quando ‘dead heart in a dead world’ è esploso era impossibile evitarlo. la comunità metal è impazzita in maniera concorde come solo in alcune occasioni speciali e il disco è diventato un instant classic nel giro di un annetto, complice anche la rotazione continua del video di ‘believe in nothing’ sui canali specializzati, mtv inclusa.
partiamo da un dettaglio tecnico: da questo disco jeff loomis inizia a suonare una chitarra a 7 corde, permettendogli di scurire e appesantire ulteriormente il suo suono senza sbilanciare la musica. contribuisce anche il magistrale lavoro di andy sneap dietro al banco, senza di lui non so se si sarebbe ottenuto lo stesso risultato, di fatto insieme alla band ha praticamente forgiato il suono del metal del 2000: se volete sentire uno dei mix e mastering migliori che il metal abbia mai avuto, mettete su questo disco.
questo inscurimento dei suoni va a legarsi perfettamente con le interpretazioni maiuscole di dane e con i suoi testi neri e senza speranza, creando un insieme che irrompe sul mercato e rapisce il pubblico, grazie anche all’interpretazione grafica di travis smith, un vero eroe di quegli anni che con la copertina realizza una delle sue opere migliori in assoluto. un pacchetto completo, compiuto e destinato a diventare il non plus ultra per la maggioranza dei fan del gruppo.
tante cose “di contorno”, ma poi i pezzi?
semplice, uno migliore dell’altro. dalla deflagrazione di ‘narcosynthesis’ (una strofa sincopata devastante) fino al tripudio con il chirugico massacro della title track posta in chiusura è tutto un susseguirsi di riff clamorosi, ritornelli memorabili e un’oscurità minacciosa e plumbea. ‘we disintegrate’ ha una vena vagamente psichedelica che contrasta a meraviglia con la pesantezza delle chitarre, ‘inside four walls’ è il pezzo che chiunque faccia metal vorrebbe scrivere, dal riff spezzacollo alle sincopi della strofa che arrivano dritte sulle ginocchia, per non parlare del ritornello che farà cantare tutto il pubblico ai concerti, una canzone perfetta. come se ‘evolution 169’ non lo fosse, power ballad asfissiante e obliqua, anche meglio di due illustri “rivali” come ‘the heart collector’ e ‘believe in nothing’, la seconda diventata all’istante la ‘nothing else matters’ del 2000 (con dovute proporzioni).
forse l'apoteosi si tocca con la title-track in chiusura, aperta da un desolato duetto tra dane e sheppard prima di esplodere in una sequenza di riff impensabili che si susseguono a una velocità impressionante, prima di aprirsi in un ritornello in 6/8 che spazza via l'ascoltatore. c'è un uso di ritmiche sincopate tipicamente thrash ma sono tutte compresse, piene di accenti strani e spinte a velocità che richiedono una padronanza strumentale ben sopra alla media dei gruppi metal, almeno dell'epoca.
se vogliamo proprio fare le pulci possiamo dire che ‘insignificant’ è un pezzo che interpreta fin troppo bene il suo stesso titolo e scompare nel nulla; del resto come cazzo si può fargliene una colpa quando la concorrenza è a un livello disumano?
c’è poi il caso ‘the sound of silence’, una “cover” per la quale le virgolette sono obbligatorie: di fatto del pezzo originale resta solamente il testo, cantato sopra a un pezzo assolutamente in linea col resto se disco, se non addirittura un pochino più aggressivo e thrashy. chiamarla cover fa un po’ ridere visto che anche le melodie sono completamente composte da zero, è un pezzo incredibile dei nevermore con il testo di simon e garfunkel.
colpisce l’intelligenza con cui il gruppo (produttore incluso) gestisce i cambi, le dinamiche interne e le soluzioni senza mai annoiare (ma anche senza mai davvero osare si potrebbe dire), facendo passare l’ora a disposizione in un attimo.
colpiranno poi durissimo anche dal vivo, facendo fuoco e fiamme anche sui palchi europei (indimenticabile la loro prestazione al gods of metal 2001) e consolidando la loro fama di squadra perfetta.
insomma, nel 2000 i nevermore erano all’apice della forma e del successo, avevano pubblicato tre capolavori uno in fila all’altro e il futuro pareva una gran figata. non è andata proprio così ma questo non toglie nulla a ‘dead heart in a dead world’, forse il primo grande capolavoro del metal del 2000.