giovedì 3 dicembre 2020

jon hassell, 'seeing through sound'


jon hassell, classe 1937, è uno che quando passa lascia il segno. 
studente di stockhausen, collaboratore di terry riley, la monte young, david sylvian, brian eno (che ha scritto un articolo sul suo debito nei confronti del trombettista), peter gabriel, bjork, talking heads, tears for fears, hassell ha mostrato a tutti un modo diverso di fare musica con il suo esordio solista del ’77, ‘vernal equinox’, un disco in cui le culture mondiali si incontravano per creare un suono universale, aperto, vivo. “fourth world” la chiama lui, a sottolineare il carattere trascendentale e “totale” della sua musica.

dopo essere sparito per nove anni, hassell è tornato nel 2018 con ‘listening to pictures’, un disco che introduceva la sua nuova idea sinestetica di musica in cui quasi nulla è ciò che sembra, una continua texture di suoni impalpabili che ruotano attorno all’ascoltatore creando un’esperienza sensoriale più che musicale.
‘seeing through sound’ è il secondo volume ('pentimento volume two', riferimento alla pittura), la continuità è espressa fin dal titolo e la musica non si discosta troppo, se non per un andare ancora più in là, infrangendosi in gocce di suono organizzate per toni e timbro più che per i canonici parametri di armonia-melodia-ritmo. è musica che si nutre dei 60 anni di esperienza musicale di hassell, della sua cultura e studi multietnici, della sua metabolizzazione del miles davis più sfrontato di inizio 70. in questo si può vedere un parallelo con wadada leo smith ma anche per la loro continua ricerca sullo spazio e le forme musicali; del resto hanno entrambi lasciato un segno profondo con due dischi quasi coevi, ‘vernal equinox’ per hassell nel ’77 e ‘divine love’ per smith nel ’79, due album molto vicini per la loro idea “totale” di musica.

non è jazz, eppure gli accordi di piano di ‘delicado’ usano quel linguaggio, non è downbeat ma è difficile non pensare al trip-hop più psichedelico ascoltando ‘reykjavik’ o il commovente finale con ‘timeless’, non è elettronica pura ma l’etichetta di hassell per cui esce, la ndaya, è sotto al gigante warp. ogni tanto compare una ritmicità mantenuta sottopelle (‘cool down coda’) ma in genere è musica che usa la ritmica in un modo completamente diverso, più aperto e fatto di attacchi lunghi, sicuramente vicina alla ambient più profonda che la warp ha spesso pubblicato. la stessa tromba di hassell, quando c’è, è difficile da riconoscere: effettata e trattata in mille modi, diventa una voce lontana e poetica che interviene a commentare (‘unknown wish’) o ad arricchire le trame sottese dal resto dei musicisti, tra cui spicca l’eccellente lavoro alla chitarra di rick cox (affiancato da nientemeno che eivind aarset in ‘fearless’) e quello di john von seggern all’elettronica (ma tutti si occupano di più strumenti).

‘seeing through sound’ è l’opera di un musicista che non ha niente da dimostrare al mondo ma che a 83 anni ha ancora voglia di reinventarsi e trovare nuovi modi per esprimere la sua arte, guardando ben oltre i limiti temporali e assorbendo suoni e idee provenienti da tutto il mondo e da ogni epoca della musica, moderna e non. riuscire a farlo mantenendosi lontani da un massimalismo caciaro e restando sempre bene in equilibrio su una liricità fine e mai pacchiana è cosa che solo un maestro possa fare. jon hassell è un maestro.