domenica 21 settembre 2025

queensryche, 'tribe'

 


‘q2k’ è stato un fallimento totale ma il tour seguente ha mostrato un gruppo tutto sommato ancora in vita, con tate in una forma decente e la band ancora vogliosa di suonare sul serio, incluso kelly gray che nel bel live ‘live evolution’ risulta più inserito nel contesto dei queensryche. infatti subito dopo viene allontanato dalla band, pare per abuso di sostanze, mi piace pensare invece che l’abbiano fatto per il suo agghiacciante lavoro al mix di ‘q2k’.

gira voce, si dice che, pare, forse, qualcuno ha visto, qualcun’altro ha sentito che degarmo è tornato, manco fosse batman, per salvare il destino dei queensryche. è vero a metà, degarmo abbandona gli aerei per un attimo, collabora alla scrittura di quattro pezzi per il nuovo disco e su questi pezzi ci suona pure ma in realtà il nuovo chitarrista dei ryche è mike stone, che però quasi non suona sul disco. 


‘tribe’ arriva nel 2003, a quattro anni dal disastro ‘q2k’ con in mezzo un live e un paio di best of, più che giustificabili, e il disco solista di tate, molto meno giustificabile. è un passo deciso in avanti rispetto al suo predecessore, un po’ da tutti i punti di vista, pur restando ben lontano dalle glorie di un tempo. diciamo che il livello medio è più alto e non c’è roba offensiva, è anche vero però che pure i pezzi migliori non sono capolavori e che qui si chiude ufficialmente la grande tradizione di chiusure spettacolari, con ‘doin fine’ che risulta tra i pezzi peggiori del disco.

al contrario ‘open’, scritta con degarmo, è una gran bella apertura, si ritrova l’aggressività nelle chitarre, c’è un’atmosfera mistica molto tesa che si apre in un bel ritornello corale, bel pezzo. purtroppo si fa notare anche un altro mediocre lavoro di mix che spesso distorce sulle dinamiche più spinte.

‘desert dance’ è un altro dei “pezzi degarmo”, le chitarre tornano a graffiare e tate è scatenato, è un hard molto asciutto e ancora con toni mediorientali come ‘open’, trainato da un riff semplice ma efficace, per quanto smorzato dall’eccessiva compressione. segue il terzo pezzo con il vecchio amico, ‘falling behind’, ballata che sembra voler creare un ponte tra ‘promised land’ e ‘hear in the now frontier’; l’obiettivo è raggiunto, questo però vuol dire che il brano ha una bella strofa tesa e magnetica ma un ritornello piuttosto spompo e sempliciotto che smorza completamente il suo potenziale.

l’ultima canzone scritta con degarmo è ‘the art of life’, penultimo pezzo del disco in cui ancora si possono sentire nette suggestioni di ‘promised land’, una bella power ballad lenta e angosciante punteggiata dagli interventi di tate al sax che resta invece più indietro con la voce, tra i pezzi migliori del disco.


il resto è altalenante, ‘losing myself’ cerca con successo un ritornello leggero e solare ma ‘rhythm of hope’ o ‘blood’ sembrano non cercare nulla e trovare ancora meno. fa un po’ meglio ‘great divide’ con un buon ritornello ma nulla da raccontare ai nipoti mentre di tutt’altra pasta è ‘tribe’, pezzo scuro, nervoso e pesante che la voce di tate riesce a portare a livelli molto alti sia nella bella strofa percussiva che nello strano e apertissimo ritornello.


all’uscita la critica accolse bene ‘tribe’ vedendolo come un segno di rinascita. a quasi vent’anni dalla sua uscita potremmo dire che di tutti i dischi post-degarmo sembra il più sinceramente ispirato, almeno a livello di gruppo. la presenza del vecchio chitarrista non rivela tanto una voglia di ritorno al passato quanto un tentativo di ulteriore evoluzione e questo è solo un bene, purtroppo però quando c’è da tirare le somme i pezzi davvero belli di ‘tribe’ sono 3 o 4, troppo pochi perché si possa parlare di rinascita.