martedì 7 luglio 2020

pain of salvation, 'one hour by the concrete lake'


a un solo anno di distanza da ‘entropia’, i pain of salvation colpiscono duro con il secondo album, ‘one hour by the concrete lake’, il loro disco più sociale e impegnato.
l’unica differenza nella formazione è la defezione di magdic (non era pronto a stare dietro alla band in rapida crescita) e il conseguente arrivo di johan hallgren, ottimo chitarrista ed eccellente seconda voce che completa la formazione “classica” del gruppo.

‘one hour’ è un concept che parte da uno spunto semplice (un uomo che lavora nell’industria delle armi decide di lasciare il posto per viaggiare e vedere le conseguenze del suo lavoro nel mondo) per andare a toccare una moltitudine di temi sociali, dalla guerra alla mancanza d’acqua alla segregazione razziale per giungere agli effetti devastanti delle scorie nucleari (il lago karachay in russia, usato così tanto come discarica di rifiuti nucleari che un’ora sulla sua sponda può uccidere un uomo, da cui il titolo del disco). tutto questo viene riportato in maniera abbastanza distaccata, con tanto di fonti citate nel booklet, come a ribadire un lato “giornalistico” della storia. 
musicalmente ci sono vari passi avanti rispetto a ‘entropia’. il suono è cambiato, è tagliente, molto cupo e quasi sgraziato (a dirla tutta la batteria suona abbastanza male), questo porta una maggior coesione all’album e più carattere ai pezzi; la composizione è nettamente più a fuoco, meno idee per pezzo ma meglio incanalate, un modo di leggere il progressive che sta a metà strada tra il neo-prog più melodico e il prog metal tecnico: non mancano parti strumentali complesse e strutture labirintiche ma quello che si fa ricordare più di tutto è l’originale profilo melodico che qui trova il compimento non del tutto riuscito su ‘entropia’.

il trittico di pezzi che forma la prima parte è rimasto nelle scalette live per anni e sono tra i migliori pezzi del gruppo: ‘inside’ infila una melodia più bella dell’altra mentre le linee strumentali si contorcono (netta l’influenza dei rush nel riff principale), ‘the big machine’ si fa soffocante, tesa e stranamente epica mentre ‘new year’s eve’ è quasi una mini-suite da cinque minuti e mezzo che passa da una strofa dalla ritmica convulsa a un ritornello aperto e malinconico per sfociare in uno special centrale epico e disperato.
la seconda parte del disco è la meno incisiva, pur non mancando di momenti eccezionali, soprattutto in ‘handful of nothing’ e ‘home’, mentre la terza è decisamente la più eclettica e torna a livelli altissimi con i profumi mediorientali di ‘black hills’ (che ritroveremo in futuro, ad esempio in ‘her voices’), la bella ballata acustica ‘pilgrim’ e soprattutto il grandioso finale con ‘inside out’ che riesce a far convivere un’urgenza sfrontata (tempi veloci e doppia cassa smetallante) con melodie trasognate e oblique, sia nelle voci che nelle chitarre; l’oasi dilatata al centro del pezzo la rende una perfetta controparte dell’iniziale ‘inside’.

non siamo ancora alla perfezione ma ‘one hour’ è il primo disco dei pain of salvation a mostrare veramente i denti, a mettere in tavola quello che sarà il suono della band nella sua epoca d’oro. per una decina d’anni inizieranno a susseguirsi una figata dietro l’altra.