nessuno ne sentiva il bisogno, siamo onesti. i capolavori lasciamoli dove stanno, andare a rivangare il passato raramente è una buona idea. visto anche il periodo di ispirazione non certo florida in cui si trovavano i queensryche, i presupposti per un fallimento totale c’erano tutti.
invece, a scapito delle previsioni e nonostante i tanti, tantissimi problemi e difetti del disco, ‘mindcrime 2’ è il miglior album dei queensryche senza chris degarmo.
sempre se vogliamo chiamarlo un disco dei queensryche.
perché? semplice: wilton non ha suonato una nota in tutto il disco, le chitarre sono ad appannaggio di stone e del produttore jason slater, più qualche collaboratore di studio; il basso è suonato quasi interamente ancora da slater, con pochissime parti di jackson; rockenfield non si è neanche mai presentato in studio, metà delle batterie sono fatte da matt lucich, l’altra metà è un’orrenda drum machine. le composizioni sono tutte della coppia tate/slater e anche la voce di tate, per quanto ancora in forma, non è neanche lontanamente quella di una volta.
il concept è sfilacciato e vago, nikki esce di prigione, trova dr.x, lo uccide e poi pensa di suicidarsi, più o meno tutto qui, poco più di un pretesto per rimettere in campo i vecchi personaggi e imbastire un circo che ha più del musical che del disco, pieno di intermezzi e parti teatrali che spezzano il ritmo durante l’ascolto.
detta così sembra una merda, lo so. quello che ha del miracoloso però è la qualità delle composizioni, di cui almeno metà sono fantastiche. torna il metal come non si sentiva da ‘promised land’ ma è un metal lontano da quello di una volta, moderno, abrasivo e senza tutta la rifinitura di classe dell’originale; è metal, sì, ma non c’è la minima traccia dei riff indimenticabili di degarmo o dei suoi assoli, è un disco diverso e quel titolo non deve sviare.
’i’m american’ non può neanche sognarsi la cazzimma di ‘revolution calling’ ma non è una brutta apertura, aggressiva e trascinante nonostante l’orrenda drum machine, però è con la tripletta successiva che il livello si alza davvero.
‘one foot in hell’ ci riporta in strada con nikki con una bella strofa tesa e un ritornello tutto da cantare, il buon lavoro di chitarra di stone e slater la tiene in piedi anche se i riff non sono dei più originali. ‘hostage’ è una perla e uno dei momenti a toccare l’intensità del primo capitolo, un 6/8 disperato in cui chitarre pulite e distorte si intrecciano come ai vecchi tempi e tate regala un’interpretazione degna del suo nome, drammatica e profonda; è anche uno dei pochi pezzi in cui si sente il basso, non ci è dato sapere chi lo abbia suonato. è con ‘the hands’ però che si tocca l’apice del disco, un pezzo finalmente con dei riff degni del nome queensryche, bellissime melodie di voce e un’atmosfera davvero figlia del primo capitolo, complice anche la paracula citazione di ‘breaking the silence’ posta in apertura.
la parte centrale dell’album scende un po’ come intensità, con ‘speed of light’ che ruba il riff di ‘kashmir’ mentre ‘signs say go’ e ‘re-arrange you’ rialzano il tempo ma girano un po’ su se stesse, pezzi buoni ma non memorabili. ‘the chase’ all’epoca fece parlare molto la gente per il suo duetto tra due mostri come tate e ronnie james dio, che qui interpreta il dr.x durante il confronto con nikki; in realtà viste le premesse era lecito aspettarsi ben di più da un pezzo che dovrebbe essere anche un nodo cruciale nella trama del concept, è un altro pezzo veloce, condito da orchestrazioni cinematografiche di pessimo gusto in cui tutta l’attenzione è sul duello vocale, tanto che i riff di chitarra sono abbastanza inutili ma almeno le melodie reggono e la canzone si fa apprezzare.
‘murderer’ apre una seconda parte in cui la dimensione teatrale prende sempre più il sopravvento, lo fa però con un altro pezzo molto aggressivo con le durissime chitarre ad accompagnare un tate incazzato mentre nikki tiene dr.x con una pistola alla testa e parla con il fantasma di sister mary. la batteria finta è agghiacciante. ‘circles’ è un interludio assolutamente superfluo da ogni punto di vista, ‘if i could change it all’ una ballata sorprendentemente buona con una delle apparizioni più consistenti di pamela moore e un gran bel crescendo, purtroppo vanificato da un finale che definire “tamarro” sarebbe un eufemismo. ‘an intentional confrontation’ è poco più di un altro intermezzo con batteria finta, una scenetta da broadway che serve unicamente alla trama, ‘a junkie’s blues’ non si capisce bene cosa sia o perché sia lì, ‘fear city slide’ almeno ha qualche bel riff e un ritornello decente, poi la vicenda arriva a conclusione con quello che dovrebbe essere l’apice emotivo, la ballatona ‘all the promises’. ve la ricordate ‘eyes of a stranger’? ecco, lasciamola dove sta. qui ci si accontenta di una robetta che c’entra ben poco con il mood di ‘mindcrime’, quattro strofe messe insieme per far dialogare ancora nikki e sister mary prima della fine ma non ci sono melodie da ricordare, non ci sono chitarre indimenticabili, se c’è il basso nessuno se n’è accorto.
poteva andare molto peggio, non ci sono dubbi. poteva anche andare molto meglio, ad esempio lasciando il passato dove stava e magari producendo un nuovo concept con una nuova trama, tutto il peso sulle spalle dell’album si sarebbe alleggerito e ne avremmo goduto molto di più. se poi la tragica assenza di degarmo è un mattone da sola, l’assenza anche di tutto il resto della band diventa un tragicomico segno premonitore, oltre che un tremendo handicap per l’intero progetto.
luci e ombre per un disco che, in fin dei conti, risulta essere una delle cose migliori prodotte dai ryche senza degarmo, sarebbe stato ancora meglio se non si fosse preso responsabilità che gli competono fino a un certo punto.