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domenica 15 giugno 2025

queensryche, 'the warning'

 


nel 1984, sotto la produzione di james guthrie, arriva il primo album dei queensryche, ‘the warning’. la formazione di seattle mette subito in tavola tutte le sue carte e inizia un percorso che toccherà picchi altissimi, partendo da un disco che sa di metallo americano anni 80 fino al midollo ma che si distingue da quasi tutto ciò che gli sta attorno, incluso l’ep che lo precede.


ci sono ancora maiden e judas priest, non c’è dubbio, ma nel suono iniziano a filtrare le tentazioni hard-prog dei rush e un immaginario distopico/futuristico/teatrale che prenderà sempre più il comando negli album successivi.

l’ispirazione è già a livelli alti e non ci sono particolari cadute, in compenso gli apici del disco sono capolavori divenuti classici immortali per tutti i fan.

il primo è ‘no sanctuary’, una power ballad che prosegue la linea di ‘the lady wore black’, allargando ulteriormente le trame, lavorando sulle dinamiche e creando lo scenario perfetto per l’incontenibile prestazione di tate. subito dopo c’è il secondo, ‘nm 156’, in cui si affacciano accenni digitali premonitori degli incubi di ‘rage for order’; è un pezzo in cui i riff di degarmo sono uno più bello dell’altro, in cui la ritmica alterna gli stop and go della strofa alla travolgente velocità del ritornello e in cui iniziano ad affacciarsi anche i sintetizzatori, un brano che dopo (quasi) 40 anni ancora non ci si stanca mai di ascoltare.

e non siamo ancora arrivati ai due momenti più alti del disco. ‘take hold of the flame’ lascia senza fiato, il suo teatrale crescendo iniziale, l’apertura epica e potente e un ritornello indimenticabile in cui ci si chiede se geoff tate sia un essere umano, è metal ma è molto più narrativo e cerebrale di ciò che gli sta attorno, sembra una sintesi più matura di ‘the lady wore black’. e allora che dire di ‘roads to madness’? quasi 10 minuti di mini-suite che inaugurano una tradizione di capolavori conclusivi durata almeno fino al 1999. ancora un inizio in crescendo in cui le chitarre alternano arpeggi puliti a riff che sanno di rush in paranoia mentre tate è ancora protagonista di una prova che definire maiuscola è un eufemismo: la sua potenza ha ben pochi rivali, dell’estensione non parliamone nemmeno e l’intensità della sua interpretazione toglie il fiato. la ritmica è un’altra arma del gruppo spesso sottovalutata, specialmente jackson al basso, sempre presente con belle idee e un gran suono, al contrario di moltissimi suoi colleghi. la cavalcata finale è la ciliegina sulla torta che chiude un album fantastico e, per molti versi, avanti sui tempi.


per la teatralità si potrebbe tracciare un parallelo con i savatage, i quali spingevano ancora di più su questo aspetto e meno sul lato progressive, pur avendo poi pubblicato 4 concept album propriamente detti. di certo a entrambi i gruppi piaceva mischiare certo broadway con il metal e avevano capito molto meglio di altri coevi l’uso delle dinamiche.

ho parlato dei capolavori ma le varie ‘warning’, ‘en force’ o ‘child of fire’ non sono molto da meno, canzoni dall’impatto potentissimo ma piene di particolari da scoprire ascolto dopo ascolto. 


il disco arrivò al posto 61 su billboard e la band fece un tour degli stati uniti aprendo per i kiss nel loro tour di ‘animalize’ e per i maiden in giro per ‘powerslave’. sì, dovevano essere delle gran belle serate.

se oggi ‘the warning’ può suonare acerbo è perché sappiamo dove sono arrivati i queensryche dopo, sappiamo che era solo l’inizio. se il gruppo si fosse sciolto subito dopo, probabilmente parleremmo di un album leggendario, un grande tesoro nascosto. ciò non deve togliere nulla ai suoi meriti che sono enormi oggi come lo furono al tempo.

