venerdì 10 luglio 2020

pain of salvation, '12:5'


per molti gruppi il primo disco dal vivo è un modo per pubblicare un best of “mascherato”, per altri invece è l’occasione per mostrare al pubblico la propria dimensione live. ovviamente per i pain of salvation non è così, ’12:5’ è molto più di un disco live, è una delle loro opere più riuscite ed uniche. registrato in un contesto intimo, con poco pubblico il 12 maggio del 2003 a eskilstuna, documenta un concerto in cui il gruppo ha completamente riarrangiato il proprio repertorio in chiave acustica, costruendo dei grossi medley in cui brani, temi e melodie si incrociano, si rincorrono e si riprendono continuamente, dando di fatto un nuovo significato alle canzoni, oltre a una nuova veste sonora.

liberi dalla distorsione e saturazione degli strumenti elettrici, finalmente i suoni sono aperti, brillanti e adatti al contesto, valorizzando ogni passaggio strumentale o vocale. ecco, le voci. ho parlato più volte dell’approccio strambo che i pos hanno verso le armonie vocali, qui questa peculiarità viene prepotentemente in primo piano, con intrecci di tre-quattro voci ora dissonanti, ora celestiali, sempre compatte ma libere, una delle migliori prove della creatività inarrivabile del gruppo. poi certo, la voce di daniel è grande protagonista, sentirlo interpretare i brani in maniera soffusa ma libera (molto blues nell’approccio) è una goduria dall’inizio alla fine.
altrettanto formidabili sono le prestazioni agli strumenti: se la batteria di langell è un po’ legata a causa delle dinamiche, basso e chitarre sono un fiume di idee, contrappunti e incastri ritmici incredibili, punteggiati e “drammatizzati” da hermansson (in continua crescita) al piano e clavicembalo.

il primo e l’ultimo dei tre capitoli sono quelli in cui i brani si mischiano, due grossi blocchi di musica in cui troverete brandelli di ‘leaving entropia’, ‘this heart of mine’, ‘her voices’, ‘second love’ e pure ‘idioglossia’. nonostante il contesto acustico, l’energia non manca, soprattutto grazie alle chitarre che giocano con groove, ritmiche ed arpeggi in maniera dinamica e coinvolgente, ben lontani dai tristi arrangiamenti “da spiaggia” in cui molti musicisti cadono in queste situazioni. ci sono momenti di jam acustica in cui l’interazione tra i musicisti crea trame in continuo movimento per poi infilarsi inaspettatamente nel brano successivo; se il concetto di partenza è molto vicino al progressive, il risultato finale è qualcosa di diverso e difficilmente definibile. assolutamente da sentire poi la versione di 'ashes' in maggiore, una trovata fantastica che cambia completamente i connotati sonori del brano.
il secondo capitolo è quello con brani “interi”, non fusi insieme; qui prendono vita nuove eccezionali versioni di ‘winning a war’, ‘chain sling’, ‘undertow’ o ‘reconciliation’ (con tanto di citazione di ‘star wars’ in mezzo), tutti brani che in questa nuova luce assumono tratti sfumati e leggeri ma non perdono un grammo della loro intensità. 

difficile quindi considerare ’12:5’ semplicemente come un live, di fatto per il contesto e l’evidente preparazione e sforzo (ri)compositivo questo è un disco che ha ogni diritto di stare tra i capolavori del gruppo, uno dei loro momenti di massima creatività e personalità, una di quelle cose che solo loro potevano fare. da qui in avanti le cose inizieranno a cambiare.