domenica 31 agosto 2025

nevermore, 'this godless endeavor'

 



e così, dopo il mezzo fallimento di ‘enemies of reality’, tutti i pezzi tornano al loro posto con andy sneap saldamente al banco di regia. il momento non è dei migliori, il disco precedente ha convinto poche persone e il tour seguente ha lasciato ancora più perplessi sullo stato di forma dei 4+1 di seattle.

non vi dico il sollievo e la gioia che si è provati la prima volta che si è ascoltato ‘this godless endeavor’, sono tornati i nevermore cazzo. loro giocano sporco, bravissimi a mettere in apertura una ‘born’ che va dritta dritta nel loro ideale best of con una prestazione stellare di loomis e  williams e con warrel dane a cavalcare il marasma strumentale con linee fantastiche e un nuovo ritornello da ricordare per sempre. 


c’è tanto mestiere, è innegabile, ma possiamo veramente dire che in ‘dead heart’ non ce ne fosse? no, e allora è fare il pelo a un uovo che non se lo merita, perché questo disco quando funziona non ha niente da invidiare a quel suo specifico antenato. semmai possiamo dire che non ha la carica emotiva di ‘neon black’ o l’esplosività di ‘politics’ ma pezzi come ‘born’, ‘my acid words’, ‘bittersweet feast’ o (soprattutto) la monumentale ‘this godless endeavor’ hanno ben poco da invidiare a una ‘narcosynthesis’ al di fuori del tempismo. perché sì, le composizioni sono ottime ma a questo punto (è il 2005) questa roba l’abbiamo già sentita e risentita, anche da una quantità spropositata di gruppetti minori che ci hanno sfrantecato i maroni con queste sonorità per cui non si può certo dire che questo sia un disco sulla cresta dell’onda ma tant’è, ribadisco, quando funziona spacca culi come pochi.

non è tutto oro, assolutamente: almeno 4 pezzi si potevano lasciare fuori per snellire il tutto: dubito che qualcuno si sarebbe lamentato dell’assenza di robetta un tanto al chilo come ‘psalm of lydia’, ‘medicated nation’ o lo stesso singolo ‘the final product’, roba che loomis probabilmente scrive in mezzo pomeriggio e viene arrangiata in ancora meno tempo. meglio allora 'sentient 6', ballad che vorrebbe essere il sequel di 'the learning', annoia con la sua banalità nella prima parte ma ha un finale da brividi.


è un disco paraculo, non c’è dubbio, e gioca coi cliché del gruppo mischiandoli e ricomponendoli in ordine diverso, c’è tutto quello che ci si aspetta, i contorti riff ribassati di loomis, il dramma psicotico di dane, il circo ritmico di williams, la produzione cristallina e potentissima di sneap, tutto è al suo posto, tutto studiato per farvi sentire a casa, senza quegli scossoni emozionali di ‘neon black’, senza il mindfuck di ‘politics’ ma con una manciata di canzoni davvero incredibili, le ultime che il gruppo pubblicherà prima di una fine davvero immeritata.