giovedì 23 aprile 2020

shabaka and the ancestors, "we are sent here by history"


“we are sent here by history” è un disco non solo superbo ma significativo. 
innanzitutto per shabaka hutchings perché segna, ad oggi, il suo capolavoro, punto di incontro tra la visceralità dei sons of kemet e la spiritualità dei the comet is coming, tenendo al centro la spiccata fisicità della sua musica, quel treno ritmico che fa sudare orrendamente.
se consideriamo poi che hutchings è uno tra i migliori esponenti di un “new jazz” che ormai si delinea con dei contorni piuttosto netti, di conseguenza ‘we are sent here by history’ è un disco significativo per la scena intera perché riunisce e dà una forma compiuta alla maggiorparte degli elementi che la contraddistinguono: radici africane in primo piano, ritmicità convulsa, solismo lirico, equilibrio dialogico tra jazz e altri suoni e una forte convinzione nei propri ideali. va inserito nel contesto dei lavori di matana roberts, del recente wadada leo smith, degli irreversible entanglements (stupendo il loro “who sent you?” di quest’anno) ma anche degli harriet tubman di “araminta”, tutta quella musica di matrice africana che oggi si sta facendo sempre più guerrigliera nel celebrare la comunità, lo stare insieme, il gruppo di umani come fonte di energia. 
tutto questo chiaramente senza dimenticare i riferimenti classici, che nello specifico possono essere coltrane, archie shepp, fela kuti, mulatu astatke o bheki mseleku (musicista sudafricano adorato da hutchings, da ascoltare il suo “celebration” del ’92) ma i profumi sparsi nella musica sono una moltitudine infinita. poco ornette coleman invece, lo sviluppo melodico di shabaka è di tipo nettamente diverso e la sua musica segue altre logiche, piuttosto a tratti si può sentire la luminosità di certo sun ra o la feroce foga di un album come “we insist!” di max roach.

dicevo che c’è un radicamento evidente nella tradizione, il disco (come l’esordio “wisdom of elders”) è registrato in sudafrica con musicisti locali e brani come “we will work (on redefining manhood)” sono figli tanto delle tradizioni nguni quanto dei tempi moderni, nel loro emergere come melting pot “totali”. 
l’organico del sestetto oltre a hutchings vede mthunzi mvubu al sax alto, slyabonga mthembu alle voci (autore di testi e titoli, cantati in zulu, xhosa e inglese), ariel zamonsky al contrabbasso, gontse makhene alle percussioni e tumi mogorosi alla batteria.

è un canto collettivo, sembra però che questa orgia celebrativa tiri le fila della nostra storia preparandosi a una fine imminente, guardando i primi segni di un’apocalisse salutata con la gioia di un gran finale.
è anche un disco che vive della più classica dualità del jazz, quell’alternanza individuo/gruppo che è una delle basi fondanti del genere; in questo vi si può ritrovare un’attitudine spiritual, come nel continuo botta e risposta tra un predicatore e i fedeli, ma anche la riprova di come il progetto sia saldamente nelle mani di hutchings il predicatore, il fulcro della creatività, la fucina di idee.
i ritmi sono basati su clave africane (ma non mancano chiaroscuri da cuba e dai caraibi) ed hanno un andamento ciclico che trascina nel rituale come un mantra, il basso fa da propulsore e non lascia via d’uscita mentre i fiati si incrociano in melodie stupende. è un disco che percorre la linea di confine tra jazz e africa, sbilanciandosi in pochi e precisi momenti ed abbracciando un suono dai toni universali.

la sacralità del finale con “teach me how to be vulnerable” è lasciata al sax di hutchings che, sorretto solo da accordi di piano in bilico fra ellington ed evans, sembra recitare alla maniera di coltrane in “psalm”, solenne chiusura di “a love supreme”. inutile stare a fare paragoni, non ha alcun senso, di certo “we are sent here by history” è un disco che si farà ricordare per molto tempo, un instant classic che metabolizza un secolo e passa di musica nera e lo presenta al futuro, se un futuro ci sarà. non fatevelo scappare per nessun motivo.

nota: fa molto piacere vedere come la storica impulse! pubblichi oggi dischi come questo, lontani dalla musealità della blue note o dalla placida (spesso catatonica) contemplazione ecm, riconfermandosi come l’etichetta lungimirante che pubblicò capolavori come “ascension”.