mercoledì 8 luglio 2020

pain of salvation, 'the perfect element'


il 1999 aveva salutato con un disco emblematico, quel ‘metropolis 2’ che riassumeva 30 anni di progressive in un pacchetto formalmente perfetto (tanto da far storcere il naso a molti), un bigino su tutto ciò che il genere era stato; potremmo quasi considerare sintomatico il fatto che l’anno successivo siano usciti almeno due dischi che hanno mostrato una nuova via al prog (-metal): ‘disconnected’ dei fates warning e ‘the perfect element’. ma se jim matheos e soci avevano una carriera di quasi vent’anni e otto dischi alle spalle, i pain of salvation erano al terzo album e in pochi se li cagavano.

c’è chi ha azzardato una definizione di “emo-prog” per questo album che, per quanto ridicola e futile, porta a rimarcare la fortissima componente emozionale che marchia le produzioni di gildenlöw e soci. in questo caso poi il tutto è focalizzato da un concept che parte dall’incontro fra due individui “rotti” dalla vita per occuparsi di temi quali abuso, aborto, gioco d’azzardo, violenza e redenzione. sì, un pelo più profondo di ‘the spirit carries on’.
i faith no more sono sicuramente un’influenza e nell’iniziale ‘used’ si fanno sentire, un pezzo durissimo in cui daniel si esibisce in un rap violento, interrotto dalla celestiale apertura del ritornello e con una coda in crescendo che trasporta immediatamente nel clima cupo e disperato del disco. se ’used’ presenta con irruenza il personaggio maschile, ‘in the flesh’ fa ancora meglio, introducendo “lei” in maniera sottile e melodica ma con una tensione che continua a crescere inarrestabile fino alla fine dei quasi 9 minuti di pezzo, con una struttura cangiante ma coesa e logica. 
‘in the flesh’ è un ottimo momento per parlare di una peculiarità fondamentale dei pain of salvation, quella sorta di anarchia che li ha resi diversi da tutti gli altri. se il progressive classico si basa sull’ordine e su una scrittura che prende molto della classica, la musica dei pos ha una componente “libera” fatta di armonie vocali assurde (che potevano cambiare nei live) e di parti strumentali che lasciano sempre ad ogni musicista il modo di personalizzare, sforando le misure o interagendo tra gli strumenti in maniera creativa. è progressive con una componente umana molto accentuata, non suona mai freddo o editato digitalmente, ha un calore alla base che coinvolge e commuove.
e quindi poi arriva ‘ashes’, uno dei pezzi più famosi di tutta la carriera, ballata cupissima che strappa la pelle per raccontarci come “lui” e “lei” si sono incontrati. il riff melodico iniziale è magistrale, un intreccio di tre melodie diverse (due chitarre e piano) che unite ne creano una completamente nuova su cui si costruisce il pezzo, un drammatico crescendo dal ritornello memorabile e un solo di chitarra straziante. non è da meno la successiva ‘morning on earth’, ancora una melodia indimenticabile a sorreggere una ballata lirica e larghissima, dal ritornello aperto e luminoso, un bagliore in mezzo all’oscurità dell’album.

la seconda parte del disco non molla la stretta, anzi. ‘idioglossia’ aggredisce con un riff contorto e veloce che cambia tempo nelle sue ripetizioni, tutto il pezzo è claustrofobico e compresso.’her voices’ è un altro gioiello in cui la drammaticità di strofa e ritornello cresce fino a uno special meraviglioso in cui melodie dal sapore orientale si incastrano su tempi dispari, un momento di intensità indescrivibile. ‘dedication’, scritta per il nonno defunto poco prima delle registrazioni, è l’unico brano trascurabile, per quanto la sua intensità non faccia calare minimamente la tensione del disco, grazie anche ai deliziosi contributi pianistici di fredrik hermansson. non è invece certo trascurabile ‘king of loss’, tesa come una corda di violino, violenta, perennemente all’ombra di un disastro incombente ma melodica e larga negli arrangiamenti, straziata da anarchiche armonie vocali e satura come la pece nelle sue esplosioni di rabbia. da notare la prestazione maiuscola di kristoffer gilndelöw al basso fretless, una mano incredibile che passa da groove trascinanti a distorsioni giganti senza mai perdere un gusto melodico personale ed originale.

il terzo capitolo si apre con ‘reconciliation’, una ripresa del tema di ‘morning on earth’ che però esplode in uno dei brani più diretti del disco: per quanto i tempi dispari e i cambi stronzi si susseguano, il pezzo si basa su una struttura più semplice e rock, ancora guidata dalla voce di daniel che nel finale tocca altezze disumane. ‘song for the innocent’ è delicata e lontana ma sfocia in un solo urlato mentre ‘falling’ è il vuoto prima del gran finale, ‘the perfect element’. se c’è un pezzo che possa rappresentare tutta la storia dei pain of salvation, questo è sicuramente un candidato. cupo e oppressivo ma sempre su metriche spiazzanti, delicato e toccante nelle sue aperture, epico nel crescendo di voci centrale, duro e incazzato nei climax, dieci minuti in cui ogni strumento sparisce e si fa parte di un insieme unico, diretto verso il caotico finale percussivo.

le critiche che si possono fare al disco riguardano soprattuto registrazione e mix: lungi dall’essere perfetti, difettano soprattutto nella sezione ritmica, sottile e a tratti un po’ soffocata. poi c’è un po’ di tendenza al sovrarrangiamento ma è un problema imputabile al 90% dei dischi prog per cui non rovina l’ascolto, vista la qualità media della musica.
‘the perfect element’ è un vero e proprio miracolo progressive, uscito in un momento in cui il genere boccheggiava e aveva assoluto bisogno di una ventata d’aria nuova. è il primo vero capolavoro di una formazione compatta e creativa che ancora non aveva finito le sue munizioni. manco per il cazzo.