lunedì 24 giugno 2019

santana, 'africa speaks'


non dovremmo più stupirci di certe cose. voglio dire, carlos santana... checcazzo, ha scritto la storia del rock, ha scritto alcuni dei dischi più belli di sempre (‘abraxas’ o ‘caravanserai’ da soli bastano per entrare nella leggenda), anche se poi ha pubblicato un po’ troppa merda ha saputo rialzarsi intelligentemente con ‘supernatural’ e la sua parata di ospiti, ha perfino resuscitato quasi tutta la line-up originale per quel ‘santana iv’ di qualche anno fa che alla fine ha deluso un po’ tutti. di cosa dovremmo stupirci quindi? del fatto che il vecchio baffo con ‘africa speaks’ rialza la testa e mette a segno il suo disco migliore almeno dai tempi di ‘supernatural’ stesso.

49 canzoni registrate in 10 giorni, quasi tutte in singole take poi sapientemente selezionate e prodotte dal mago rick rubin e ridotte a 11 per un totale di 65 minuti di musica. sì, un po’ troppi alla fine ma nulla di tremendo.
una novità interessante è la partecipazione della cantante spagnola buika come lead per tutto il disco, niente parata di ospiti e un ritrovato senso di fluidità nell’ascolto, oltre a dare spazio ad una cantante incredibile dal timbro particolare marcato da un’emotività profonda e spirituale. 
il punto focale del disco è, ovviamente, la musica africana, i suoi poliritmi, i suoi rituali, i meccanismi di botta e risposta, un incedere tribale bello aggressivo e lanciato (finalmente cindy blackman riesce a convincere con una prestazione notevole).
l’inizio è emblematico, ‘africa speak’ parte con percussioni dilatate che lentamente vanno a creare un tappeto ritmico su cui si svolge il pezzo in crescendo, con un sublime lavoro di arrangiamento. anche la chitarra riacquista tono e vigore, con un suono moderno e un po’ più blues del solito (anche nei fraseggi), meno ovattato e meno distorto ma senza perdere un grammo del suo inconfondibile carattere. ‘batonga’ è un’orgia di suoni e colori solcata dall’hammond di david mathews, ‘oye este mi canto’ culla nel ritmo dondolante prima di un cambio repentino che inietta il rock e lancia carlos in un assolo strappamutande, ‘yo me lo merezco’ cresce continuamente sfiorando territori gospel in un finale da brividi per poi lasciare il posto a ‘blue skies’, un jazz-bossa-afro-blues fumoso e coinvolgente che esplode in un solo blues rock da manuale (unico momento in cui avrei voluto un batterista diverso) prima di sciogliersi in una deliziosa coda lunare.
l’influenza africana per una volta non è dichiarata tanto per, il gruppo sfrutta i suoi vari meccanismi, le clave ritmiche si distanziano quasi sempre da quelle classiche cubane/sudamericane abusate dal gruppo in passato e prendono invece l’andamento in 6/8 largo ma aggressivo tipico del continente nero, le voci sono usate in maniera diversa dal solito, meno festose e più rituali e anche le parti funk (la strepitosa ‘paraìsos quemados’ in cui si sente l’influenza del miles davis dei primi ‘70) suonano molto più afro che americane.

c’è qualche pezzo meno interessante, ‘breaking down the door’ cerca la forma canzone ma non ha la verve del resto del disco, ‘les invisibles’ si fregia della partecipazione di steve hillage (gong, khan, etc) come compositore, è un hard funk che mantiene l’aggressività ma non convince del tutto, ‘luna hechicera’ ha un piglio decisamente più rock ma è un pochino stucchevole, nulla di tragico ma nella seconda metà il disco si siede un pochino. ci si riprende con la bella ‘bembele’, un pezzo soffuso e notturno dal groove cazzutissimo su cui carlos può fraseggiare leggero e ispirato mentre nel finale torna prepotente l’africa con l’esplosiva ‘candombe cumbele’, dominata dall’intreccio di percussioni e dai cori ma ancora solcata dall’ispiratissima chitarra di carlos.

il basso di benny rietveld è spesso in primo piano con pedali dal groove micidiale e un suono tondo e pieno ma quello che emerge più di tutto è un insieme (registrato live in studio) coeso, compatto e impastato in un mix semplice ed efficace, per una volta non rovinato da un master sovracompresso ma bello arioso; risultato? finalmente si sente il suono di un gruppo che suona insieme e non la sovrapposizione di tracce digitali.
lungi dall’essere un disco perfetto, ‘africa speaks’ si impone almeno come il miglior disco da ‘supernatural’; rispetto a quel colossal però rinuncia alla super produzione e al motocarro di ospiti, preferendo una dimensione live che dona maggior vita alla musica. va inoltre apprezzato come il concept africano si rifletta profondamente nella musica e aiuti a mantenere un’evidente unità d’intenzione per tutto l’album che non cerca mai il singolo d’effetto (di fatto si discosta quasi sempre dalla forma canzone) ma crea un flusso sonoro che rapisce come ai bei tempi.
bravo carlos, daje.