domenica 12 aprile 2020

rush, 'grace under pressure'


parte della colpa per la mancata riuscita di ‘signals’ viene condivisa anche da terry brown, ormai storico produttore dei rush. il rapporto tra le due parti sembra non funzionare più come una volta per cui i tre decidono, dopo nove anni di collaborazione, di cambiare produttore. viene scelto steve lillywhite (u2 e simple minds) il quale però decide di tirarsi indietro due settimane prima che il gruppo entri in studio. panico, colloqui, viene scelto peter henderson, già con mccartney e i supertramp; a questo punto però buona parte del materiale è già stata scritta, lui stesso ammette di non aver potuto fare molto durante le sessioni di registrazione. 
a questo si aggiunge il fatto che geddy tende a prendere il controllo della situazione per non farla crollare e si comporta lui stesso da produttore, creando tensione con un lifeson ancora ingrugnito per il suo offuscamento in ‘signals’. la tensione arriva a un tale punto che in certi giorni i due non si parlano e si scambiano solo foglietti di carta lasciati sul mixer.

nonostante tutto questo, ‘grace under pressure’ si contende con ‘power windows’ la palma di miglior disco del periodo ’80 dei rush, ognuno dei due con i suoi enormi pregi e pochi difetti.
nel caso di ‘grace’, il valore principale che lo distingue da gran parte del resto della discografia è la sua profonda emotività: è un disco scuro, cupo, con un senso di collasso imminente che lo attraversa, in parallelo ovviamente alle tensioni internazionali del 1984. i testi di peart sono tesi, mostrano scene tragiche (‘red sector a’ è distopica ma i racconti vengono dall’esperienza nei lager dei nonni di geddy), tensioni allo stremo (‘distant early warning’, ‘between the wheels’) o malinconici e poetici tributi (‘afterimage’, dedicata a robbie whelan, tecnico del le studio mancato l’ano precedente in un incidente in macchina).
di conseguenza la musica segue questo mood, facendosi ancora più opprimente di ‘signals’, per quanto il suono sia di nuovo equilibrato e aperto. da notare come l’influenza dei police sia già mutata ed assimilata in brani come ‘the body electric’ ma soprattutto nel nuovo stile batteristico di peart, il quale ha fatto suoi certi insegnamenti di copeland e li sviluppa in un linguaggio assolutamente unico, cerebrale e composto quanto melodico e coinvolgente (ad ogni concerto dei rush si possono vedere decine di fan in prima fila imitare le sue memorabili rullate).

le canzoni sono tutti classici, regolarmente accolte da ovazioni della folla nonostante il gruppo si allontani definitivamente dalle tortuose composizioni del passato. ‘distant early warning’ contiene già il dna del disco intero con i suoi sottili cambi di tempo, la sua atmosfera tesa e vagamente aliena resa in modo superbo dagli accordi di lifeson, di nuovo davanti nel mix, intrecciati ai pad sintetici. ‘afterimage’ interpreta il malinconico testo di peart con melodie quasi rassegnate e chitarre apertissime, contrapposte al tiro veloce e aggressivo della ritmica. ‘red sector a’ ha un tiro micidiale, retto da una prestazione maiuscola di peart, nonostante questo gli accordi di synth la rendono una delle canzoni più scure e cupe che i rush abbiano mai registrato. curioso notare come sia in questo pezzo che il ‘afterimage’ si trovi una parentesi centrale quasi psichedelica nella sua dilatazione, con lifeson a contorcersi con la distorsione nel vuoto.
non ci sono pezzi brutti in ‘grace under pressure’, ci sono solo pezzi più belli di altri; l’ultimo di questi è il finale, ‘between the wheels’, una riflessione sul vivere l’attimo, sull’apatia moderna e sulla capacità/incapacità di reazione di fronte agli eventi che si snoda in un brano giocato sui continui levare, sottolineati ora dai synth, ora dalla batteria e con un lifeson straripante accordi, arpeggi e un solo meraviglioso.

se cercate i rush più leggeri non li troverete qui e probabilmente questo disco non è un buon punto di partenza per scoprirli. eppure, tra gli album in studio, è sicuramente fra i primi tre per qualità, compattezza, creatività e incisività. sì, è un cazzo di capolavoro.