nel 1984, sotto la produzione di james guthrie, arriva il primo album dei queensryche, ‘the warning’. la formazione di seattle mette subito in tavola tutte le sue carte e inizia un percorso che toccherà picchi altissimi, partendo da un disco che sa di metallo americano anni 80 fino al midollo ma che si distingue da quasi tutto ciò che gli sta attorno, incluso l’ep che lo precede.
ci sono ancora maiden e judas priest, non c’è dubbio, ma nel suono iniziano a filtrare le tentazioni hard-prog dei rush e un immaginario distopico/futuristico/teatrale che prenderà sempre più il comando negli album successivi.
l’ispirazione è già a livelli alti e non ci sono particolari cadute, in compenso gli apici del disco sono capolavori divenuti classici immortali per tutti i fan.
il primo è ‘no sanctuary’, una power ballad che prosegue la linea di ‘the lady wore black’, allargando ulteriormente le trame, lavorando sulle dinamiche e creando lo scenario perfetto per l’incontenibile prestazione di tate. subito dopo c’è il secondo, ‘nm 156’, in cui si affacciano accenni digitali premonitori degli incubi di ‘rage for order’; è un pezzo in cui i riff di degarmo sono uno più bello dell’altro, in cui la ritmica alterna gli stop and go della strofa alla travolgente velocità del ritornello e in cui iniziano ad affacciarsi anche i sintetizzatori, un brano che dopo (quasi) 40 anni ancora non ci si stanca mai di ascoltare.
e non siamo ancora arrivati ai due momenti più alti del disco. ‘take hold of the flame’ lascia senza fiato, il suo teatrale crescendo iniziale, l’apertura epica e potente e un ritornello indimenticabile in cui ci si chiede se geoff tate sia un essere umano, è metal ma è molto più narrativo e cerebrale di ciò che gli sta attorno, sembra una sintesi più matura di ‘the lady wore black’. e allora che dire di ‘roads to madness’? quasi 10 minuti di mini-suite che inaugurano una tradizione di capolavori conclusivi durata almeno fino al 1999. ancora un inizio in crescendo in cui le chitarre alternano arpeggi puliti a riff che sanno di rush in paranoia mentre tate è ancora protagonista di una prova che definire maiuscola è un eufemismo: la sua potenza ha ben pochi rivali, dell’estensione non parliamone nemmeno e l’intensità della sua interpretazione toglie il fiato. la ritmica è un’altra arma del gruppo spesso sottovalutata, specialmente jackson al basso, sempre presente con belle idee e un gran suono, al contrario di moltissimi suoi colleghi. la cavalcata finale è la ciliegina sulla torta che chiude un album fantastico e, per molti versi, avanti sui tempi.
per la teatralità si potrebbe tracciare un parallelo con i savatage, i quali spingevano ancora di più su questo aspetto e meno sul lato progressive, pur avendo poi pubblicato 4 concept album propriamente detti. di certo a entrambi i gruppi piaceva mischiare certo broadway con il metal e avevano capito molto meglio di altri coevi l’uso delle dinamiche.
ho parlato dei capolavori ma le varie ‘warning’, ‘en force’ o ‘child of fire’ non sono molto da meno, canzoni dall’impatto potentissimo ma piene di particolari da scoprire ascolto dopo ascolto.
il disco arrivò al posto 61 su billboard e la band fece un tour degli stati uniti aprendo per i kiss nel loro tour di ‘animalize’ e per i maiden in giro per ‘powerslave’. sì, dovevano essere delle gran belle serate.
se oggi ‘the warning’ può suonare acerbo è perché sappiamo dove sono arrivati i queensryche dopo, sappiamo che era solo l’inizio. se il gruppo si fosse sciolto subito dopo, probabilmente parleremmo di un album leggendario, un grande tesoro nascosto. ciò non deve togliere nulla ai suoi meriti che sono enormi oggi come lo furono al tempo.