscola è un eufemismo: la sua potenza ha ben pochi rivali, dell’estensione non parliamone nemmeno e l’intensità della sua interpretazione toglie il fiato. la ritmica è un’altra arma del gruppo spesso sottovalutata, specialmente jackson al basso, sempre presente con belle idee e un gran suono, al contrario di moltissimi suoi colleghi. la cavalcata finale è la ciliegina sulla torta che chiude un album fantastico e, per molti versi, avanti sui tempi.


per la teatralità si potrebbe tracciare un parallelo con i savatage, i quali spingevano ancora di più su questo aspetto e meno sul lato progressive, pur avendo poi pubblicato 4 concept album propriamente detti. di certo a entrambi i gruppi piaceva mischiare certo broadway con il metal e avevano capito molto meglio di altri coevi l’uso delle dinamiche.

ho parlato dei capolavori ma le varie ‘warning’, ‘en force’ o ‘child of fire’ non sono molto da meno, canzoni dall’impatto potentissimo ma piene di particolari da scoprire ascolto dopo ascolto. 


il disco arrivò al posto 61 su billboard e la band fece un tour degli stati uniti aprendo per i kiss nel loro tour di ‘animalize’ e per i maiden in giro per ‘powerslave’. sì, dovevano essere delle gran belle serate.

se oggi ‘the warning’ può suonare acerbo è perché sappiamo dove sono arrivati i queensryche dopo, sappiamo che era solo l’inizio. se il gruppo si fosse sciolto subito dopo, probabilmente parleremmo di un album leggendario, un grande tesoro nascosto. ciò non deve togliere nulla ai suoi meriti che sono enormi oggi come lo furono al tempo.

domenica 8 giugno 2025

queensryche, 'queensryche ep'

 


i queensryche sono stati uno dei gruppi metal americani più interessanti partoriti dagli anni ’80, protagonisti di un’evoluzione che li ha portati ad attraversare molte sfaccettature del suono metal prima e rock più tardi. hanno avuto un momento di enorme successo all’inizio degli anni ’90 ma l’inizio della loro storia è tracciabile fino alla fine dei ’70, quando a seattle il chitarrista michael wilton incontra l’altro chitarrista chris degarmo. 

i due suonano insieme per un po’, poi in vari avvicendamenti si perdono ma arriva il batterista scott rockenfield che con wilton forma i cross+fire, ai quali presto si aggiunge degarmo con il bassista eddie jackson e il gruppo cambia nome in the mob. la band suona cover di iron maiden e judas priest e si trova ad aver bisogno di un cantante per una serata, per cui viene ingaggiato un giovane dalla voce sovrumana dal nome jeffrey wayne tate, meglio conosciuto come geoff, più grande di qualche anno. dopo il concerto gli viene chiesto di rimanere col gruppo ma lui rifiuta perché non ama cantare cover e va nei myth con il chitarrista kelly gray, che (purtroppo) ritroveremo molto più avanti nella storia.

nel frattempo i the mob hanno scritto dei pezzi originali e vorrebbero registrarli ma sono ancora senza cantante, per cui viene richiamato tate che non solo accetta ma scrive anche il testo per uno dei brani, ‘the lady wore black’. 


quando il demo viene registrato il gruppo si chiama ancora mob e tate è solo un cantante ingaggiato ma oggi quando si ascolta ‘queen of the reich’ si fa davvero fatica a non pensare a tutto quello che è successo dopo. ad esempio quanto sia significativo che il pezzo si apra con uno stop di basso e batteria, visto che proprio la sezione ritmica diventerà una delle grandi armi dei queensryche. il pezzo trasuda metallo, brufoli, maiden e judas ma i suoi riff hanno un che di minaccioso, amplificato dal basso budget (il disco fu registrato di notte per poter lavorare di giorno) e dalla tipica produzione riverberata del periodo. quello che però colpisce subito è la pazzesca voce di tate, già capace di ottimi vibrato e di acuti inarrivabili, è la vera arma che varrà al gruppo il suo primo contratto, prima di cambiare nome spirandosi proprio al titolo di questo pezzo.

‘nightrider’ è altro classico metallone ottanta che nella sua intro prova già qualche gioco di arrangiamento strutturale, ricordando vagamente certi mercyful fate prima di gettarsi nel rifferama dei judas priest mentre ‘blinded’ non ci prova neanche, nel metallo nasce e nel metallo muore fieramente.


il pezzo più interessante del demo è di gran lunga ‘the lady wore black’, da tanti punti di vista. inizia come ballata, trainata da spettrali arpeggi di chitarra che fanno da base a tate, il quale mostra una sensibilità teatrale fin qui inedita che presto prenderà il sopravvento nel suo stile. la sezione ritmica entra alzando le dinamiche, poi tutto esplode in un ritornello che è un inno per i fan, in cui le chitarre si fanno di nuovo metallo e tate tocca vette inarrivabili. anche l’assolo di chitarra su tempo dimezzato sembra presagire futuri sviluppi e il pezzo resta ad oggi un grande classico, paradigma dinamico e strutturale per molti brani a venire.

‘prophecy’ chiude il demo con un altro proiettile metal, il cui scheletro in qualche modo verrà modificato e migliorato almeno fino a ‘rage for order’.


dopo le registrazioni tate se ne torna nei myth e non ha particolare voglia di stare coi mob, i quali continuano a cercare un cantante e intanto passano un anno a mandare il demo ovunque possano. si trovano almeno un manager, il quale però gli dice che i the mob esistono già e da qui si passa a queensryche, con la y per non essere presi per nazisti. sai com’è.

poi il demo arriva alla redazione di kerrang che ne fa una recensione entusiastica e tanti iniziano a parlare di questi queensryche, del loro cantante disumano e del loro demo fantastico, abbastanza che la 206 records decide di pubblicarlo così com’è, presentandolo come ep d’esordio che inizia a vendere discretamente. a questo punto geoff tate, che coi myth sta ottenendo ben poco, capisce come tira il vento e si unisce ai queensryche, completando una formazione che resterà invariata per 14 anni ed è diventata leggenda.

iniziano i concerti e il nome arriva a mavis brodey, manager della emi che, dopo aver assistito a uno di questi live offre alla band un contratto di quindici anni per sette dischi.


proprio allo scadere di questo contratto ci sarà una crisi insanabile nel gruppo ma non stiamo a pensarci adesso, torniamo invece a goderci questo mini-esordio di una formazione già pronta a diventare leggenda.