domenica 26 aprile 2020

rush, 'hold your fire'


‘hold your fire’ ha una contraddizione alla base: è un disco che parla di istinto senza avere assolutamente nulla di istintivo. parla di rabbia, istinto omicida e fuoco ma suona patinato, digitale e distante. questo di per sé non è un bene o un male, non fosse che a tratti suona quasi poco sincero.

se ‘power windows’ era prodotto e laccato, questo disco lo è ancora di più, con un arsenale impressionante di strumenti utilizzati (decine tra synth, controller e sequencer, 4 set di batteria acustici più pad simmons e sampler akai, oltre naturalmente a bassi e chitarre), ospiti (aimee mann, andy richards, una sezione di ottoni) e studi prestigiosi (tra cui ancora l’air studio di george martin).
ancora una volta il punto di forza principale è la qualità delle composizioni: ‘force ten’, ‘time stand still’, ‘open secrets’, ‘mission’ o ‘turn the page’ sono tutti pezzoni da best of, ognuno con le sue caratteristiche specifiche, cosa che dal disco successivo inizierà a farsi meno evidente.

siamo ancora in pieni ’80 come suono, le tastiere sono onnipresenti ma ora la chitarra è di nuovo in primo piano, finalmente l’equilibrio fra tradizione e innovazione si fa evidente, nonostante ormai la composizione dei rush sia distante anni luce dalla loro stessa tradizione (di pezzi lunghi non se ne vedranno mai più e per un nuovo strumentale bisogna aspettare ancora un paio di dischi). le melodie vocali di geddy sono zuccherose ma efficaci, graziano sia la splendida ‘open secrets’ dal suono lunare e aperto che ‘time stand still’, dove nel ritornello compare la voce angelica di aimee mann, prima donna partecipante a uno dei più grandi sausage fest della storia.
‘mission’ è una sorta di autobiografia/dichiarazione di intenti, una bella melodia aperta la regge fino al break centrale, unico momento in cui ombre progressive si affacciano sulla musica con addirittura una melodia ritmica doppiata da una marimba. pare che in un momento di follia peter collins abbia voluto provare a sovraincidere sul brano una banda di paese, per fortuna non ci è dato di sentire questa cosa ma si apprezza il coraggio del tentativo, la sezione di ottoni che sostiene il tappeto armonico è abbastanza. personalmente ho sempre preferito ‘turn the page’, un brano retto dal tono nasale del basso nevrotico di geddy che si contorce continuamente in un arrangiamento bellissimo con lifeson libero e dissonante a dare pennellate apertissime prima di farsi protagonista di un altro grandissimo solo dal suono bello maleducato.

‘tai shan’ è nata come un esperimento di composizione e forse sarebbe stato meglio se fosse rimasta dov’era, candidandosi di fatto per la top 5 dei pezzi più brutti della carriera dei rush: caramellosa e dalla spiritualità un po’ da negozio di souvenir, è l’incarnazione perfetta della contraddizione del disco, cerca profondità e contaminazione senza alzarsi da una poltrona in pelle. ‘high water’ chiude il disco ma non è certo memorabile.

‘hold your fire’ è un punto di arrivo, senza dubbio: le canzoni ora sono puramente canzoni, scevre da orpelli e con l’attenzione strumentale rivolta agli arrangiamenti e finalmente i rush arrivano alla tanto agognata sintesi tra vecchio e nuovo, analogico e digitale, arrivano alla miglior produzione mai avuto fino a qui… eppure tutta questa tranquillità influisce sui pezzi che, pur non sempre, risultano troppo distanti e artefatti. è un gran bel disco ma raramente lo troverete citato tra i preferiti di qualcuno e infatti subito dopo i rush torneranno in parte sui loro passi con ‘presto’.