domenica 21 luglio 2019

lingua ignota, 'caligula'



kristin hayter spicca il volo. se i precedenti capitoli come lingua ignota erano già interessanti ed originali, ‘caligula’ parte per la tangente e lascia tutti a casa.
c’è gente che fa rumore per il gusto di farlo, altri lo fanno in maniera ignorante per esprimere quel senso di bestialità primitiva; kristin hayter ha una cultura musicale enorme, ha alle spalle studi accademici che le permettono un totale controllo del suono, oltre ad avere una delle voci più profonde, emotive e sconquassanti che possiate ascoltare in una biondina piccola e magrolina. quando lei fa rumore, vi arriva direttamente allo stomaco come un calcio; questo perché sa come fare male, ha trovato una formula perfetta per rendere in musica l’oscurità del male di vivere, la frustrazione, la rabbia cieca e la desolazione più completa. lei il rumore lo usa per dare un messaggio che sa di dolore e vendetta.
ha dalla sua parte l'abisso e un carattere unico, per quanto a tratti prosecuzione del lavoro svolto da diamanda galas negli anni (la voce arriva spesso da lì, il trambusto emotivo pure così come molte tematiche dei testi, si ascolti ’sorrow! sorow! sorrow!’).

‘caligula’ arriva a due anni da ‘let the evil of his own lips cover him’ e ‘all bitches die’, episodi già notevoli ma che lasciavano ampi margini di miglioramento (già incredibili e massacranti invece le esibizioni live).
qui c’è più focus che nelle uscite precedenti, c’è più elaborazione, molta più stratificazione sonora e un’ispirazione solida e più in controllo, sia timbrico che strutturale; soprattutto c’è una maggiore confidenza col materiale che rielabora minimalismo, black metal, avanguardie del primo novecento, doom, folk, cantautorato, ambient, teatro, noise e drone.
l’iniziale ‘faithful servant friend of christ’ mette in chiaro il cambio di rotta: c’è più pienezza nelle tessiture e nei timbri, c’è un gioco di armonie vocali pagane (una sontuosità che spesso riporta a rituali da chiesa ortodossa e in generale riferimenti all’est europeo che talvolta sembrano arrivare da bartok), tutto sorretto da un drone vibrante e dalle ondate degli archi.
il capolavoro del disco si chiama ‘do you doubt me traitor’ ed è il secondo pezzo. nei suoi 9 minuti e mezzo è racchiusa tutta l’estetica del progetto lingua ignota: dolore, magniloquenza, disperazione, distorsione e un testo che ha la ferocia di un animale gravemente ferito (“bitch, i smell you bleeding/and i know where you sleep/do you doubt me traitor?/throw your body in the fucking river”), tutto steso su una struttura cangiante con un finale giocato sulle armonie vocali che è semplicemente da brividi.
'butcher of the world' spinge sull’epicità, cori, organo e un’esplosione che sta tra il black metal, l’ambient e i dead can dance in un perfetto gioco di pieni e vuoti; l’uso degli accordi mostra quel controllo di cui parlavo, con minuscole oasi maggiori calibrate alla perfezione (una cosa un po’ alla trent reznor volendo, altra ombra che ogni tanto compare soprattutto nelle scelte armoniche).
la già citata ’sorrow! sorow! sorrow!’ è una landa desolata in cui i vocalizzi guidano verso la tensione circolare di ‘spite alone holds me aloft’ che si apre in un ambient/black metal lontano quanto disperato per poi finalmente esplodere epica e gigantesca e risolvere le tensioni in un altro vortice di voci.

ci sono momenti celestiali in mezzo ai brani in cui hayter gioca con armonie vocali sbilenche, un tocco di lisa gerrard (in paranoia sotto anfetamina) che talvolta affiora a rischiarare la quasi totale oscurità regnante. il finale di ‘fragant is my many flower’d crown’ è emblematico in questo senso, così come il contrasto con l’esplosione drone della successiva ‘if the poison won’t take you my dogs will’ che a tratti pare kate bush (o tori amos?) che fa una cover da ‘the drift’ di scott walker (sempre sia benedetto).
nonostante il rumore e l’abrasività, c’è una grande attenzione alla melodia come contrasto alle parti più urlate, una contrapposizione che risulta efficace lungo tutto il disco (sfruttata anche dal vivo con l’allucinata cover di ‘jolene’ di dolly parton).
c’è dinamicità nei pezzi: per quanto gli espedienti si basino molto spesso sul contrasto dinamico, le timbriche cambiano, ci sono pianoforte, organo, clavicembalo, archi oltre all’arsenale di effettistica e momenti più “canonici” con anche una batteria, prestata da lee buford dei the body. 
altri ospiti sono sam mckinlay (fautore di un noise estremo) e le voci di dylan walker (full of hell), mike brendan (uniform) e noraa kaplan (visibilities), gente che negli ultimi anni ha pubblicato materiale estremo tra il migliore in circolazione, senza dimenticare l’ingegnere seth manchester che ha guidato hayter durante le registrazioni con tecniche alternative e fonti sonore tra le più disparate.

le esplosioni finali di ‘i am the beast’ scaricano tutta la tensione in un mare di suoni dal volume catartico prima di congedarsi con una cadenza maggiore. insomma, ‘caligula’ è un’opera in cui kristin hayter compie un altro passo verso la maturità artistica, sacrificando forse un po’ di istinto omicida nel nome di un controllo (sovra)strutturale che l’ha portata a un disco potente, profondo, ricercato e intelligente ma anche sincero, mai freddo e dallo spiccato carattere. 
applausi a scena aperta, mi tolgo il cappello di fronte a tanta maestria, un altro candidato al titolo dell'anno.