domenica 5 aprile 2020

rush, 'signals'



tutto cambia, i rush ci hanno già abituato a questo. i fan si aspettavano un evoluzione da ‘moving pictures’ e l’hanno avuta; è andata come volevano? manco per il cazzo.
due fattori hanno portato alle canzoni di ‘signals’, altri due al suo suono aspramente criticato. 
partiamo dalle canzoni: primo, la linea arriva da ‘permanent waves’, da quella voglia di staccarsi dalle lunghe suite e concentrarsi di più sul formato canzone; secondo, la composizione cambia drasticamente quando geddy inizia ad interessarsi sul serio dei synth, scrivendo molte delle canzoni sui nuovi strumenti.
i due fattori ‘sonori’ invece sono ciò che ha sbilanciato il disco e l’ha portato ad essere il più debole lì in mezzo: come prima cosa c’è stata la difficoltà da parte di terry brown di inserirsi nel nuovo suono dei rush, le troppe tastiere lo spiazzarono al punto che questo fu il suo ultimo disco col gruppo. come secondo fattore ci fu invece un errore grossolano da parte proprio della band che lasciò che geddy scrivesse con le tastiere e le registrasse prima delle chitarre, riempiendo ogni momento e togliendo tutto lo spazio ad alex che si ritrovò frustrato a cercare arrangiamenti che funzionassero. 
inoltre, dopo le produzioni soniche spettacolari di ‘waves’ e ‘pictures’ era lecito aspettarsi un altro passo avanti mentre invece il mix di ‘signals’ è confuso e un po’ fangoso, annega le chitarre nei synth e perde in potenza e ariosità, penalizzando le canzoni.

ovviamente non stiamo parlando di una schifezza, è un disco ben più che sufficiente, fosse anche solo per l’evidente ricerca di evoluzione da parte dei tre. oltre a questo ci sono almeno due canzoni tra le più belle del repertorio del gruppo, ‘subdivisions’ e ‘the analog kid’, che comunque in futuro potranno risplendere dal vivo in versioni di gran lunga superiori a queste.
‘subdivisions’ si occupa di isolamento, mobbing e bullismo, è oscura e disperata, trainata dai suoni digitali delle tastiere di geddy e da un arrangiamento di batteria pazzesco che fagocita bill bruford e stewart copeland e presenta un nuovo neil peart, meno funambolo ma molto più accorto e coscienzioso nella costruzione delle sue parti. il ritornello crea un pattern melodico-ritmico a cui il gruppo tornerà spesso durante gli anni ’80.
‘the analog kid’ è uno dei pochi momenti in cui lifeson emerge un po’ di più, grazie soprattutto al vertiginoso riff che apre la canzone. il testo è molto interessante se posto di fianco a quello di ‘digital man’: nella prima abbiamo un ragazzo che si innamora e viene travolto dalle emozioni, nella seconda un uomo freddo e calcolatore, un’analisi comparativa tra segnali (da cui il titolo del disco) analogici e digitali che interessa tutto l’album e ne rappresenta forse il lato più riuscito, visto che la stessa lotta sul piano musicale viene dominata involontariamente dal versante digitale. a parte tutto questo, ‘the analog kid’ ha un ritornello che prende allo stomaco, con un’apertura epica che verrà esplorata su ‘hold your fire’.

quindi il resto è un pacco? ovviamente no, parliamo dei rush, roba propriamente brutta non ne trovate. in compenso troverete un sacco di influenza dei police in pezzi come ‘chemistry’, ‘digital man’ o ’the weapon', nelle ritmiche (spesso si sentono profumi reggae), negli arrangiamenti e soprattutto nelle scelte di suoni e di voicing di lifeson, molto vicini agli esperimenti di summers. 
in generale è un suono molto più scuro e “triste” rispetto ai dischi precedenti, c’è un senso di minaccia che incombe per tutto il disco, con annessi discorsi su guerra fredda, terrore e rivoluzione digitale. quello che viene  mancare è un altro picco musicale: dopo i primi due pezzi la qualità si assesta su un buon livello ma non se ne discosta mai davvero, a parte forse per l’ottima ‘losing it’, molto atmosferica e riuscita nell’accostamento tra un arrangiamento fitto e dinamico e linee di voce sospese che fluttuano sopra al mare di suoni.

non è un brutto disco ‘signals’ ma, come detto, un paio di errori ne hanno minato la riuscita, lasciandolo con poco mordente e un vago senso di incompiutezza qua e là. resta comunque un album godibile, ben suonato e con almeno un paio di pezzi formidabili.