lunedì 5 agosto 2019

today is the day, 'willpower'


‘willpower’ è uno dei dischi più sottovalutati della storia del rock estremo, basti pensare che senza questo disco non esisterebbero né i converge né i mastodon, giusto per citare due gruppi che hanno rubato a piene mani dal repertorio di steve austin. (e i neurosis non è detto che sarebbero arrivati a ‘through silver in blood’)
ma allora perché i today is the day non suonano sui palchi giganteschi di quegli altri là? 
come sempre i motivi sono molteplici e sicuramente alla base c’è da considerare l’isolazionismo e la misantropia di austin, lontano dalle luci della stampa e dalle pose hipster. personaggio scomodo e sfuggente, austin è stato vittima di varie sfortune nella vita che lo hanno portato a registrare alcuni dei dischi più terrificanti di sempre, prima di giungere alla summa di tutta l’oscurità con il capolavoro assoluto ‘sadness will prevail’. giusto per dirne una, proprio ‘willpower’ fu registrato appena dopo la violenta morte di suo padre in un incidente stradale nel ‘93.
un altro motivo per cui i today is the day non possono arrivare alle masse è che il loro suono non ha nulla di accondiscendente, non si è (quasi) mai ripulito ed è sempre stato secco, sgradevole e abrasivo, lontano dal suono pulitino dei mastodon (ricordiamo tra l’altro che appena prima di fondare il gruppo brann dailor e bill kelliher suonavano proprio nei today is the day, ‘in the eyes of god’ e relativo tour) e dalla compressione tamarra e sviolinate emo dei converge. dico questo non per togliere merito a questi gruppi ma per rimarcare come entrambi abbiano preso qualcosa da austin e l’abbiano edulcorato per renderlo più fruibile, le idee c’erano già tutte.

se vogliamo identificare un trittico di riferimento per il suono del gruppo, dovremmo probabilmente parlare di black sabbath, king crimson e laughing hyenas, i primi per la pesantezza dei riff e la loro malvagità, i secondi per le partiture schizofreniche, le scale usate, la destrutturazione e certe scelte timbriche, gli ultimi per la furia col sangue agli occhi, per la voce lacerata e lacerante di austin e per il tocco hardcore. certo, non mancano riferimenti ai melvins, a glenn branca, ai jesus lizard, ai blind idiot god e pure a certi pere ubu ma questo fa parte della varietà straordinaria di cui è capace il gruppo.

‘willpower’, 1994, dura mezz’ora scarsa (29:36 per la precisione) ma in questi minuti c’è una tale compressione di idee e contenuti da stendervi al tappeto. il trio è formato da steve austin (chitarre e voci), brad elrod (batteria) e mike herrell (basso).
“i’m telling you, i look at your face and i know that you’re lying!” sono le urla con cui si apre il disco: disagio, sfiducia e malessere sono alla base dei testi, alternati ad esplosioni di ego rabbiose e vendicative (si parlava di lingua ignota di recente, no?). basso e batteria introducono il brano ma l’orrore si compie con l’ingresso della chitarra, un suono unico e inconfondibile, una distorsione totale ma lontana dai canoni sia hardcore che metal, sferragliante e profonda; in tre minuti e mezzo i today is the day mettono in scena una mini-opera che stupisce con vortici chitarristici da ‘larks’ tongues in aspic’ e un’apertura maggiore inaspettata quanto instabile, presagio di ulteriori atrocità. infatti è solo l’inizio: ‘my first knife’ è aggressione fisica e psicologica, con una serie di cambi di tempo letali che tolgono il terreno sotto i piedi, ‘nothing to lose’ disperazione pura, la desolazione nella voce di steve austin prima che il finale la trasformi nel suo classico urlo stridulo e trascini l’intero brano in un baratro sonoro violentissimo. ‘golden calf’ mette in risalto un velo di psichedelia nelle chitarre stratificate con un crescendo rapido solcato dalla voce ma è ‘side winder’ a far esplodere il potenziale del disco, uno psico-dramma di 5 minuti e mezzo in continua frammentazione, una rottura di schemi e strutture che suona come un’esagerazione del ‘post’ dei fugazi con in mente i king crimson ma un suono acido, violento e corrosivo come nessun gruppo prima; l’abisso centrale porta un’aria teatrale, l’apertura della chitarra trascina tutto all’inferno prima che un maelstrom di distorsione e tempi dispari chiuda la questione.
‘many happy returns’ liricamente anticipa di un paio di dischi ‘pinnacle’, depravazione folle su una struttura secca e circolare, ‘simple touch’ dona un attimo di respiro melodico e stupisce per il tono quasi “leggero” del suono che presagisce il peggio. e il peggio non si fa aspettare, ‘promised land’ è uno tsunami emotivo che travolge con un riff enorme, si placa un attimo e poi si getta nelle rapide turbolente con continui cambi di tempo spiazzanti, linee di chitarra aliene e dissonanti e riff clamorosi. la desolazione di una ‘amazing grace’ persa nel riverbero pone fine a un disco sfaccettato, viscerale, psicologico e sfiancante dopo mezz’ora di assalto. (‘sadness will prevail’ dura 2 ore e 25, così, per ricordare)

i today is the day sono post-tutto, sono la carcassa agonizzante del rock al pari dei primi earth e allo stesso modo sono una tappa imprescindibile del percorso del genere: la fine. incredibile come la creatività di austin abbia mantenuto il gruppo su livelli di eccellenza almeno fino al 2002, molte band si sarebbero ritrovate a corto di idee ben prima. lui invece ha continuato a lavorare sul suono, sulle strutture e sul messaggio, girando continuamente in tour con concerti devastanti ma tenendosi lontano da pose e buffonate, di fatto auto-confinando i today is the day nel ruolo di band di culto, imitata da moltissimi ma citata da pochi. la vita, la depressione e le tragedie hanno fatto il resto.

volevate della speranza? peccato, è appena finita. qui però c’è un disco da sviscerare e sapere a memoria.