giovedì 5 settembre 2019

tropical fuck storm, 'braindrops'



è passato esattamente un anno da quando ‘a laughing death in meatspace’ è arrivato come un uragano e si è imposto come miglior disco rock del 2018. dopo un tour pressoché infinito, che li ha portati anche dalle nostre parti con una breve quanto intensa esibizione al beaches brew di marina di ravenna, i tropical fuck storm tornano sul mercato con ‘braindrops’. 

mettiamo le cose in chiaro: il disco è grandioso e mantiene le coordinate sonore del suo predecessore ma cambia la cornice, l’atteggiamento ed anche i contenuti.
tanto per cominciare scompare quasi del tutto quel sorriso sardonico che spuntava a più riprese nell’esordio, qui il suono del gruppo, obliquo, dissonante e scordato ai limiti dell’atonalità, si sposa con un’emotività profonda, sincera e lancinante, la voce di liddiard è sfibrata e distrutta, porta nelle sue parole la stanchezza di un vivere nero e malsano. i testi stringono il cerchio, da un’osservazione (più o meno) critica della realtà (che comunque non manca in ‘braindrops’ o ’the planet of straw men’) si passa all’introspezione e ai rapporti personali, cambiano anche le dinamiche negli arrangiamenti con liddiard meno istrione e un gruppo più compatto che implementa le dinamiche dei brani.

si può intuire tutto dall’apertura di ‘paradise’, un lento crescendo con le chitarre che sembrano vagare senza direzione, così come i due personaggi del testo girano attorno al problema senza mai risolverlo; quando il ritornello inizia quasi non ce ne si accorge da quanto è naturale il passaggio. in generale non è un disco di ritornelli, ancora meno di ‘meatspace’: in ‘braindrops’ c’è una sorta di (e mi sento stronzo solo a pensarlo) post-destrutturalismo, non c’è intenzione di fare a pezzi perché tutto è già a pezzi, si costruisce con brandelli, frammenti e pezzi trovati a terra. 
è un rock meno alieno di 'meatspace' ma più mutato, talvolta segue più certe logiche di cantautorato che non di canzoni pop, graffia coi suoni ma avvolge nel torpore con un effetto desolante.
‘paradise’ è uno dei brani migliori ma a fargli compagnia ci sono il delizioso finto pop di ‘who’s my eugene’, cantata da erica dunn e ispirata dalla relazione tossica tra brian wilson dei beach boys e la psichiatra eugene landy, l’intreccio di botta e risposta di ‘the happiest guy around’, i continui mutamenti della splendida ‘braindrops’ (sui pro e contro della gentrificazione, in particolare dei quartieri di melbourne) e soprattutto la drammaticità inarrestabile della conclusiva ‘maria 63’, racconto di un immaginario incontro fra un agente del mossad e maria orsic, figura mitologica del nazismo che avrebbe avuto poteri sovrannaturali e contatti con gli alieni. il testo è come sempre molto intelligente e mai banale, lascia addosso una sensazione di sporco per la mania moderna di mitizzare qualsiasi cosa, al di là del bene e del male, quello che però colpisce allo stomaco è la forza della musica, unità all’interpretazione di liddiard che nel finale diventa una cosa sola con i cori prima di un’esplosione violentissima che promette fuoco e fiamme dal vivo.

se si può fare una critica al disco è che i suoni, decisamente più fangosi rispetto all’esordio, non sempre valorizzano i brani con una spinta forse eccessiva sul lo-fi (e una compressione killer sulla batteria che a volte funziona e a volte no). 
a parte questo ci troviamo di nuovo di fronte a un disco pazzesco che conferma i tropical fuck storm come una delle realtà più creative, vitali e genuine del panorama rock odierno.